Antonio Devicienti su “L’inciampo” di Daniela Pericone (L’arcolaio, 2015)

Daniela Pericone, L’inciampo (Poesie 2010-2015)
L’arcolaio, Forlì, 2015

copertina-linciampo

Questo libro è il risultato di almeno cinque anni di una ricerca e di un progetto di scrittura rigorosa ed esigente nei confronti di sé stessa; tale ricerca è anche esistenziale e conoscitiva e trova, tra l’altro ma non solo, nell’arte di Caravaggio il proprio sottile e tenace filo conduttore, muovendosi tra buio e luce, tra parola e silenzio; L’inciampo è un’opera nella quale la scrittura poetica dispiega la propria complessità e riafferma la propria necessità: intendo dire che la poesia, praticata da migliaia di sedicenti poeti e letta da pochissime persone, trova proprio in libri come il presente la conferma che essa sa essere una modalità per indagare senza pregiudizi né infingimenti gli abissi spalancati dentro l’esistenza, ma tramite gli strumenti raffinati e rigorosi dello stile e della costruzione del testo, guardandosi bene dal solipsismo e dall’inclinazione confessionale, sorvegliatissima per lessico e ritmo.
Tre sono le parti di cui il libro si compone: Stratagemmi di danza intorno ai fuochi, Lo scatto muto della tagliola, Di varchi e di bufere e anche una tale tripartizione rivela la ricerca di un equilibrio compositivo all’interno del quale ogni testo e ogni sezione si corrispondono, dal momento che questi testi compongono un itinerario che, dall’appartenenza ad una comunità (i fuochi intorno cui si danza, come si faceva un tempo nelle società ancora contadine e pastorali e attorno ai quali gli stratagemmi sembrerebbero alludere all’arte poetica) all’attraversamento del dolore anche personale (e ce lo dice un titolo che lessicalmente ricorda l’opera di Iolanda Insana), giunge fino a saggiare varchi e a confrontarsi con tempeste sia esistenziali che amorose (e c’è forse Montale che qui balugina).

Da “Stratagemmi di danza intorno ai fuochi”:

1

Tuttavia
rimango qui, qui 
ritorno ripiegata come un foglio
su cui non cresce il tuo nome
ma flagra nell’aria in attesa
che qualcuno lo afferri per le ali
e lo inchiodi al muro come
un piccolo insetto crocifisso
dalle tue paure
e nel cuore della lotta
da tasche e tagli rotolano
ancora altri chiodi e altri sbagli
finché rimango qui
in assurda difesa
dietro questi occhiali
che mi fissano dallo specchio
ma non mi vedono.

Il “tuttavia” con il quale inizia la lirica e, si presti attenzione, l’intero libro, sembra continuare un discorso già avviato e che potrebbe agganciarsi al libro precedente o, più in generale, innestarsi all’interno di un discorso poetico-esistenziale che in effetti non s’interrompe mai finché dura la vita di una persona; l’attitudine dialogica e conoscitiva si dispiega sia attraverso il ricorso al “tu” che nel tema del nome, per poi accennare all’atto della scrittura (“afferrare” il nome nell’aria, “inchiodarlo” ad un muro, ma ridotto ad “un piccolo insetto crocifisso”); la tensione agonica viene esplicitata nel termine stesso “lotta” e nel rotolare di “chiodi” e “sbagli” dalle “tasche” e dai “tagli”, “altri chiodi e altri sbagli” più precisamente, fino allo sdoppiamento rappresentato dagli occhiali che fissano l’io lirico dallo specchio senza vederlo – è questo un tema che tornerà nel corso del libro, il trovarsi contemporaneamente in due realtà speculari di cui una è evanescente o vuota o, come in questo caso, cieca.

3

Non chiedermi nulla, nulla
ho da dire, né altro m’attende se non
con poco sguardo
sentire quest’ora – ogni ora –
scorrere a balzi sui fianchi senza
sapere se sia polvere d’ossa
o tritume di stelle quel che
resta sospeso confuso al rosso
del fiato alla volpe dei capelli.

(pag. 17)

La poesia di Daniela Pericone è fortemente suggestionata dall’immagine visiva; in questo caso si tratta di una fotografia e più in generale dell’opera straordinaria dell’artista tedesca Anke Merzbach che è una ricerca, tramite l’elaborazione e il montaggio fotografico, finalizzata a portare ad esplicitazione visiva sia l’inquietudine esistenziale sia la violenza che si subisce da una malattia o da un essere umano. Mi sembra che il perno linguistico del testo sia costituito dal verbo “sentire” (o meglio ed efficacemente dalla magnifica sinestesia “con poco sguardo / sentire”, proprio come sembra fare Anke Merzbach) e che “la polvere d’ossa” e il “tritume di stelle” anticipino, anche in termini lessicali, due temi portanti del libro: la riflessione intorno alla morte (che è separazione/allontanamento/assenza/luogo altro/vuoto) e la tensione verso le stelle, tradizionale immagine del bello e dell’aspirazione al sublime. Ci si soffermi sul “rosso del fiato” e sulla “volpe dei capelli” vuoi per l’efficacia delle immagini che per la metafora d’ascendenza barocca (e su di una tradizione barocca in questo libro liberata da orpelli, ostentazioni, vezzi letterari e restituita alla sua essenza di meditazione tornerò più volte); infine si rifletta sulla valenza del rosso, essendo i colori importanti veicoli di significati e di allusioni nel libro di Daniela, in questo caso sottintendendo il rosso la passione e il sangue, forse la ribellione.

E il male torna a profilarsi nel testo seguente, testo coraggioso nella sua lucidità e consapevolezza, impietoso nella sua rivelazione della menzogna:

4

Conoscevo le arti leggevo i segnali
sapevo sapevo di non dovermi
fidare 
una mano mordeva da sotto il tavolo
a mostrare la resa e carte d’avanzo
una casa deforme la quercia
senza più ossa e nodi su nodi
alle dita e quegli occhi allacciati
allo specchio infestati di sonno
in abito di gala la menzogna.

(pag. 18)

*

6

Cadono le mie mani
inerti grevi lente
mai osano l’azzardo
l’intrusione di un contatto
né sanno contenere
l’ombra della tua guancia.
Soltanto lettere
d’inchiostro senza briglie
sanguino sul foglio
un vento benigno le agita
le persuade a fendere l’aria
e puntare dritto al tuo viso
a tentare la carezza che non so
incagliata tra le dita
ora libera e nuda
dentro le parole
che mi nascono tue.

(pag. 20)

La distanza tra l’amore e la scrittura è concretizzazione dell’assenza e del vuoto: amore e scrittura possono essere due forze che, congiunte, si pongono in antitesi a vuoto e assenza, ma, qui, esse non s’incontrano, l’una non può dar luogo all’altro e, si rifletta, l’amore può essere sia quello per una persona viva che per una persona morta, quindi ostacolato e impedito da due motivi diversi e ugualmente insormontabili; viene ad essere così molto pregnante l’idea che la scrittura accada in uno status di mancanza e d’inanità, che si trasformi in uno slancio e sia desiderio, ma ch’essa sia costretta a ricadere, frustrata e consapevole del proprio non saper fare, del proprio non saper colmare la distanza né trovare il viso da accarezzare, e consapevole del voler essere essa stessa carezza, ma costituita appunto delle parole dell’altro (o dell’altra).

8

Un tempo di fiato corto
consumato a difendersi
dalla stupidità
offrendo al mondo
quel che alla sua portata
si aspetta lo corrisponda
bocconi di luoghi comuni
e ovvietà come aringhe
lanciate alle foche allo zoo
parole vuoti a perdere
frasette buone a niente
che non pensi e non senti
il pane degli insipienti.
Scarto di un tempo minore
che non intacca né corrode
mimetismo neuronale
fronte di resistenza
al pattume cerebrale.

(pag. 22)

La tensione agonica, rivolta contro i luoghi comuni e la superficialità del pensiero, l’inimicizia dichiarata “al pattume cerebrale” spiega le ragioni del libro che si fondano sulla ricerca di un linguaggio capace di veicolare significato, severo e preciso nel costruire un’opera priva di derive sentimentali e irrazionali, “fronte di resistenza”. Scrive infatti Daniela:

9

Non del silenzio ho paura
ho paura del vuoto della caduta
del piede in fallo
tortura delle parole incespicate
di quelle senza controllo
delle mie parole allo sbando

le ascolto ragliare in una cantilena
senza motivo senza cervello
nervosamente m’insorgo
al solo sentirle strisciare
sgusciare dalle mie labbra
da sotto la lingua non mai dalla testa

vorrei bastonarle picchiarle
terribilmente sgridarle
e a spinte farle cadere
a calci e unghiate farle rientrare
al recinto dei discorsi sconnessi

ma come mi sanno ridurre perché
non cresca premura né venga
riparo che accolga la mia stortura
l’insensatezza il canto rotto
d’imperfezione.

(pag. 23)

In tale dichiarazione di poetica risiede l’esplicitazione di un modus dictandi che accade anche grazie ad una sorvegliatissima tecnica compositiva, sempre attenta ad evitare la “sconnessione”, la “stortura”, “l’inciampo” e non si tratta soltanto di un’esigenza e di un imperativo categorico in sede estetica, ma di una dirittura etica e esistenziale; ben si comprende, allora, perché Caravaggio sia un punto di riferimento per Daniela Pericone e forse anche i grandi poeti e trattatisti secenteschi: non c’è, ribadisco, in Daniela alcun barocchismo, né ampollosità del dire, né ricerca dell’effetto fine a sé stesso, ma certamente c’è la medesima tensione morale e conoscitiva, la disciplina ferrea esercitata sulla costruzione del testo e sull’espressione dei concetti, la severità della forma espressiva. Un Quevedo, un Donne possono essere lontane fonti di un discorso poetico che trova nell’articolazione controllata e giusta dell’argomentazione una sua forza e una sua necessaria serietà. È “ostinazione” di una ricerca, è invenzione di un’immagine originalissima (la “palpebra pensante”), è necessità degli ossimori (“megafono muto”, “voce / senza suono”), è il testo numero 11, insomma:

11.

Quanta ostinazione a inseguire
la parola che schiuda tutto il senso
probabile impossibile di palpebra pensante
l’inutile presunzione di fidare
in un nome che possa scongiurare
la ridda di tamburi della veglia clamante
meglio il megafono muto la voce
senza suono dell’io cosciente del vuoto
silenzio che si fa tuono sfiato di fuoco
polvere in volo.

(pag. 25)

Daniela “ascolta con gli occhi / vede con le parole sulle dita” (pag. 26), imbastendo sinestesie e ossimori in grado di dire questa poesia quale altissima complessità concettuale, irrequieta voce che si stacca da un irrequieto reale, e i talenti sono quelli del “perdigiorno” (ricordate il Taugenichts tedesco?):

13.

Che talento da perdigiorno
passare le ore a scolpire le nuvole
inseguirle di soppiatto come lucertole
e gettarsi a capofitto nei cumuli di meringa
giocare con tutti i venti a chi soffia più forte
farli inciampare rotolare l’uno sull’altro
smettendo all’improvviso per annunciare
l’ingresso trionfale della pioggia
il più bel temporale della storia
con lampi pirotecnici e saette filanti
poi lì grondante a girare all’impazzata
con l’acqua dentro gli occhi
che di laghi salati non sanno più che farsene
le mani in pasta a cuocere il pane al sole
e i piedi a spillo ben piantati sulla luna.

(pag. 27)

Abbonato al programma delle nuvole e Amnesia del movimento delle nuvole mi viene in mente e soltanto per fermarmi a due autori siciliani (Giampaolo De Pietro e Maria Attanasio), ma ci sono anche Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini e le foto del cielo emiliano di Luigi Ghirri a ricordarci che l’inseguire le nuvole non è gioco infantile, ma serissima attitudine a fare arte, cioè a spezzare il solido predominio del senso pratico e dell’ottuso realismo e a trovare il difficilissimo equilibrio tra svagata leggerezza nomade e anarchica e rigore di ricerca interiore. E se la scrittura è “scovare il bianco / nel nero” (pag. 31), essa, oltre che delle nuvole, dei venti e della pioggia, sa dire delle “braccia aperte di una sedia a dondolo”, di “un treno a vapore inutile come l’infanzia”, di vocali come “lanterne” e sul pavimento la neve non è bianca, ma rossa, forse perché illuminata dal riverbero delle vocali-lanterne, forse perché, come riflettevamo poco prima, appassionata e amorosa:

19.

Il violino di un volto
apparso nel tondo dell’alba
subito si allontana
tra gli alberi e la notte
dimentico di sé
di quello che lascia dietro e più conta
le braccia aperte di una sedia a dondolo
un treno a vapore inutile come l’infanzia
un tremore di perla attorno alle parole
sgranate a piccoli sorrisi
il muschio e le frasi dove
ogni vocale è una lanterna
che illumina il pavimento
rosso di neve.

(pag. 33)

*

Da “Lo scatto muto della tagliola”.

È il morire la tagliola che, senza suono, scatta improvvisa e inesorabile:

1.

Sola leggerezza
sarebbe d’essere senza radici
non dover frugare negli armadi
di chi ha girato le spalle
di chi è sparito
dentro i suoi stessi occhi
scivolato nel duro nel secco
che intacca stipiti e gambe
con le sue pose di calma inesorabile
scavando fossi intorno alle case
sui visi tramando e le cose
infrenabile come uno sbadiglio
annoiato al solito finale
come la risata di un folle
che allo squarcio
d’un imprendibile istante
tutto ha intuito e a un tempo
dimenticato.

(pag. 39)

*

3

Ti ho visto tornare
ti ho parlato
da quanto tempo non mi venivi a trovare
eri vero, come sempre, eri presente
ero io che non c’ero, ero dall’altro lato
cielo inverso inventato
mi sono sentita svanire svanire svanire
ero io, rediviva, a morirti.

Qui si tratta di un rovesciamento della prospettiva: una persona cara morta che torna in sogno, ma nel testo di Daniela l’evanescenza e l’inconsistenza caratterizzano la persona ancora viva ed è proprio questa a trovarsi “dall’altro lato”, a svanire, a morire davanti agli occhi del morto, come se la verità fosse che non i morti scompaiono ai vivi, ma i vivi ai morti, non essendo, sembra suggerirci la poetessa, autentica la nostra esistenza, ma la morte. Dicotomia, doppio, realtà speculari, autenticità e inautenticità si riaffermano (vi accennavo precedentemente) quali poli del libro, come se “l’inciampo” fosse anche questo incappare e doversi fermare nei punti di passaggio o di contatto tra due realtà, una delle quali, la morte, è “Un unico vuoto abissale” (pag. 42) paradossalmente ben più concreto e significante della vita.
Eccone l’argomentata spiegazione:

5.

Talmente fragile il discrimine
tra vivere e nonvivere
tale l’inezia l’istante di distrazione
o l’inconoscibile coincidenza
che ne disponga il corso
che tutta la distanza
tra sperare e disperare
è un suono futile di sillaba
per un brillio d’indifferenza
nel gioco a incastro
delle linee al confine del giorno.

(pag. 43)

Infatti:

12

All’avvento del novilunio
quando fitto punge un timore
un intrico si tende di occhi
da predatore, fugge l’insetto
alla corolla, un canto si torce
in gracidio stolto di rana.
Infuriano sciami d’uomini
senza più ombra – confluire di rive
ai precipizi – inermi gli dèi
dal sogno caduti a vietare i passi
alla sorte, esigui oltremondi
desistono ai colpi d’ariete del vuoto.

(pag. 50)

Non dimentichiamo che Daniela Pericone è conterranea di Tommaso Campanella e che l’intelletto, la sua vitalità, la sua passione conoscitiva nutrono la scrittura, appunto: la migliore tradizione poetica meridionale attribuisce all’intelletto forza di passione e ardore d’amore, non freddezza e distaccato raziocinio, per cui in un testo come quello testé letto la presa di coscienza intellettuale e sentimentale dei “colpi d’ariete del vuoto” che tutto distruggono avviene tramite la rappresentazione di un precipitare delle esistenze (di quelle dei piccoli insetti così come di quelle dei sogni) verso la propria nullificazione e l’autrice si serve di uno sguardo fermo e lucido, che proprio per questo è capace di commuovere.

C’è poi da chiedersi perché l’arte sottile e difficilissima dell’ékphrasis torni almeno tre volte in questo libro regalandoci tre dei suoi momenti più alti; sicuramente l’occhio è, per Daniela, possente impulso alla scrittura, ma si tratta anche del dialogo ininterrotto con un grande maestro del passato che ha conosciuto e rappresentato il buio e l’angoscia, esattamente come L’inciampo attraversa l’angoscia e il buio.

13.

In culmine di stupore le pieghe
del panneggio e l’acqua agitata
del vaso preludono a un passaggio
d’inatteso che percuote
la stasi apparente delle cose.
La rosa tra i capelli e l’altra
recisa d’acqua essudano crudeli
miele di vanità
specchiante fraterno destino
di dissoluzione.

(pag. 51)

Il dipinto caravaggesco Ragazzo morso dal ramarro offre motivo di meditazione circa l’improvviso irrompere del dolore (e forse della separazione e della morte) dentro l’esistere, permettendo all’autrice di guadagnare la giusta distanza da fatti così deflagranti e dirompenti, evitando il sentimentalismo e mettendo in campo una saldezza d’immagini e di scelte prosodiche che assicurano all’espressione poetica la sua validità e capacità di persuasione nei confronti del lettore esigente.
Ma, come per ogni scrittura compiuta, il gesto artistico è anche accadimento conoscitivo e presa di posizione etica, come è dato leggere nei magnifici versi seguenti:

15.

(…)
piuttosto scivolare per sopravvivere
assaggiare l’abisso
guardarlo a occhi salati e spalancati
sentire che si muore d’inedia
in superficie che andare verso il fondo
è risalire.

(pag. 53)

Il paradosso, il rovesciamento delle nozioni comunemente accettate rendono questo testo sorprendente e dirompente nelle sue affermazioni; la “maraviglia” di matrice barocca s’offre rinnovata e totalmente deprivata di ogni valenza esibizionistica, diventando la necessaria testa d’ariete per spalancare il pensiero, destare l’attenzione del lettore.

Ma l’inciampo forse più pressante e minaccioso è e rimane la morte; ecco un testo che, dotato di una musicalità da andante moderato, mette definitivamente le carte in tavola:

17.

Non è il caso, mia signora
di finire proprio adesso
ne ho sprecato già di tempo
e perciò non è lo stesso
dire basta a quel che resta.
Sì, lo so, non conta niente
che io pensi non ancora.
O forse no.
Se m’ingegno, se m’impunto
se mi aggancio in ogni cellula
alla soglia
finirà ch’io perda il fiato
ma può darsi, mia signora
che di avermi dopo un po’
passi la voglia.

(pag. 55)

*

Da “Di varchi e di bufere”.

“Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe”; “Il varco è qui?”; “La bufera e altro”; “quello che non siamo, quello che non vogliamo”: citazioni montaliane, è ovvio, per riflettere sul fatto che Daniela Pericone muove anche da alcuni capisaldi poetici e concettuali del poeta ligure per segnare una propria rotta autoriale e personale:

1.

Io non ho soluzioni da dare
dovrei dire che quelle rimaste
siano solo risposte sbagliate
e tanto sapevo e sentivo
se annodavo un capestro ai capelli.
Eccomi ancora così
scolpita nel tempo a un’assenza
d’accordi, esiliata alla fonda
con un piede nell’acqua di mota
a parlarmi da sola, a ripetere
che va bene così, che pure una storia
maestosa sarebbe finita
ch’ogni cosa è in scadenza
– si perde la nota perfetta nell’aria insonora.
E seppure la ignori non posso evitare
una fitta infedele
– le risposte diventano schiuma
evanescenza di ipotesi, sentieri
che ridono ma non portano a niente
perché qui e ora e ancora
è un’altra la vita, un indizio
di luce inesplosa.

(pag. 59)

La verità tutta umana di una vita che sembra essere sempre altrove, di un nucleo di luce non ancora giunto fino a noi, di un’assenza o di una mancanza, dunque, muove una scrittura-scandaglio modernamente intrisa fin nelle midolla della propria attitudine al dubbio, all’interrogazione, al rovello mentale.

3.

Lo scirocco è una guerra
d’aria che mastica sabbia in rivolta
si oppone alla fretta al moto apparente
della calca a quel correre sopra sotto
o solo in tondo senza arrivare mai a niente
casomai finendo in un tonfo
ma non al fondo soltanto intorno
in un giro inconcludente.
È allora che il vento interviene
strappa le redini all’auriga terrestre
e s’inturbina attorno a un groviglio
di sassi vuoti e di spini a quei sacchi
pieni d’ossa cavi di suono
privi di senno colmi di sonno.

(pag. 61)

Mi perdoni Daniela se nel continuare a leggere il suo splendido libro mi si affacciano alla mente nomi e testi, ma è mia convinzione che sia un pregio se una lirica o un’intera silloge richiamano per affinità o per opposizione altri libri, altri autori: la scrittura è anche un dialogo ininterrotto, un labirinto di rimandi vivi capaci di moltiplicare le valenze già numerose di una scrittura valida e sapiente; e così, il tema dello scirocco non può non rammentare Montale e Lucio Piccolo (e, ne sono sicuro, Daniela era ed è consapevole del fatto e questo va ad ulteriore lode per il suo lavoro, ché non si è sottratta al confronto); trovo questi versi della poetessa calabrese perfetti nella loro postura prosodica e nella concatenazione delle immagini; mi scuso, ma sono costretto a ribadire ancora la compattezza dell’intero testo e del pensiero ivi espresso, la saldezza dell’ideazione e della sua esecuzione. Lo scirocco (è una “guerra d’aria” con triplice presenza del suono “r”) “mastica la sabbia” e le sibilanti tornano nei versi successivi (“sopra sotto”) (“solo … senza … casomai”) per poi cedere il passo al ricorrere del suono “f” (“finendo … fondo … tonfo” e si noti che “fondo” e “tonfo” si richiamano strettamente anche per inversione dei suoni consonantici fondo – tonfo con un’interessante variazione della dentale sonora in sorda); il testo, aritmeticamente strutturato in una prima parte di 8 versi e in una seconda di 6, una sorta di sezione aurea, prosegue in quest’evidenziazione delle sibilanti (“strappa … s’inturbina … sassi … spini … sacchi … ossa … suono … senno … sonno” e l’ultima sequenza di tre sostantivi s’impernia sulla variazione dell’elemento vocalico, conservando la medesima struttura consonantica s-n- con raddoppio della nasale negli ultimi due sostantivi, cosa che possiede anche valenze concettuali, essendo dato il “suono” che esprime l’assenza di “senno” e trapassante quest’ultimo in “sonno”); ma non trascuriamo l’altrettanto importante ricorrenza di “v” (“vento interviene … groviglio … vuoti … cavi … privi …” e anche in questo caso ecco un elemento interessante: i tre aggettivi appartengono tutti al campo semantico della privazione e dell’assenza, mentre un solo aggettivo, “colmi”, interviene dal campo semantico contrario, ma è riferito a “sonno”). E si noti di nuovo l’alto tasso di presenza del suono “r” (“È allora che il vento interviene / strappa le redini all’auriga terrestre / e s’inturbina attorno a un groviglio”: variatio -ent-/int-, come si nota, con int- ritornante in “s’inturbina”). Ancora per dimostrare l’importanza degli elementi sonori, soffermiamoci sul ricorrere della rima in -ente, distribuita in maniera irregolare nella prima parte del testo, ma comunque significativa (“apparente / niente / inconcludente”) perché dice anch’essa di una privazione e di un vuoto.

Quanto è necessaria la poesia? Daniela sembra rispondere a questa domanda con il suo leopardiano fissare l’arido vero, denudato di ogni retorica e trionfalismo, rapportato a una concezione dell’esistenza antimetafisica e disillusa (il che non vuol dire affatto priva di slanci e di sogni, di entusiasmi e di passione come già sottolineavo richiamandomi a Campanella):

5

Tutto quello che vale
resta dentro e ha mutato
fiumi interni e vie
dell’essere e ricordi.
Forse pure i versi
non hanno altre ambizioni
che innescare intermittenze
d’emersioni se anche tentino
arginare la cordata dei naufragi
confidando che
un mai più valga quanto
un chissà dove ancora quando.

(pag. 63)

I “naufragi” sembrano richiamare gli “sbagli” e i “chiodi” del testo incipitario, i versi vengono qui riconosciuti quale debole arma contro i fallimenti, quali strumenti per far emergere quel che vale e che rimane nascosto dentro una persona. Ed ecco, di nuovo, Caravaggio:

6.

In guerra di lume e ombra
staglia dal fondo cupo la figura
verso l’occhio di chi la spoglia
si orienta d’obliquo il raggio
in modo che allo sguardo
splenda soltanto un volto
al centro del paesaggio
da rovine di tenebra
le parti lasciate in fosco.
Così si vive trascurando il buio
in un inganno di luce.

(pag. 64)

Ché la dicotomia già riconosciuta tra due diverse realtà è, qui, quella radicale tra luce e buio, riassunta nella sentenziosità del distico finale: ben lo sapeva Anna Maria Ortese, ad esempio, che nel Cardillo addolorato narra proprio l’ombra, la tenebra, il nodo inconfessabile e oscuro che si celano in una città (Napoli) celebrata per la sua luminosità, ma molti sono gli autori “meridionali” che, rovesciando lo stereotipo della luce mediterranea e del lirismo ad essa connesso, ne evidenziano l’inquietante e problematica presenza notturna, buia, talvolta maligna: Cattafi, D’Arrigo, Calogero, Piccolo… Caravaggesca è la guerra tra “lume e ombra”, caravaggesca l’ispirazione per questo testo; inquieto e in guerra con sé stesso e con il suo tempo, il Merisi incarna lo spirito di questo libro, descensio ad inferos e canto di un desiderio che sa perfettamente di non poter trovare né un luogo né un tempo metafisico in cui avere definitiva e non fallace realizzazione. Direi che è proprio lo slancio del desiderio a trovare il fatale inciampo del tempo umano, limitato e presto finito, e del nulla dentro cui l’universo stesso galleggia.
E infatti:

7.

Ancora intrusioni di malessenza
in queste case colate di negrezza
risvegli diroccati scalinate senza più appigli
balaustre divelte ballatoi su precipizi
ramaglie invelenite occhieggiano dalle rovine
sole insegne in rigoglio pentacoli maligni.

(pag. 65)

“S’inciampa” nel male e nella rovina, la “malessenza” e i “pentacoli maligni” aprono e chiudono il testo, testo che è una sorta di ékphrasis di architetture andate in malora, metafora, ovviamente, del rovinare del mondo. Ma proprio dentro una tale realtà ecco il fare e il farsi della scrittura:

9.

Ogni volta che scrivo
dal mio occhio blu
è uno scroscio di labbra
un ritorno di pioggia nelle vene.
Forte e breve se d’impulso
prontamente mi dileguo.
Ma non tutto è deciso che si perda
riavvolgo le parole più invasate
combatto corpo a corpo
le impasto le ammansisco
trasmutate in grani rilucenti.
Prima o poi le incontrerai
salutandole saprai di avermi dentro.

(pag. 67)

È il nascere della scrittura o il sentimento amoroso il tema di questi versi? Risponderei: entrambi, date le loro numerose affinità e posto che scrivere e leggere sono entrambi atti d’amore nei quali accade “uno scroscio di labbra” (splendida espressione!), “un ritorno di pioggia nelle vene” e un incontro grazie al quale scoprire che le parole sono a noi già dentro; tra il dare e il ricevere amore, oppure tra lo scrivere e l’essere letti c’è il “corpo a corpo” con le parole, un vero e proprio combattimento. E mi colpisce non poco l’occhio blu della poetessa, indimenticabile immagine d’una sorgente da cui sorgono lo scroscio e la pioggia; poi il blu, di nuovo, nel testo seguente:

10.

Mi chiami come se
t’avessi sottratto qualcosa
come se fosse toccato
a me trattenerti
mi guardi e non parli
dal tuo fondo di blu
come a spiegare che
è questo il colore del buio
un lampo d’algore l’inciampo
prima del nulla più oscuro
del pieno nel vuoto.
Il blu è solo
un bagliore del nero
l’ultimo aggancio
alla vita che già
adesso ti ha perso
più ignara e più stupida
senza un segno di te
senza te che la guardi
e la pensi e solo pensandola
diventa la vita che è
la non morte di me.

(pag. 68)

La finezza argomentativa messa in campo da Daniela, sostenuta dalla sua sapienza nel disporre gli accenti e nell’andare a capo dei versi, riconferma qui l’identità tra poesia in quanto arte del bello scrivere e forza dell’intelletto, atto stesso d’intelletto; noi Italiani abbiamo nella Comedia dantesca il riferimento più alto, ovviamente, per quel coincidere tra “alto concetto” e bellezza di dizione; Daniela Pericone ci offre in questo momento una riflessione sull’assenza (la morte) di una persona amata e l’intero libro riflette sull’inciampo continuo che è il pensare o il ricordare chi per un motivo o per l’altro s’è allontanato da noi; l’invenzione sublime dell’autrice reggina è il “fondo di blu”, “colore del buio” e “lampo d’algore”, “un bagliore del nero”, sintagmi tutti d’estrema e non lambiccata eleganza che rimandano, non lo si dimentichi, ad un dolore lancinante e non rimarginabile, ancor più umano perché non gridato e non ostentato, ma rappresentato in una sequenza di versi sigillati da un distico che ha la medesima forza in clausola finale che nel sonetto shakespeariano (tanto per ribadire il legame che continuo a scorgere tra questo libro e la più alta tradizione europea del Cinquecento e del Seicento, un concettismo rinnovato e moderno, del tutto privo di ostentazione, per nulla superficiale né virtuosistico, ma necessitato dal testo stesso che, a sua volta, nasce dal pensiero e dalla percezione): “diventa la vita che è / la non morte di me”.

I testi non vanno mai, per lunghezza, oltre una pagina e ce ne sono numerosi molto brevi, questi ultimi spesso più lirici degli altri, quasi che, orchestrando il proprio libro, Daniela Pericone avesse voluto intervallare alle composizioni più lunghe e concettualmente ardue o complesse, dei momenti di maggiore distensione e di più marcata luminosità; ché, imparando anche dal Caravaggio, la poetessa sembra aver voluto imbastire un fraseggio di variazioni tra luce e ombra, tra dolore e rattenuta speranza, ma mi azzarderei a richiamarmi anche a Bach, alla geometria dei suoi edifici musicali all’interno dei quali tenebra e luce conflagrano, pensiero e sentimento sottopongono sé stessi ad una ferrea disciplina etica e artistica:

12.

Tenevo una quiete di temporali
in una buca scavata nelle tasche
ora mi gocciano dentro
mi prendono per mano
sono la gioia delle pietre.

(pag. 70)

Resta in ogni caso una suggestione della notte e del buio a generare (“infettare”, scrive l’autrice) versi di una lingua che conosce il freddo del marmo (la morte? la non vita?) e il caldo della brace (la passione amorosa? la vita stessa?), a stimolare visioni portentose come può accadere, aggiungo io a mo’ di personalissimo commento, entro una “linea borbonica” della poesia italiana che si tiene (e per fortuna!) lontana dal cronachismo e dalla mimesi del parlato predominanti in molti autori della penisola, ma che possiede un moto di liberazione proprio della visionarietà poetica; ecco come, con compostezza e dominio della forma, Daniela esprime una materia di tale incandescenza, ribadendo la portata dirompente d’una poesia altamente problematica e per niente incline a consolare, a tranquillizzare:

13.

(…)
Di lato alla notte crepita una luce
a segnare in quale punto dell’inverno
si vada – ho sogni brevi perturbanti
e ne ho infettato i versi d’una lingua
che sa di marmo e brace perché
possa presto liberarmi e visioni di tale portento
che non mi stupirei se d’improvviso si levassero
a sperperare misure sparigliare equazioni
(…)

(pag. 71)

C’è poi una geografia precisa dello scrivere di Daniela, in realtà un punto ideale situato tra un’isola (la Sicilia) e un continente (le Calabrie, l’Italia e l’Europa):

15

Dinanzi a queste righe
dorme la stanza di neve
solleva il lenzuolo fin sopra la testa
si gira di profilo al giorno
si perde tra un’isola
e un continente.

(pag. 73)

Interessante, non trovate? Situare la propria scrittura di fronte ad una “stanza di neve” (l’Aspromonte?), vedere muoversi ciò che di solito percepiamo mastodontico e immobile, perdersi con esso dentro il giorno “tra un’isola / e un continente” dice esplicitamente di uno spazio entro cui la mente poetante si muove, di una sua necessaria geografia innanzitutto interiore, narra di una biografia di cui si prende coscienza.

16

Con il lavorio della talpa scavare cunicoli
entrare a muso basso nei nevai non sentire il gelo
degli insulti dei volti deformati alle menzogne irrigiditi
alla diffidenza da leve malvagie d’ambizione
con la pazienza del lemure abitare le grotte
imbottire di muschio le cortecce degli alberi
rannicchiarsi alle radici e bere alle fonti trascurate.

(pag. 74)

In quest’ultimo testo così compatto si esplicita una condotta esistenziale e un modo di considerare la poesia, ma anche di scriverla, che evita con cura barocchismi e abbellimenti capziosi per trovare una concentrazione lessicale e concettuale che fanno della scrittura in versi il luogo anche etico del vivere; “lavorio” e “pazienza” sono i vocaboli-cardine del testo n. 16, precisa affermazione di una dirittura esistenziale ed etica in controtendenza e in cosciente dissenso con la mentalità dominante.
Infatti, a seguire:

17

Scrivo per colmo d’errore
traccio un frego sul foglio
in compenso allo sbaglio d’essere
impronta in pasta di donna
fronda di seme selvatico in cardine
ai venti contrari

a riscatto una penna sbilenca un arranco
mia rivincita grama contro il caso
malfido che ha distolto un destino
d’azione o di scienza padrona dei passi
non un dubbio né un’uggia con sé

– io so lo sconcerto a una vita
compressa in due lettere strambe
testarde a legare assolvere un senso
che altrove non sia o un varco
tentare di stelle.

(pag. 75)

Ecco: torno a lodare la saldezza e la perizia stilistica di Daniela Pericone, torno a sottolinearne il dominio sull’espressione poetica che, evitato il naufragio nello psicologismo e nel sentimentalismo, si confronta con uno “sbaglio”, si fa “riscatto” e “rivincita” (seppur “grama”), ricerca di “un varco” verso le “stelle”. Affidarsi alla poesia, ad essa votarsi è ancora oggi motivo di conflitto interiore (essa “ha distolto un destino / d’azione o di scienza padrona dei passi / non un dubbio né un’uggia con sé” – mentre quanti dubbi e ugge accumula poesia!), di “sconcerto” perché la scrittura sembra inseguire sempre un senso che però sta “altrove”, in una dolorante divaricazione tra il qui dello scrivere e l’altrove del senso.

Concludo soffermandomi sull’ultimo testo della raccolta, ma mi sia permessa una notazione di carattere strettamente personale: come per Gianluca D’Andrea che ne parla nella prefazione, anche per me il primo incontro con la poesia di Daniela è avvenuto grazie a questi versi pubblicati per la prima volta su Carteggi; ékphrasis dell’immagine fotografica Oranges, Box and painting on Door di John Chervinsky, il testo ebbe su di me un fortissimo impatto, in quanto vi riconobbi una mia precisa idea di poesia, vale a dire la sapiente tessitura di concetti, ritmo e linguaggio capace di aggiungersi alla fitta trama della realtà, illuminandola e costringendola a farsi percepire da una visuale nuova e inedita; è in questo senso che Daniela conferma la validità dell’ékphrasis quale atto artistico e conoscitivo non descrittivo, ma a sua volta inventivo:

18.

Uscire da sé stessi lasciandosi
scivolare dalla pelle come un accappatoio
dal gancio delle scapole
appoggiare gli occhi sul tavolo
un tavolo uscito da sé stesso dalla vita
in cui non era che una porta
stanca di stare in piedi sempre sull’attenti
a guardia di un’isola senza pareti
– la porta è l’unica parete ma è soglia invalicabile
prigionia di uccelli e caronti –
s’immagina nell’ora più indifesa addormentarsi
si pensa orizzontale si corica ed è un tavolo
ora porta il peso di mille arance
rotonda beatitudine di sole e pianeti
che oscillano in visioni
parvenze di spazi senza luogo
di tempo senza passato
e nessuna soluzione.

(pag. 76)

Il testo è strutturato in due lunghi fraseggi (da “uscire” a “pareti” e da “s’immagina” a “soluzione”) con l’interludio di due versi che, significativamente, tematizzano l’immagine della porta-soglia e della parete; a loro volta i fraseggi sono ritmati dai perfetti e tempistici a capo dei singoli versi: un capolavoro di ritmi e di cadenze, un gioiello cesellato con estrema cura che, perfettamente concluso e rotondo come le arance, affascinante e misterioso come una porta chiusa, invitante come una soglia e duttile come una porta trasformata in tavolo, sembra possedere la capacità di offrire, in uno sguardo sinottico, l’universo entro cui viviamo e nel quale tutti i tempi sono compresenti, dal quale solo la fantasia sa farci fuggire, ma al quale rimaniamo, comunque, indissolubilmente legati. “Uscire da sé stessi” significa cercarsi altre possibilità d’esistenza, superare l’inciampo di una sola vita (questa qui dentro cui si sta, come prigionieri), aprirsi, ancora, di nuovo, a visioni. E allora sì, concludo: nella perfetta struttura formale, nel dominio sulla lingua e sui ritmi, il presente è un libro visionario, pendolare tra un qui e un là, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere o si vorrebbe che fosse.

Antonio Devicienti


In copertina: Daniela Pericone (Foto: Mauro Corona).

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