Antonio Devicienti su “Persica” di Maria Grazia Insinga (Cierre Grafica Anterem Edizioni, 2015)

Maria Grazia Insinga, Persica 
Cierre Grafica, Verona, 2015

persica

Opere come questa di Maria Grazia Insinga affascinano con la loro apparente enigmaticità e costringono a ripetute letture; e con l’iterazione della lettura, con il letterale interrogare i testi si dischiudono suggestioni sempre nuove. In Persica (Verona, Cierre Grafica Anterem Edizioni, 2015) si riconosce un progetto preciso e complesso, il dire in poesia è maturo, consapevole, personale, ben cosciente di tutto quello che finora altri hanno scritto e/o teorizzato, l’autrice ha il coraggio e la coerenza di affrontare temi molto difficili e insidiosi (il principale è la creazione poetica stessa e il suo ininterrotto confrontarsi con il non dicibile e con il nulla), la lettura viene incontro a lettori esigenti, per i quali un libro di poesia è anche un luogo nel quale il pensiero viene sfidato e sollecitato a non accontentarsi di emozioni o del solo godimento estetico.

Nei primi testi del libro mi pare ci sia una sorta di movimento pendolare che dai testi va a un luogo speciale di Palermo, ovvero Santa Maria dello Spasimo e che da quel luogo si riverbera sui testi. Lo Spasimo di Palermo è una chiesa gotica il cui tetto è crollato, lasciando in piedi solo gli archi della navata e le murature perimetrali; dentro la stessa navata è cresciuto un albero e il luogo, recuperato dopo gli usi più diversi cui era stato adibito nel passato, ospita oggi eventi culturali; ma nei testi di Maria Grazia la valenza del luogo è quella di spazio aperto e chiuso nello stesso tempo, di giardino (anche mediterraneo, cioè oasi e recinto verde minacciato dalla siccità), di memoria comune, d’interazione tra progettazione/intervento umani e natura.

Per l’autrice, mi sembra, il testo è anche luogo che, entro misure precise, accoglie e restituisce il farsi del discorso poetico – da qui deriva la valenza di un luogo come lo Spasimo, che non rimane soltanto un rimando “esterno” o proveniente dall’esterno, ma è figura completa e concreta del testo, anch’esso “scoperchiato” affinché vi entri lo sguardo indagatore del lettore insieme con il suo orecchio partecipe, luogo visibile nel suo perimetro e animato da crescite interne, oltre al fatto che “Spasimo” rimanda al dolore della Vergine per la morte del Figlio (ma l’autrice lascia intendere anche che quello “spasimo” potrebbe essere il medesimo del parto, il polo opposto, ma anche complementare al morire). Ed ecco associarsi, e in più di un testo prevalere, un’altra figurazione del femminile e del dire stesso: Lighea, la Sirena, colei la cui voce (si noti) cattura e rapisce il protagonista dell’omonimo racconto di Tomasi di Lampedusa.

Ma cominciamo a leggere il primo testo del libro:

PARTENOGENESI

La tigre voleva solo nicchiarsi nella mano
credo fosse gravida e non esisteva per questo
alcuna spiegazione. Capire da che parte
fosse entrata era impossibile e all’ora delle doglie
senza alcun mondo – se non un delta tra le schiuse –
spaccavo, leggevo a caso le fratture a strisce
il pellegrinaggio, la purezza fulva a me predestinata.

(pag. 9)

Se è corretta la mia supposizione che già in questi versi sia adombrata la creazione poetica e il suo nascere, la “partenogenesi” sembrerebbe alludere a un’autofecondazione della mente che “partorisce” il testo, ma subito ecco il rivelarsi, inatteso forse, della “tigre” “gravida” e, come legittimamente scrive l’autrice, “non esisteva per questo / alcuna spiegazione”: la tigre, istintivamente immaginata feroce o pericolosa, “voleva solo nicchiarsi nella mano”cercando dunque un contatto, forse un riparo e un affetto; sia chiaro: ogni atto interpretativo, compreso il presente, forza il testo e ne tradisce la complessità e la suggestione, lo notomizza distruggendone l’unità che, sola, garantisce invece la bellezza stessa e l’efficacia del testo – per questo sottolineavo la legittimità dell’affermazione “non esisteva per questo / alcuna spiegazione”: la tigre (la poesia) irrompe, gravida e una tale gravidanza non è spiegabile, né va spiegata – esiste e basta, legittimata da sé stessa, e impossibile è capire da dove sia entrata. Le doglie, il delta tra le schiuse, le fratture a strisce, la purezza fulva (el oro de las tigres di borgesiana memoria?) sono incisive immagini che fungono da preludio all’intero libro, orientando il lettore verso quei motivi conduttori su cui avremo modo di ritornare più volte.

Infatti il tema della creazione poetica si ripropone nel testo successivo e l’asterisco sembra assumere un significato preciso: lega e separa testi affini (questo accade sempre nel libro), stabilisce una cadenza tra testi che possono essere ricondotti al medesimo titolo (qui è, sempre, “partenogenesi”):

*

Lighea resa all’acqua
senza rudimenti di nuoto
– l’afasia – è un infrangersi
che soverchia la voce.

Dirti quel che non so, delle ossa
null’altro – nella distanza – il figlio
perfetto senza seme è una stazione
ogni stazione un pellegrinaggio.

Sine cera, inadeguata
adeguata solo a me stessa
ancora squaglio, nascondo
all’anagogia – al buio – le dita.

E ogni quarto di luna
è un quarticino.

(pag. 10)

Molto, molto significativo è il fatto che Lighea, la sirena, sia resa all’acqua “senza rudimenti di nuoto”, cioè ch’ella sappia nuotare per istinto, senza averlo mai imparato (un po’ quello che Hölderlin diceva dei Greci, e cioè che parlavano il greco “senza saperlo”) e il nuoto naturale e incolto di Lighea “soverchia la voce”, cosicché la tigre gravida, la sirena nell’acqua del mare, la poetessa stessa e il “figlio / perfetto senza seme” sono stazioni di un pellegrinaggio verso la poesia; e a ciò s’aggiunge l’immagine che definirei doppia della poetessa che, “sine cera” (cioè senza infingimenti di sorta se teniamo per vera l’etimologia dell’aggettivo “sincero”, vale a dire “statua di marmo scolpita senza la cera che ne celi i difetti”) pur si squaglia, o anche, la candela (non citata esplicitamente, ma cui irresistibilmente si pensa) è la poetessa stessa in contesa con il buio (qui “anagogia”: interpretazione spirituale della lettera del testo). Il leitmotiv resta così quello di un generare senza concorso di seme maschile, di un essere gravida senza alcuna spiegazione, di un nuotare senza averlo mai imparato: la poesia sembra generarsi da un’assenza o da un vuoto, venendo a esistere e dovendo continuamente contendere il territorio del senso all’insidioso nulla.

Segue uno dei testi più perfetti e splendidi dell’intero lavoro, quasi un carmen figuratum d’ascendenza alessandrina:

LA DRUPA

Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore,
dal terzo, maggiore sortilegio, quello della voce.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Lighea”

Non s’apre la drupa carnosa
la forzi e fuoriesce la voce il sortilegio
argentea moneta a rovescio incuso il delfino
guizzante nel porto falcato fuori corso e prima e
dopo e in corso d’opera voce corriva o circospetta
nelle scorribande del timbro ode e ancora sigillo non
casuale occorrenza corre ricorre pietra sempre corrosa
—————————————————————————————-[dall’acqua…

… e raffiche di realtà penetrano il sacro recinto di ulissidi
———————————————————————————————-[per forza
io senza rumore a ogni punto di morte recito il nome
forzo la sbergia recido litanie isola persica bocca
di terra lilia e lingua di terra nera libro porta e
morso segno logo e nicchio anaïs femmina e
conchiglia fòlade risacca e lunaria cibele
lighea e luce e semenza e poesia

(pag. 11).

Si noti la spaziatura tra i primi sette versi e i successivi sette, si notino i rientri dei versi che sembrano disegnare, appunto, una drupa (magari un’oliva o un frutto dalla forma ogivale, oppure stretta e allungata, una mandorla, o anche una “persica”, una pesca o addirittura una vagina e “anais femmina” sembra alludere appunto al “delta di Venere”), ma cercherò di procedere con maggiore ordine: essenziale è, ovviamente, la citazione da Tomasi di Lampedusa con quei tre “sortilegi”, di cui il maggiore e soverchiante è la voce; poi occorre “forzare” la “drupa carnosa” (fare scaturire poesia è anche un atto di violenza?) (ma la poesia è anche voce e sortilegio) – e non si cerchi di riaddomesticare questi versi secondo un’eventuale sequenza logica (si ascolti la voce-che-è-sortilegio) e ci si abbandoni al fluire e al concatenarsi dei suoni, si colga l’andamento da pezzo musicale, lo scardinamento della sintassi linguistica in favore di una sintassi “altra”, affidata all’orecchio e all’intuito del lettore: ci si abbandoni alle allitterazioni, ai richiami sonori tra le parole, alle ripetizioni e a questo ritmo da onda marina continua e ricorrente.

Nella seconda parte del testo segue, per accumulo in successione, una vertiginosa serie di sostantivi che sembrano avere la forza di verbi (dicono cioè un accadere, scolpiscono con icastica forza un significato) che innescano e irradiano labirinti di senso e di riferimenti e che poi ritroveremo, quasi fossero semi e rimandi e richiami e segnapassi e pietre miliari, in altri testi del libro, incluso l’ultimo, quello conclusivo e decisivo.

La complessità di questo libro è tessitura di motivi conduttori e di magneti che accumulano senso, ma anche enigmi; ed ecco, come dicevo all’inizio, accanto a Lighea lo Spasimo di Palermo:

SANTA MARIA DELLO SPASIMO

Dai nomi falsi allo spasimo
io, l’altra sobilliamo i nomi della luce
sibilliamo tagli di confine
carnei allo scadere del mondo
e il carniere colmo al muro
– sublime doppio – al muro
dove finisce il mondo
permane di bene, male.

Implora d’indulgenza il tremore alla luce
chiedile qual è la paura, al panico di cosa
fa’ che mai più nomini
dai solo nomi falsi e lascia che fluttui
dentro il buio, riprenda il suo schianto
lascia che lei ti porti con sé in alto
lo sai? – in immagini rispondo ogivale
mia prima d’esser mia.

(pag. 12)

Certamente la scrittura (e quella poetica in particolare) ha a che fare con i nomi: il nome costituisce il tentativo d’identificare e portare a espressione ciò ch’è nascosto o silente e, nel recinto dello Spasimo di Palermo, la poetessa (e anche l’altra – e non si dimentichi la dedica in apertura di Persica: “A me, Ondine / Marilise, l’altra” – ché l’io in questo libro è come minimo doppio o sdoppiato ) sobilla/sibilla “nomi della luce” e “tagli di confine”, in un’attitudine battagliera (il sobillare) che, a livello fonetico per cambio di timbro vocalico, è anche, concettualmente, un emettere vaticini o vaticini-enigmi (e si constati che la voce verbale “sibillare” è, che io sappia, invenzione dell’autrice, ma credo che Maria Grazia non abbia difficoltà ad ammettere una filiazione del proprio atteggiamento nei confronti del lessico da Amelia Rosselli – e lo affermo, come si vedrà anche più in là, a ragion veduta: già l’intera raccolta è aperta dalla citazione rosselliana “I think what we lack is a blue bird leading the way” che è il primo verso di una delle poesie “inglesi” non incluse in “Sleep” e che dice esplicitamente di una mancanza e di un bisogno, due temi fondanti di Persica, appunto, e che contemporaneamente si richiama all’autrice di “Spazi metrici”, cioè di una delle riflessioni intorno alla scrittura più feconde della nostra contemporaneità e della quale si possono riconoscere molte tracce anche nella costruzione prosodico-metrica di Persica).

*

mortifica in suono – o forse no – la voce
vivifica le crettature sulle lingue mute
per lo splendore insoluto della terra
e vieni nell’acquario ciarla coi regni
io nei tuoi volevo entrarci con la testa
infuocata staccarti poi e morire dunque
e dunque scriverti da lì ma tu sei
lupo e trappola e bosco e ti dicevo
per meccanismi sotterranei tenersi
per uno scrollo spiumato un crollo
nell’immaginazione scoperte, ricoperte
di disianza nel gelo dove tu dici
strana senza rimedio io dico vieni
congelati accanto o ustionami. Perché
ogni giorno diverso ti sorprendi
dello stesso male? Perché insoluta è
la sovranità della tua immaginazione?
l’età del dipinto di te? della tua purezza?

(pag. 13)

“Disianza”, abbiamo infatti appena letto, splendido vocabolo che rimanda anche alla Scuola siciliana intarsiato dentro un testo che si sviluppa quasi senza segni d’interpunzione per 14 versi (la misura del sonetto, altro classico della Scuola federiciana), affidando il proprio ritmo al cambio di verso e, di nuovo, alle allitterazioni e alle variazioni dei suoni fino all’affanno che toglie il fiato delle quattro domande finali; è una lirica d’amore, probabilmente, è la rappresentazione (usando il linguaggio secondo stilemi musicali) della dialettica presenza/assenza, appressarsi/allontanarsi, voce/silenzio, vita/morte.

Persica è, anche, la ricerca consapevole di una propria identità poetica, della propria voce (o del proprio canto, intendendolo qui non in chiave tradizionale e/o romantica, ma pienamente novecentesco e postnovecentesco, cioè anche franto, talvolta rabbioso, talaltra lirico e malinconico – si pensi agli studi e alle realizzazioni di Webern, Berg, Schönberg, Petrassi, Nono per esempio) e il testo precedente di pagina 13 e questo successivo di pagina 14 accadono entrambi sotto il segno di “Santa Maria dello Spasimo” :

*

Slegarti da ogni metafora
– anzi dal padre – staccarti
fuor di metafora la rabbia
(ingoia l’oscuro sottinteso
e tutta l’infanzia in un gelsomino!)
finite le terre finiti i testi a fronte
sappi del mondo che crolla
mentre travasi il bene dal male.

Risparmiarti la luce ogni sua
traduzione – fuor di metafora
staccarti sin dall’inizio –
(vieni fuori… fuori!)
ché la rabbia ci ingoia, ci sputa
– mi avresti capita – il travaso
rimetteva lingue su lingue
i borboni disegnavano vite
su vite su vite finite
le terre finiti i testi a fronte

slegarti da ogni metafora
(anzi dal padre!) staccarti
mentre la corda iugula
rimanerti in gola, ingoiarti
rimanerti in vita.

(pag. 14)

Scrivere in poesia è sempre fare i conti con sé stessi (ritorna il tema dell’io sdoppiato, dunque); e fare i conti con sé stessi è cercare e attuare lo strappo “dal padre”, emanciparsi. Maria Grazia impiega le immagini del “testo a fronte”, della “traduzione”, della “metafora”, del “travaso” ricorrendo anche a espressioni particolarmente marcate come “la rabbia” che “ingoia” e quell’imperativo, forte e rimarcato dalla ripetizione dell’avverbio “vieni fuori”. I “borboni”, gl’infecondi padri (“disegnavano vite”, ma “finite”) sono riferimento metaforico e storico affinché la poesia sia anch’essa un itinerario verso l’emancipazione (“slegarsi”, “staccarsi”, scrive la poetessa), per arrivare al sigillo finale nel quale “gola” e “vita” paiono avere la medesima valenza, entrambe atto d’esistenza nella voce (poesia, canto, scrittura, dire).

LUCA 6, 38

Sesso angelico copula
contrappunto discanto
l’allunaggio improvviso
un attimo prima della misura.

Tura le orecchie
solide, stolide le altre risposte
e nella buona, nella cattiva
morte conviene svaporare
in spuma schiumando dentro
la casa, lì, allo Spasimo coi pomi
degli angioli a sgolare via il male
del mondo – dei generi in genere –
e a concordare dopo il travaso
quel che rimane, niente.

E il naso?
L’immondo puzza
e aspettare è un lusso
nel respiro corto e conviene
tagliare le vocali
il mondo con la lingua
senza misura come un sarto
che sa quanto basta senza metro
tagliare e così lingua mia taglia
la terra, quella che puzza, tutta.

Mal di terra accogli
nel grembo pigiato,
scosso, traboccante
un attimo primadella misura.

(pag. 15)

“Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” recita il versetto citato dal titolo: torna il tema della fecondazione e della generazione, come si nota sia dal primo verso della lirica, sia dall’uso del termine “grembo” nella versione evangelica. La paronomasia è l’accorgimento retorico che permette a Insinga di trattare la frase poetica come fosse musica: un suono ne genera o ne richiama un altro per somiglianza, dando così vita a uno sviluppo tematico che, con il suono, coinvolge anche il senso (ogni vocabolo veicola un significato), per cui l’autrice si trova a comporre sul discrimine difficilissimo tra suono e senso; esempio concreto, applicabile pressoché a ogni testo del libro: “Tura le orecchie / solide, stolide le altre risposte / e nella buona, nella cattiva / morte conviene svaporare / in spuma schiumando dentro

la casa, lì, allo Spasimo coi pomi / degli angioli a sgolare via il male / del mondo – dei generi in genere – / e a concordare dopo il travaso / quel che rimane, niente. / E il naso? / L’immondo puzza”, senza dimenticare quel legame mondo/immondo che innesca la seconda, splendida per concetto e ritmo, parte del testo. Si fa appello a una lingua che dev’essere capace di tagliare la terra che “puzza”, che è cioè corrotta e mortifera (nel mito la terra è generatrice di vita, è Cibele portatrice di frutti e di nascite). Qui la tensione si genera proprio tra l’ansia e la volontà di vita espresso dall’autrice e la minaccia continua della morte; Maria Grazia inventa un’espressione bellissima, “sgolare via il male” che, richiamandosi al “rimanerti in gola, ingoiarti” del testo precedente, assume il significato di “scacciare attraverso la gola” e quindi il canto e il dire in poesia potrebbero avere questa virtù sanante, o almeno provare a perseguirla. Non c’è infatti requie e l’oscurità, il male, la rovina assediano il nostro vivere, il nostro dire, l’attitudine di chi scrive poesia è una veglia instancata e un attivismo senza pause, forse lo stesso andare a capo di verso in verso rammenta questo frantumarsi del mondo e fare poesia è anche guardare il mondo andare continuamente in pezzi e cercare di ricomporli o preservarli:

*

Qualcosa scaraventava sul lato oscuro
– occhi non numerabili là
dove occhi mai erano stati –
e pareva schizzare il corpo
per i cento metri:
io ero l’altrove.

Non scrivere, parlare – scivolano
le pareti, spicciano archi –
ora che rimane tarlatura blu.
Increata a fine verso conficcavi
a pezzi tra le scapole e ancora
a pezzi la notte ci scaraventava.

(pag. 16)

Il titolo arabo del testo seguente rimanda alla zagara, forse il fiore e il frutto che, per antonomasia, s’identificano con la Sicilia e qui l’autrice fa i conti con un’identità ineludibile (la propria “sicilianità”) per affrontare il tema secondo una direzione antiretorica che la faccia allontanare dai luoghi comuni, che, come ha già fatto a proposito dello Spasimo e di Lighea, dica anche in poesia una “sicilianità” e una “mediterraneità” non falsificate, non stereotipate:

ZAHARA

Oltre il dominio
– le tonnellate di scuri,
l’iperascolto nello squarcio –
Signora delle conchiglie

abbiamo da fingere
che al buio esista un fuori.
E non ascoltarmi
se vuoi sentire.

Schiarisco la gola
d’innocenza – stami
pistilli – intera a sfavillare
e qua non si finisce, mai.

Rimango intatta:
nell’aranceto la casa
nella casa la stanza
nella stanza l’aranceto.

(pag. 17)

Quella di Maria Grazia Insinga è anche una poesia che ruota attorno ai paradossi, poco fiduciosa, forse, nei paradigmi del logicismo nordeuropeo e anglosassone e nutrita di cultura mediterranea che ben sa, anche dall’insegnamento dei mistici spagnoli del Siglo de oro, che per raggiungere la meta non bisogna mettersi in cammino verso di essa, che per vedere non bisogna guardare e via dicendo: “e non ascoltarmi / se vuoi sentire” – là dove, di nuovo, la “gola” sembra tornare strumento e luogo di poesia. E si rifletta sulla modulazione degli spazi in chiusura: “rimango intatta: / nell’aranceto la casa / nella casa la stanza / nella stanza l’aranceto”, splendido chiasmo (aperto-chiuso, chiuso-chiuso, chiuso-aperto) che sembra preludere al salto necessario per trovare la poesia:

IL SALTO

Anticipami l’ignoto illegiadra vista
ammucchiami le ossa in cannule di fiato.
Il tuo salto fuori limite alleggerisce il mondo
ordine in iterato disordine a recrearmi.

Eravamo d’accordo giusto io e l’altra e nessuno
sul concetto di Bello: sfuggirsi di mano
a modulari intervalli per traslocare del linguaggio
i margini a passo d’uomo nell’uomo
e cederlo e combaciare ma al contrario i seni
in forma di clessidra, in forma di tempesta.

Sciaborda con la mano quello che mi proviene
con la mano a conchiglia ripopola le cime.
Se mi darai chi sono ti confiderò il doppio
dopo la metà e prima che la punta sfiori l’acqua
avrai già fatto fuori poesia con poesia.

(pag. 18)

Una poesia non usuale, non facile, non normalizzata né normata, ovviamente, ma ardua perché “salto fuori limite” a cogliere la fecondità del disordine per farne ordine, ma in continuo mutamento, in ininterrotto movimento (è la lezione eraclitea e anche lucreziana, ma pure gongorina, ma forse anche horcyniana). Infatti l’attacco, con quel vocativo “illegiadra vista”, già subito dichiara il desiderio d’ignoto a partire da un qualcosa di non bello (“illegiadra”), rafforzato dall’immagine delle ossa da ammucchiare “in cannule di fiato”, situazione mortifera da un lato (si pensa alle ossa cave e rasciugate), ma anche musicale (le canne dell’organo?). L’accordo “sul concetto di Bello” è enormemente circoscritto (“io e l’altra”) e si configura così: “sfuggirsi di mano / a modulari intervalli per traslocare del linguaggio / i margini a passo d’uomo nell’uomo / e cederlo e combaciare ma al contrario i seni / in forma di clessidra, in forma di tempesta” – Maria Grazia, ch’è anche musicista e musicologa, sa bene quanto determinanti siano gli intervalli in musica così come in poesia e quanto altrettanto fondante ne sia la costruzione modulare e sa che la materia prima della poesia è il linguaggio (meglio ancora: i suoi margini) e che tale linguaggio è un andare ” a passo d’uomo” dentro l’uomo (stupenda e fattiva definizione di poesia); si badi che tutto questo è, poi, un “cederlo”, cosicché l’immagine che segue (far combaciare i seni in forma di clessidra e di tempesta) sembra richiamare un abbraccio tra due esseri o tra due realtà (il cielo e il mare, ad esempio, uniti da una tromba marina, da una tempesta, appunto) e rimanda a una composizione di poche pagine dopo dal titolo “In forma di clessidra”. Perché? La clessidra consiste di due coni comunicanti traverso i rispettivi vertici e in quel punto di congiunzione scorre la sabbia, ovvero si consuma il tempo – ma la clessidra va, poi, nuovamente capovolta e così ininterrottamente, proprio come abbiamo riconosciuto spesso in questo libro la dialettica tragica del dentro e fuori, luce e buio, dire e tacere, costruire ed essere distrutto, fino a quella risolutiva, estrema: vita e morte.

E se leggiamo ora il testo eponimo della raccolta scopriamo che la persica, cioè la pesca, questo frutto gustoso e bello e che nel nome ci avvicina l’Oriente, è immagine di un mondo non-dicibile “con parole”, ma cui ci si può approssimare tramite i suoni: “suoni / tuttavia avvertono che la bocca / sbocca nella stanza della musica”:

PERSICA

Sul capo turrito sboccia il pruno
antro di umidi rovelli palme
mai baciate efelidi nate appena
nulla dicono intorno al mondo
né discorrono con parole, suoni
tuttavia avvertono che la bocca
sbocca nella stanza della musica.

(pag. 19)

La questione è estremamente complessa, tocca probabilmente il rapporto tra cultura occidentale e cultura orientale, se è vero che in Occidente si è imposta la tendenza a rappresentare secondo precise gerarchie logiche la realtà (e a tali gerarchie corrisponde perfettamente la sintassi stessa delle lingue indoeuropee), mentre in Oriente ci si affida forse maggiormente a un rapporto intuitivo e sensibile con la realtà, atteggiamento che sembrerebbe trovare nella musica il mezzo più consono di rappresentazione del mondo (e, tra l’altro, il “capo turrito” è quello di Cibele, Dea Madre venuta dall’Oriente e comunque in qualche modo già presente nel bacino mediterraneo pre-indoeuropeo?); l’enigmaticità del mondo sarebbe, più propriamente, la difficoltà (quando non l’impossibilità) di rappresentarlo con gli strumenti del linguaggio, strumenti che sono ovvia derivazione dall’atteggiamento del nostro pensiero che notomizza, gerarchizza, distingue, giudica.

Ma Persica è, anche, libro dell’amore irrealizzato o naufragato, della contesa tra senso e nulla, del conflitto radicale e tremendo tra esistere e svanire; l’arditezza delle costruzioni sintattiche e della connessione tra le immagini lascia affiorare una “rabbia” che si esprime nell’alta occorrenza del termine stesso in ben quattro testi consecutivi, riaffermando il rifiuto d’ogni passività, d’ogni forma di rassegnazione:

IN FORMA DI CLESSIDRA

Dissotterriamo fossati d’acqua
caviamo terra e denti
estraiamo il buio dalla bocca
ci diamo il sonno per non dormire

disperdere il buio nell’esperienza
non formulata che non affiora – non può
affiorare – perché scaviamo fossati
ci scavano e tu mi sali alla bocca

ti avventi con la parola non stesa
preverbale che non cede in coscienza
e non può esistere se non nel dubbio
di non aver capito e nell’aranceto

che percorri a velocità di sabbia
non fai in tempo a prestare attenzione
e focalizzi solo il punto di caduta
la zagara, la rabbia, la rabbia.

(pag. 22)

(…)
Non accade il vivere
né cala il morire
e la rabbia crescente
è luna allunata, luna
illuminata, allontanata.
(da POUCET, pag. 23)

(…)
bracciate senza fine
io dico il mondo che scompare
mentre dico la rabbia
mentre lo dico che scompare.

(pag. 24)

*

Cala a sgravare l’acqua
per i catusi e cala cala
su Calafarina la grazia
scabra di infanzie non più
immobili quando ancora
la luce non cala quando
ancora la rabbia ci frana.

(pag. 25)

Ecco, a seguire, la perfezione del ritmo e dell’invenzione; non si trascuri, ancora una volta, la scelta lessicale e il relativo smontaggio-rimontaggio operato sui vocaboli:

SVINATURA

Se prendi malvista la rotta
nera del cappero e del Corinto
e manchi ossigeno al mosto fiore
vieni a smagare il controllo
di declività in fermento vieni
a svinare i nessi, solvi l’isola
e fa’, Cibele, che malva sia.

(pag. 26)

La svinatura viene così a essere operazione condotta sul mosto fermentante della lingua, il vocabolo si scompone e ricompone secondo le leggi della vinificazione, atto sacro, in Mediterraneo, si sa, atto insegnatoci dagli dèi e che congiunge la chimica del fermentare con il suo risultato ch’è una bevanda inebriante e nobilissima, prossima alla musica nella sua capacità di esaltare la mente e indurla a sciogliere i legami di pensiero consueti per indovinarne dei nuovi, inediti e inattesi. Il palato che assaggia il vino è il medesimo che sente la persica dopo il morso, che quindi ha una capacità di “veggenza” e leggasi il testo seguente per rendersene conto:

*

Il corpo, la biblioteca
perduta a discriminare
tutto nell’indistinto:
gli occhi all’indietro
un rosso alla persica
la veggenza nel morso.

(pag. 29)

Gli “occhi all’indietro” sono anche quelli, per esempio, del Satiro danzante (ed ebbro) di Mazara? E la polpa della persica (o il sorso di malvasia) sono l’esistere che va assaporato per assimilarlo a sé, al proprio corpo e al proprio pensiero per averne dunque veggenza? E quale ruolo ha la rosa?

LA ROSA

spariglia tutto
ti fa singolo
mancino
in sommossa purezza
Non veicola quel che denota
ma se stessa, martello non consumato.
Io, chiodo senza artefice, senza luogo,
logo, concreta senza mai esserlo
– essere concreti è non esserlo mai –
e la sua lingua sbalza in avanti le visioni

e il mio silenzio mi noia e mi percuote.
Hai risonato il fantasma di una rosa
bloccato l’orale nidore nell’inciso
e ogni cosa è possibile e ogni rosa è in ascolto
dunque giù specchi e tromboni
entri pure in quaresima la grana della voce.

(pag. 32)

Se pensiamo alla Sicilia non dimentichiamo Pantalica, né il tophet di Mozia:

NECROPOLIS

Sostituire per sopravvivenza
legati alla prima tomba
sgravare acqua per i catusi
mangiando per sempre la coda.
Potere solo nascere, potere!

Morire un pelo, un filo d’acqua
appena, esiliare biblioteche e vuoti
e fuochi, concentrare l’esplosione
dei deserti nel palmo della voce
l’impronta della sete, l’orma.

Possiamo solo nascere, erigere
torri impraticabili, torri per lanciarsi
tra i fiati, gli sdruccioli della gola
torri per andare in su a vuoto
torri sdrucciolevoli, torri sirene.

(pag. 35)

La “grana della voce” (e come non pensare a Barthes?), il “palmo della voce” (sì, perché la voce è anche mano che tesse e intesse il canto), di nuovo l’acqua e tutte quelle torri, le più diverse e ardue, questo fa piazza pulita delle sperimentazioni intellettualistiche e delle gerarchie logiche, chiedendo una lettura che si lasci sedurre dalla suggestione del suono e degli accostamenti delle immagini; non per caso, infatti, i nessi sono saltati o vengono sottintesi, oppure si manifestano quali semplici asindeti (virgole per lo più) o anche come spazio bianco tra un’espressione e la successiva, così inapparente eppure qui determinante.

E ora altri nomi: Cattafi, Pizarnik, Rosselli, Busacca, o meglio cognomi, i cui corrispondenti nomi di battesimo Maria Grazia cita con affetto e direi venerazione in esergo alla lirica che segue:

nella stanza di Bartolo tutta straripata
c’erano: i miei fogli levati al solo fiato
e gli uccelli rari di Silo; Ondine nuotava
annottata e la notte era solo Alejandra,
il fuoco Amelia, Helle la terra sempre

Solleva le grigie, scottale
vedranno lo stigma, l’inezia
dei fuggitivi, bui all’angolo
cavalcioni secoli di tefrite.

L’apnea smargina il mondo
e qualcosa tocca in contumacia
e qualcosa margina e perde
dell’altra, di me memoria.

(pag. 36)

Il testo finale, così esplicitamente celaniano, così circolarmente coerente e consonante con l’intero libro, dà ragione di un’esperienza poetica che sempre si misura con il nulla e con la ricerca di senso, il quale continuamente si sottrae:

SALMO

Dentro il libro folle a marosi.
Qui fuori nessuno. E di nessuno
rosa di nessuno verso di nessuno direzione
di nessuno contro di nessuno vento di nessuno
corrente di nessuno voltare di nessuno andare
a capo di nessuno ultimatum di nessuno riguardo
di nessuno paragone di nessuno prossimità
di nessuno approssimazione di nessuno sangue
di nessuno denaro di nessuno acqua che precipita
di nessuno rovescio di nessuno pari di nessuno
pollice di nessuno dipinto di nessuno papiro
di nessuno moneta di nessuno credito di nessuno
gonfalone di nessuno salmo di nessuno nessuno.

(pag. 37)

La questione affrontata in Persica è, dunque, d’una radicalità totale e coraggiosa; Paul Celan s’afferma, accanto ad Amelia Rosselli, come l’autore più significativo tra i molti cui Maria Grazia rimanda il lettore nel corso del suo libro, anzi, direi che, giunti al termine della lettura, ci si possa provare a ri-leggere Persica quale costante contrappunto e dialogo e rimando e puntiglioso inveramento dell’esperienza poetico-esistenziale celaniana; faccio notare a questo punto che, nel caso fosse corretta questa mia ipotesi, essa non sottrae nulla all’originalità e alla forza artistica del libro di Maria Grazia Insinga, anzi, originalità e forza d’arte ne escono ulteriormente rafforzate perché l’autrice ha voluto dialogare con una delle voci più convincenti e difficili della nostra contemporaneità e ha scelto di muovere da assunti celaniani che pongono con radicalità insuperata le questioni del senso della storia individuale e collettiva, della verità del linguaggio, della verificabilità del mondo; si tratta cioè di un atto d’umiltà che, movendo da un’opera ineludibile per chiunque scriva in versi in questi anni, è premessa per un percorso molto, molto arduo, i cui sviluppi e le cui risultanze restano del tutto imprevedibili.

Rileggiamo allora, come a ritroso, “La rosa” e “Necropoli” e non solo e ripensiamo il tema della sabbia in Paul Celan, il significato del deserto e del buio nella sua poesia, la presenza della mandorla e della rosa (o “rosa di nessuno”), il ricorrere dei temi del gelo e della voce, la concretezza di termini quali “polmone”, “faringe” e “respiro” (o “virata di respiro”), il capovolgimento del rito religioso nei suoi significati, i sintagmi quali “cancellate di linguaggio” e “soli filamenti”… Ci convinceremo una volta di più di quanto Persica sappia essere qualcosa di raro in poesia: un equilibrio perfetto tra il dire autonomo e originale dell’autrice e il suo dialogare (ineludibile e ineluso) con i Maestri.

Antonio Devicienti


In copertina: Maria Grazia Insinga.

3 pensieri su “Antonio Devicienti su “Persica” di Maria Grazia Insinga (Cierre Grafica Anterem Edizioni, 2015)

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