di Diego Conticello
«La natura, potrei rispondere con una battuta, non esiste più da moltissimo tempo, ha finito di esserci, la natura perlomeno con tutta l’aura di naturismo e di idillio che si porta dietro. Non c’è più il nostro rapporto con la natura come la crediamo ingenuamente di vedere; appena la vediamo smette di essere natura, è parte di noi, del nostro mondo umanizzato, con tutto ciò che ne consegue.
[…] In me c’è un interesse molto forte per le zone di confine e di frontiera, in questo caso di confine e di frontiera tra il mondo umano e il mondo disumano. […] Il paesaggio è un’altra cosa, il paesaggio invece esiste, anzi esiste proprio perché non esiste più la natura, essendone fuori noi vediamo il paesaggio che, per esserci, ha bisogno di una distanza; ciò che noi vediamo come paesaggio non ci comprende, per definizione. In più il paesaggio che vediamo è stratificato, non soltanto dalle ere geologiche ma dalle epoche storiche ed è, credo, la sola dimensione in cui possiamo muoverci se accettiamo davvero di aprire gli occhi e di non fingere». Con queste parole, non molto tempo fa, il poeta Fabio Pusterla rispondeva ad una mia domanda all’interno di una più ampia intervista pubblicata su Carteggi Letterari, e le stesse parole potrebbero calzare perfettamente anche come esplicitazione del pensiero che sta dietro a questo nuovo libro di Marco Aragno, Terra di mezzo.
Questa terra, geograficamente a metà strada fra il luogo di nascita delle mafie (Sicilia, Calabria) quale mediatore delle illusioni del mondo contadino (come si sa le mafie nacquero inizialmente sottoforma di sindacato agricolo degli agricoltori) e il luogo d’approdo politico delle sue fattive realizzazioni (Roma capitale) è la Campania: Terra dei fuochi, terra martoriata, devastata, terra dello sfascio, delle ecomafie, terra dissanguata, terra di proteiformi mali, di incendi e di depositi radioattivi, di monnezza e di spaccio, forse ultimo confine dentro il quale il vero latitante è lo stato, il tanto decantato “welfare”, dove parte della popolazione è costretta ancora a vivere di espedienti diuturni e notturni in un ritmo circadiano della civiltà sempre ai bordi dell’inversione. E in questo contesto vive anche il nostro, che peraltro ha scelto di intraprendere un mestiere, quello del giornalista, molto spesso in aperto conflitto con i suddetti poteri. Ed è proprio da questa forma mentis che tutto annota e registra che parte la speculazione di Aragno sulla salvaguardia di quanto di civile e bello resiste in questo contesto così complesso e ostruzionista:
Tieni a mente le notizie sparse
gli avvenimenti minimi
i fatti relegati ai margini del viaggio.
Tieni a mente l’insetto che annega
nella goccia del finestrino
scivolato agli angoli della visuale,
corpo affiorato mentre osservi il paesaggio
avvolto in un giorno di pioggia.
Le piccole cose, le apparentemente marginali devono avere la dignità di essere trascritte e riscritte per non dimenticare una “Terra-insetto” che affonda e annega ignorata ai bordi della civiltà, mentre tutto continua a scorrere indifferente. Tuttavia permane sempre l’idea di fondo di un percorso, di un viaggio, dunque di un cambiamento ancora possibile nonostante chi vi rimane non riesca a vedere le cose in maniera chiara e, quando vi riesce, rileva ancora più storture e aberrazioni che soppiantano molto spesso la bellezza, rappresentata dagli ultimi guizzi del paesaggio, della natura.
Ormai fra non molto la nebbia
avrà fatto uguali le cose
spegnendo i segni dell’ultima estate.
La casa a poco scivolerà nel bianco
lasciando i corpi in attesa
a fissare la pianura.
Eppure chi rimane vedrà stagliarsi
fra le brevi folate del vento
scheletri di grattacieli a mezz’aria
e qualche gru sospesa nel vuoto –
là, dove un tempo avresti immaginato
un bosco, uno stormo in volo
e il mare scuro a luccicare fra i rami.
Si arriva persino a prefigurare una sorta di post-ecosistema,
Ma forse riconosceranno
Il brivido che siamo diventati
il suono che lasciammo passando
per lampade fulminate, per scambi
veloci di rotaie – o forse
faranno a meno dell’incontro
serale, davanti al tavolo della cena
a meno della preghiera
che pietosamente ci riunisce
quelli che abiteranno queste mura
una volta spezzata la chiave, forzata
la toppa, fatta a brandelli la rete
che cinge i confini della casa.
tanto è il timore di chi vede ogni giorno l’ambiente che lo circonda mutare in peggio, sgretolarsi letteralmente sotto i piedi all’emersione di scorie, di scarti, di truffe, di appiccamenti di vario genere, di tossine per cui quasi non serve Attendere nessun allarme, siamo già in aperto conflitto per cui ormai bisogna solo resistere, trincerarsi, essere per quello che è possibile agonisti quotidiani senza essere necessariamente eroi.
Non attendere nessun allarme
anche se sarà notte fonda
e dalle vetrate vedrai la città che brucia
coi roghi, i fumi delle discariche.
Qui la campagna sotto casa
sanguina dai solchi
quando l’alba sbuca come una ferita
fra i cartelloni pubblicitari.
Le auto si riversano sui cavalcavia
come formiche dalle tane
allagate dalla pioggia.
Ma tu resta, stringiti a questa maniglia
chiudi questi palmi finché puoi.
L’altro polo compositivo della ricerca di Marco è certamente costituito dal modello cattafiano, e dalla vis querelante le storture di un mondo ormai in declino fisico e morale. Ne abbiamo un esempio lampante nel testo che inaugura la sezione eponima del volumetto, in cui si legge:
Mentre avanzi fra le alghe
avvisti l’albero ritorto
che riaffiora dalla schiuma del lago;
l’uccello dai colori primitivi
staziona sull’estremità
prima di volare basso, radente
dentro un cielo disceso nella ruggine.
Bisogna dunque abituarsi, si chiede Aragno, a questo scenario di miseria della contemporaneità, sociale e civile dove resiste solamente qualche breve guizzo di bellezza, rappresentato da un raro volatile, simbolo di un passato ancestrale ormai perduto? E come non ricordare i simili accenti, e le straordinarie somiglianze – anche verbali – dell’autore de L’osso, l’anima:
Domani apriremo l’arancia
il mondo arancia nel verde domani,
si poserà la nuvola lontana
con le zampe guardinghe di colomba
sopra il tetto di tegole vecchie
sopra il tempo piovuto rugginoso,
serberò al tuo petto quell’odore
d’arancia viva, di verde domani.
Non è dato sapere nemmeno sapere circa l’utilità della scrittura in questo contesto talmente reprobo e di apparente de-significazione (e si rimanda ancora alla lezione dei Segni di Bartolo Cattafi), pertanto l’azione scrittoria si potrebbe anche concludere con la sostanziale “inutilità della poesia” ricordata anche da Ripellino: «L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Le squallide vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della poesia, perché essa, sempre più scalzata sui margini, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. La poesia è magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione. […] Scriver poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomàsie e delle assonanze la Morte»:
[…] Ma prima che si potesse
trarne un significato
dare una forma a quei labili segni
il bianco si riprese di nuovo
l’interezza del paesaggio
e lasciò il vento
a confondere ogni ordine di canto,
a convertire i cenni
emessi dal fitto della foresta
in rumori indistinti
in inutili versi notturni.
E se la natura riesce con molti sforzi a manifestarsi in questa terra di mezzo dimenticata dal mondo è ormai solo per via taumaturgica, altrimenti la terra è sterile, abbandonata, vergine di ogni nuova gemmazione, di ogni futura “nascenza”, dunque di ogni sperata prospettiva futura:
Camminiamo su questa piana
spoglia di case e ricordi
vergine di frutti
avvolta dal miracolo del muschio.
Il verde scricchiola sotto i piedi
copre ossa, strati fossili
d’altre vite sepolte negli anni
che a volte riemergono come fantasmi
nelle nebbie del mattino
al suono leggero del tuo passo.
Unico spiraglio a cui appigliarsi resta quello della memoria, del rimando al passato perché nella vita, così come nella lingua (vorrei ricordare l’assenza dei tempi verbali al futuro in diversi vernacoli del meridione d’Italia) non è possibile intravedere spazi di vita in una prospettiva a lungo termine, ma solo sprazzi di mera sopravvivenza (non a caso è disseminata nel libro una presenza diffusa di verbi al passato, anche questi – forse – di ispirazione cattafiana).
Bisogna inventare nuovi nomi
per il deserto che ci attende,
dai pochi sprazzi di verde
sopravvissuti al fango
tirare fuori un minimo di senso
per spiegare chi non c’è più.
Solo così avremo nuova pelle
contro il freddo che verrà,
occhi affilati come coltelli
nel poco sole che ci illumina.
Tuttavia l’imperativo (fattivo e verbale) che Aragno intende far passare è quello della resilienza estrema, della scrittura così come della vita (e pensiamo ancora al modello di Pusterla), nella ferma volontà di riattivare il più possibile gli spazi memoriali nel tentativo di estrapolare un senso che possa contrastare le anomalie e le antinomie del mondo e aiutarci a ‘rivivificare’ la realtà che ci circonda, poiché un margine di bellezza sempre esiste Dopo di noi, nascosto nelle penombre dell’esistenza, ma pur sempre rinvenibile, rintracciabile, pertanto da difendere dall’orrore imperante cui è sottoposta la nostra epoca.
Nessun gesto, nessuna memoria
potranno salvare questi luoghi
giaciglio di fiori avvizziti
che una manciata di formiche vivifica.
Le vespe ronzanti nella penombra
nidificano fra le macerie
mentre l’edera che ricresce in giardino
avanza nel passato della casa.