Claudia Marin, Imperfezioni, Rubbettino, 2023 – recensione di Ivano Mugnaini

di Ivano Mugnaini

 

Imperfezioni, al plurale. Claudia Marin è autrice attenta e consapevole. Sa che ogni parola ha un suo peso, soprattutto se collocata in luoghi in cui il valore e la funzione connotativa e simbolica sono elevati alla massima potenza. Quella parola, “imperfezioni”, singola, solitaria, in caratteri neri maiuscoli, campeggia sulla copertina del libro a fianco di un corpo femminile, inequivocabile ma sfumato nei contorni. La scritta è collocata proprio al di sopra di due mani poste a difesa del viso, del corpo, del cuore.

Le imperfezioni sono il tema del libro, il casus belli, la fonte primaria del dissidio, ma anche a ben vedere il potenziale punto di incontro in cui il conflitto avrebbe potuto essere evitato. La Marin possiede la lucidità per evitare semplificazioni manichee e per scongiurare la creazione di figure monocromatiche, santificazioni e demonizzazioni assolute. Anche nel suo libro d’esordio, Figlie uniche, ciascuna delle protagoniste femminili aveva difetti, fragilità, assilli, ferite, colpe, rimorsi. In una parola, ciascuna era il frutto di complesse, feroci e sublimi imperfezioni. Nessuna figurina eburnea e immacolata. Donne autentiche, con la forza delle loro fragilità.

Nel romanzo di cui si occupa questo scritto, la variabile è costituita dalla presenza di una figura maschile che riveste un ruolo fondamentale. In Figlie uniche gli uomini erano distanti, nello sfondo, necessari, utili alla trama, alle finalità, ai progetti, alla vita quotidiana. Ma non erano mai carne viva dei pensieri, dei dolori e degli affetti realmente profondi. I veri rancori e gli autentici amori erano patrimonio esclusivo dell’universo racchiuso in un gineceo, in quel lessico familiare coniugato al femminile attraverso generazioni di specchi identici e diversissimi. Il modello di donna dalla personalità fragile o fortissima, eternato in una serie di variazioni sul tema, era concentrata su di sé o su un amore che è ricerca di sé in una figura di madre o di figlia, sempre all’interno di un mondo impenetrabile agli occhi e alla mente degli esseri di sesso maschile.

L’orizzonte è totalmente diverso, in questo libro: l’uomo è l’altra metà, esatta, dello spazio del cielo, della casa, dei pensieri, degli odi e degli amori. L’uomo è presente e imprescindibile, anche quando, come nella copertina, non si vede ma si percepisce, si intuisce. Quelle mani di donna poste a fare scudo al viso, sono le stesse mani che hanno dato e ricevuto carezze, sono le stesse mani e lo stesso viso che sono stati feriti, in modo esplicito o subdolamente indiretto.

“Sospesa nel vuoto. In un attimo non ho avuto più terraferma sotto i piedi né un baricentro nell’anima. Solo un lungo corpo inutile, dondolante oltre la finestra, leggero e instabile come un calzino lasciato sul filo ad asciugare. La gola ammutolita in un urlo di terrore che non usciva mai. L’unico a strepitare, implorando aiuto nella sua lingua, il mio cuore tachicardico. Non sentivo altro che il suo ritmo tagliente, incalzante fino a togliermi il respiro. Non ero più niente. Ero solo paura”. Inizia con queste parole, il romanzo.

Ed è una prima scena che, con una tecnica di impronta visiva, potremmo dire cinematografica, ci immerge immediatamente nell’atmosfera, nel sentire della protagonista. Impone un’immedesimazione. A tutti. Compresi i lettori uomini. Trasmette in modo immediato, fisico, quel senso di svilimento dell’altro, e, correlato a questo, l’urgenza della necessità di proteggere in primis le funzioni vitali, il ritmo cardiaco e il respiro. Di primo acchito, il lettore è condotto a comprendere, anzi a percepire, che l’oggetto della narrazione è reale, o perlomeno aspramente e crudelmente verosimile. E che è in ballo la sopravvivenza, in senso stretto oltre che metaforico.

Qualche riga oltre, “l’inquadratura” narrativa si allarga di quel tanto che basta per farci comprendere che si tratta di un ferocissimo gioco: il marito della protagonista la tiene appesa nel vuoto. “Andrea mi guardava con il suo ghigno di soddisfazione, appagato almeno per quell’istante. Più di così, che vuoi, sembrava prepotentemente trionfare. Aveva ragione: ero totalmente in suo potere. Chissà quanto lo eccitava e lo divertiva già la cosa in sé”. Un prova di forza, un gioco, non casuale: la conferma del potere, della predominanza: “Le gambe nude, rigide, con i muscoli tesi che poggiavano sul suo braccio robusto. L’altro, il sinistro, mi circondava la schiena, avvolta alla meno peggio nell’accappatoio”.

Sarebbe stato un gioco, seppure estremo e di dubbio gusto, se ci fosse stato consenso, intesa, complicità. Ma l’autrice ci ha informato, anzi, ci ha fatto sentire nitido il battito della paura, la gola serrata, l’orrore, lo smarrimento.

Nelle pagine successive, scopriamo che i protagonisti, Azzurra e Andrea, sono una coppia in apparenza normale. Una di quelle coppie che, in un’intervista televisiva a caldo dopo una tragedia, i vicini avrebbero definito “affiatata”, aggiungendo elogi per la loro gentilezza, per lo stile e per i loro figli belli e bene educati. Una famiglia come tante. Ma esistono le porte, spesso isolanti, insonorizzate. Ed esistono le serrature, le chiavi, che non hanno solo la funzione di non fare entrare chi sta fuori ma anche di non fare uscire chi si trova all’interno.

Tornando all’esordio di questa disamina, si potrebbe dire che le umane imperfezioni di entrambi i componenti della coppia non hanno generato dialogo e comprensione, ma hanno dato vita ad un progressivo allontanamento e al deterioramento dell’amore, snaturato fino al punto di diventare in lei accettazione dell’oppressione e in lui sfogo bieco della propria frustrazione, mascherata con gesti in apparenza gentili rivestiti da lussuose e gelide maschere e moine.

A Woman Killed with Kindness è un’opera teatrale dell’inizio del XVII secolo, una tragedia scritta da Thomas Heywood. “Una donna uccisa con cortesia”, è questa la traduzione letterale del titolo. Il lavoro drammaturgico è estremamente distante dal romanzo della Marin, da ogni punto di vista, cronologico, stilistico, contenutistico. Eppure quel titolo risuona ora quasi a costituire una sorta di sintesi, di motto della vicenda narrata dalla scrittrice campana.

Nel libro della Marin la morte effettiva non ha luogo. Ma hanno luogo centinaia di minuscole morti, quelle che ogni giorno si verificano nell’istante in cui la donna sopporta le ferite morali, le angherie, il veleno della mancanza di dolcezza e di amore autentico. Muore, la protagonista, perché per lunghissimo tempo, per l’interminabile lasso di tempo di dieci anni, va avanti senza ribellarsi, accettando l’inaccettabile.

Non si ribella per fragilità, per il bene dei figli, per la parvenza di serenità da ostentare nonostante tutto agli occhi dei parenti e degli amici. Sente di stare bene, a dispetto di tutto, con le sue “piccole cose” familiari. Non si ribella per paura, perché sottomessa al giogo di ricatti espliciti e impliciti, non lo fa per quella pigrizia che sovente si accompagna alla disperazione, nel senso letterale di mancanza di speranza.

Ma, a differenza della protagonista della tragedia di Heywood, Azzurra non muore. Non muore del tutto. Anzi, inizia a vivere nell’istante esatto in cui comprende che la sua fragilità, paradossalmente, emblematicamente, può essere la sua forza. È imperfetta perché è un essere umano. E in quanto essere umano ha due diritti essenziali: il primo è essere considerata tale, ossia beneficiare del rispetto per la propria persona. Il secondo diritto, altrettanto vitale, è ribellarsi.

Una ribellione senza violenza, senza desiderio di rispondere al male con il male. La Marin sceglie una strada senza spargimento di sangue, reale o metaforico. Nessuna emulazione di Edmond Dantès de Il conte di Montecristo né alcuna mitizzazione di Emma Bovary. Azzurra non vuole che il marito perda tutto. Vuole semplicemente ritrovare se stessa. La propria dignità, la propria consapevolezza, il diritto di scegliere chi e come amare, cosa fare e cosa sognare. Non vuole venire distrutta ma non vuole neppure distruggere e annientare.

L’amore profondo per i propri figli e per la bellezza pura dell’arte, la portano a guarire, progressivamente. Non subentra e non prevale l’odio. Ed è un’opzione narrativa di rilievo. I lunghi anni di sottomissione non hanno fatto perdere ad Azzurra la propria natura più profonda e non l’hanno trasformata in altro da sé.

In una della pagine conclusive del libro, nel capitolo dal titolo “Secondo tempo”, Azzurra descrive l’incontro con il marito, avvenuto dopo molto tempo e dopo mutamenti fondamentali: “Forse quindici anni separavano quella estate nascente da quell’ultima vacanza di agosto divisa con Andrea, che nella mente di Azzurra segnava lo spartiacque tra due vite, entrambe profondamente sue ma profondamente diverse, l’una la prosecuzione dell’altra come il primo e il secondo tempo di un film pieno di colpi di scena.

Quindici anni, a ben calcolare. Che cosa era cambiato?

Tutto, si diceva lei in uno dei suoi frequenti momenti di sdoppiamento dei pensieri, in un ping-pong tra il bilancio dei suoi quasi quarantacinque anni e una scorsa veloce alla lista degli ospiti di riguardo in arrivo quella sera al vernissage della mostra. Tutto. Ora era una persona autonoma e nessuno poteva ricattarla, trattarla come un oggetto, tantomeno darle della fallita. Ma subito dopo una vocina dentro di lei aggiungeva che no, non c’erano due vite, non c’erano stacchi netti, nessuna cesura, nessuna fine né alcun inizio. Quello che stava vivendo, nel bene e nel male, non era che la naturale evoluzione di tutto. In fondo non era cambiata gran che, nelle linee principali. Le cose per lei, come dire, si erano soltanto sistemate”.

Le cose si sono sistemate non per magia né per l’intervento di un deus ex machina. Ciò che è cambiato è il modo di pensare di Azzurra, il modo di guardare se stessa in relazione al mondo, alla vita, al senso delle sue stesse imperfezioni.

Nella scena finale, che non sveliamo nella sua interezza, con la forza degli sguardi e dei gesti, quelli che fanno la differenza, Azzurra e Andrea ritrovano la sola armonia possibile, quella di è conscio della violenza commessa e subita, quella di chi sa che il tempo insieme è passato e non può più essere ricomposto e guarito.

La vera vittoria di Azzurra è avere ritrovato la propria dignità di donna senza pretendere di annientare quella del marito. Le ferite ci sono e con esse le cicatrici. Ma c’è anche un tempo da salvare. In quella consapevolezza c’è la sola forma di riscatto anche per Andrea che, in un istante di commozione sincera, ritrova, almeno in parte, la propria umanità.

Non c’è un lieto fine totale e incondizionato, in questo libro. Non avrebbe potuto esserci, sarebbe stato posticcio e innaturale. C’è però una forma di trasformazione del dolore e del distacco in qualcosa che apre uno spiraglio alla serenità del riconoscere e del riconoscersi, al di là di tutto. Questa scelta narrativa conferma la maturità espressiva raggiunta da Claudia Marin che in questo suo romanzo affronta situazioni psicologiche complesse senza mai perdere la credibilità, anche grazie ad una narrazione asciutta e ottimamente calibrata in cui i dialoghi e le descrizioni non sono mai semplici ornamenti ma si rivelano funzionali alla trama e all’evocazione degli stati d’animo.

 

Il tema della violenza di genere è ormai da tempo, da troppo tempo, tragicamente attuale. Ne leggiamo ovunque e ogni giorno vediamo e ascoltiamo resoconti di casi in cui si perpetua un copione ricorrente. Claudia Marin, anche per la sua professione di giornalista, conosce quei casi alla perfezione. Avrebbe potuto scrivere un romanzo che confinava con il reportage. Oppure avrebbe potuto indulgere nei dettagli, nei particolari, dando vita ad un racconto intriso del rosso del sangue, di ciò che resta dopo l’esplodere cieco della violenza, a portata di sguardo, in superficie.

Ha scelto un’altra strada, l’autrice. Ha preferito mettersi in gioco, evitando schematizzazioni e semplificazioni. Ha voluto indagare su ciò che si trova al di sotto della superficie, nelle radici profonde e meno palesi del male che logora i rapporti di coppia.

Ha voluto che nessuno si sentisse escluso, o esentato da una riflessione sul proprio individuale modo di vivere la relazione con il proprio compagno o con la propria compagna. Con una scelta precisa, mirata, ha deciso di ambientare la vicenda in un ambiente borghese, raffinato, colto, dove ogni dettaglio testimonia il successo dei protagonisti, la propria affermazione sul piano sociale, lavorativo, intellettuale.

Ha voluto, la Marin, che nessuno potesse dire “Non mi riguarda: gli uomini che fanno violenza alle donne vivono in periferie degradate, e sono coatti, ignoranti, perdenti”. No, ci dice la Marin, il male di non sapere amare è estremamente bipartisan, trasversale. È diffuso ovunque, supera i confini tra regioni e province, e si spande ovunque, nelle casupole come nelle ville e negli attici. Contagia e raggiunge ogni luogo, è diffuso a Tor Bella Monaca come ai Parioli, a Quarto Oggiaro come a Brera, nelle baracche e negli appartamenti col laghetto con i cigni davanti alla terrazza panoramica, dove bere cocktail sfoggiando con compiacimento un completo di Armani.

Claudia Marin ha scritto questo romanzo sapendo che non si tratta solo di uno svago, di un divertissement. Il tema è scottante, doloroso. Ogni lettrice e ogni lettore è chiamato in causa. Ciò chiaramente non significa che ciascuna e ciascuno siano oggetto o autore di violenza in senso stretto. Però ogni donna e ogni uomo si trovano di fronte quotidianamente alle proprie fragilità nel rapporto amoroso. Tra egoismi, paure, rimorsi, rimpianti, esitazioni, avarizie del dare e mille altre imperfezioni.

Per queste ragioni era necessario scrivere il romanzo con grande attenzione ed equilibrio. Conciliando la necessità di narrare una vicenda di fantasia con la verosimiglianza, e, soprattutto, con il coinvolgimento di fronte a fatti e sensazioni, notevolmente dolorose, che chiunque conosce, vive o ha vissuto.

La Marin ha saputo immedesimarsi, ha scavato dentro se stessa senza tuttavia cedere al patetismo e senza abbandonarsi a colpi di teatro o tirate retoriche e moralistiche. Ha descritto fatti ed emozioni con grande rispetto, anche per le colpe e i difetti, quegli umanissimi errori a cui fa riferimento il titolo.

Il romanzo non perde mai la chiarezza e la nitidezza stilistica, neppure nei frangenti più cupi. Consente l’immedesimazione e favorisce la catarsi. Senza minimamente sminuire il fenomeno, senza sottovalutare la piaga enorme e sanguinolenta della violenza all’interno delle mura domestiche, l’autrice ci addita che la strada possibile di uscita e di riscatto non è l’odio contrapposto all’odio, né il silenzio complice.

Ci indica che la presa di coscienza della propria autentica personalità, la valorizzazione delle proprie qualità e delle proprie inclinazioni, umane e artistiche, possono portare fuori dal labirinto. Si tratta di trovare il coraggio di aprire la finestra e respirare aria nuova. Senza annientare e rinnegare tutto. Ma anche essendo assolutamente consci che ad un certo momento è necessario guardare avanti e altrove. Per trovare, negli affetti profondi e nelle passioni autentiche, il nostro vero sé.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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