Ogni tanto mi chiedono – e qualche volta chiedo anche a me stesso – perché si scrivono poesie, come si comincia a scrivere poesie, come si scopre di aver bisogno della poesia. Per quel che posso ricordare è un’esigenza nata molto presto – io sono stato scandalosamente precoce come poeta, e come lettore prima ancora-, nata, credo, da un desiderio di emulazione: si leggono i poeti che si ammirano da ragazzi, da adolescenti, e si vuole essere come loro. Credo che questa sia una delle molle principali, almeno per me è stato così. Naturalmente, a monte ancora c’è qualche mancanza, una qualche ferita, perché io credo che se uno fosse perfettamente felice e in pace con se stesso non gli verrebbe in mente di scrivere poesie, e probabilmente nemmeno di scrivere musica, o nemmeno di fare dell’arte: che la poesia supplisca a qualcos’altro credo sia abbastanza vero, però, per quel che ricordo io, appunto è lo spirito di emulazione, cioè il voler essere come chi si ammira. Naturalmente, ancora prima bisognerebbe capire perché si prova piacere a leggere poesia. Foscolo diceva che lettori di poesia si nasce; io a volte aggiungo, un po’ per provocazione, che forse poeti si può diventare, lettori di poesia non si può diventare, si nasce, cioè si nasce con il gusto della poesia, con il piacere e l’emozione della poesia così come si nasce con l’orecchio per la musica. Partendo da lì, certo poi la poesia diventa un fatto di necessità interiore. All’emulazione, al piacere di fare come gli altri a poco a poco subentra il bisogno di parlare di sé, di dire qualcosa di sé. Nel mio caso, nella mia esperienza posso dire che è stata molto importante la scoperta di quello che solo più tardi – leggendo Eliot, leggendo i grandi poeti anglosassoni del Novecento, eccetera – avrei capito che ha una base anche – diciamo – teorica, cioè la poetica del cosiddetto correlativo oggettivo, cioè il parlare di sé attraverso situazioni, attraverso personaggi, non direttamente. Per me la capacità di parlare direttamente di me in prima persona è stata una conquista molto lenta. All’inizio sentivo il bisogno – ho sentito il bisogno per molto tempo – di raccontarmi in modo indiretto, di raccontarmi attraverso situazioni reali, attraverso storie già scritte in qualche modo, attraverso personaggi inventati o reali. Per esempio ha avuto una grandissima importanza nella mie prime – non primissime […] – esperienze di scrittura poetica […] l’immaginario legato alla narrazione evangelica. La parte che ancora adesso riconosco, tanto che l’ho ripubblicata anche di recente, della mia produzione giovanile – intorno ai diciotto, diciannove, vent’anni – è legata appunto allo sviluppo dentro la fantasia, dentro l’immaginazione, di spunti evangelici.
Ricòrdati: chiudere il gas, le sei mandate alla porta.
C’è rischio di spezzare il calice e c’è rischio di smarrirlo
prima che tutto si compia.
E l’orto non ancora invaso, l’orecchio ancora saldo,
quanti fili dispersi da annodare
perché tutto si compia!
Scegliere chiodi giusti, scegliere il fiele e la spugna,
far le prove con Anna e con Pilato,
discutere la piaga coi lanciatori di coltelli
perché tutto si compia.
(Meditazione nell’orto, in Gesta Romanorum)
*
Quante volte, pellegrini
affranti da una notte di bufera,
mettendoci alla fine accanto al fuoco
d’una locanda, ci troviamo in mezzo
ai volti stanchi dei nostri nemici!
Certo, potremmo
alzarci urlando; e forse, addirittura
tirar fuori il coltello: e interrogati
sul nostro nome
rispondere coi motti più roventi
fracassando stoviglie. Ma a chi giova
tanta fatica? All’oste no, né al cuore
spossato dalla pioggia. Meglio fingerci amici,
stranieri, o troppo vili: distesi sulla panca
che scivola nell’ombra dai bagliori
rispondere coi cenni o a monosillabi
tirandoci il mantello fin sopra gli occhi.
(Tradimento di Pietro)
Ecco, questi sono due esempi di affabulazione poetica intorno agli spunti del racconto evangelico, con un tentativo di appropriarsi nel tempo – diciamo – di questi grandi temi attraverso l’anacronismo, attraverso questi procedimenti di spiazzamento. E’, come accennavo prima, un modo per parlare di sé indirettamente, per parlare di sé attraverso figure, immagini e situazioni esemplari. Naturalmente c’è anche poi il grande fascino – che per me continua – del racconto evangelico come somma di tutto il possibile umano, oltre che naturalmente divino. E’ un confronto continuo con quello che l’umanità e l’uomo possono significare, possono offrire attraverso qualcosa che è successo una volta e continua a succedere dentro di noi. Quando mi si chiede della mia religiosità, non so mai bene cosa dire, perché so di avere dentro di me questo possibile, questa domanda aperta. Una volta con una battuta che poteva sembrare un escamotage ma che forse un qualche senso ha, ho detto: tutto quello che posso dire della mia religiosità è che sono un non-ateo; e questo è veramente il fondamento della mia sensibilità religiosa. però il mio essere non-ateo è anche, credo, un essere fondamentalmente cristiano. Non è la religiosità in senso astratto che mi interessa; è la religiosità intorno alla figura di Cristo, intorno a questo racconto, inesauribile, che continuo a ritrovare nel Vangelo.
Recentemente, su una sollecitazione di carattere anche pratico – mi hanno chiesto un testo teatrale intorno ai temi della Passione[1] – mi sono cimentato direttamente con il racconto evangelico. Ho penato molto a trovare una strada, poi, quando l’ho trovata, tutto è venuto abbastanza facilmente. E la strada è stata quella di escludere dal racconto la figura del protagonista: ho capito che non si poteva mettere in scena Cristo, che si poteva mettere in scena solo quello che intorno a lui è successo. E quindi è una rappresentazione in cui parlano soltanto i testimoni, parlano soltanto quelli che c’erano, e che hanno assistito, e che hanno via via manifestato la loro comprensione o incomprensione, la loro inadeguatezza, il loro tentativo di avvicinarsi al significato di questo evento. E’ un testo che si collega a distanza di quasi, ahimè, mezzo secolo a quei testi giovanili, credo anche con una – tutto sommato – consonanza forte anche dal punto di vista proprio della pronuncia e della scrittura. Il fascino della figura di Cristo e il fascino del racconto evangelico sono anche molto di carattere estetico: mi pare che non sia mai stato rappresentato […] niente di altrettanto suggestivo e altrettanto ricco di senso. […] Un grande scrittore di cui oggi – non so perché – si parla molto poco ma che io considero ancora molto importante, cioè André Gide, ha detto che una delle poche prove, per lui, dell’esistenza di Dio e della divinità , della realtà del divino, stava proprio nella “insuperabile bellezza” del Vangelo, una bellezza che “non si può spiegare in termini umani“. […]
Una delle grandi esperienze della mia vita, che hanno segnato il mio modo di vivere e probabilmente anche il mio modo di concepire la poesia e la letteratura, è stata l’esperienza della guerra, naturalmente vissuta da bambino. La guerra per me ha significato l’allontanamento dalla città in cui ero nato, Milano, e il cosiddetto sfollamento: due, tre anni di sfollamento, molto importanti da diversi punti di vista. Prima di tutto per me, ragazzo di città, era la scoperta delle stagioni, la scoperta della natura. Per la prima volta vedevo la primavera diventare estate, l’estate diventare autunno; vivevo questi grandi eventi della natura. Poi perché lo sfollamento ha voluto dire interrompere la frequentazione della scuola, che avevo cominciato in città che in campagna […] è stata sospesa, sostituita dallo studio in casa; cosa che poi mi ha condizionato abbastanza, perché non ho mai ripreso molto bene l’abitudine alla scuola. […] Comunque questo periodo di vacanza, di vacanza drammatica certamente ma anche gioiosa, per un bambino, per un ragazzino, ha coinciso con un periodo di forsennate letture. Ripensandoci, mi sembra di aver letto tutto allora. Non è vero, naturalmente, però ho letto moltissimo, molta poesia, molti romanzi. La mia grande passione di lettore sono forse più i romanzi che la poesia, la poesia è sempre stata qualcosa che mi coinvolgeva anche dolorosamente, mentre il romanzo è il puro piacere della lettura. Dunque ho letto tantissimo, molto precocemente, capendo quello che un ancora bambino o appena ragazzo può capire dei grandi classici, però era una lettura comunque insostituibile, anche se poi si torna sulle cose, si capiscono in un altro modo, però quella lettura “aurorale” ha una grandissima importanza. Questo è stato – diciamo – il mio apprendistato di lettore e di imitatore dei poeti che amavo.
Altrettanto importante […] è stata poi la fine di questa forzata e meravigliosa e drammatica vacanza, cioè il ritorno in città. Finita la guerra, la mia famiglia è tornata a vivere a Milano, e per me questa è stata una grandissima emozione, perché la dimensione della città che avevo vissuto da bambino l’avevo quasi dimenticata. E’ stata una riscoperta ed è stato anche un innamoramento: mi sono proprio innamorato delle possibilità anche fantastiche della dimensione cittadina, della dimensione urbana. Era anche, poi, un clima straordinario, quello del dopoguerra, di grande vitalità, di grandi speranze, di grandi rinnovamenti. Quindi è stato un periodo di coinvolgimento nella realtà, mentre gli ani della guerra erano stati in qualche modo un periodo di sospensione della realtà, e di vita nel fantastico, nel privato, nell’intimità. Per quanto riguarda l’esperienza della poesia, il lavoro sulla poesia, è poi stato importantissimo il fatto di scoprire la città come metafora: come metafora della vita, come contatto con tutto quello che l’esistenza offre di problematico, di inquietante, di esaltante. E sono diventato a quel punto […] un poeta di storie urbane, di racconti legati alla città e ai suoi problemi, ai suoi drammi, alle sue inquietudini. E’ il periodo che probabilmente ha segnato definitivamente la mia personalità di scrittore, di poeta. Ricordo che un mio grande amico, Carlo Betocchi, che mi ha seguito fin dagli inizi e che trovava notevoli quelle mie poesie […] “evangelico-eliotiane”, però diceva: “Ma in fondo ancora sei alla ricerca della tua ispirazione, della tua materia, della tua materia di vita, dei tuoi argomenti”; e quando ha cominciato a leggere queste poesie sulla città, ha detto: “Ci siamo, ci sei, questa è la tua strada”.
Di tutto questo
non c’è più niente (o forse qualcosa
s’indovina, c’è ancora qualche strada
acciottolata a mezzo, un’osteria).
Qui, diceva mio padre, conveniva
venirci col coltello … Eh sì, il Naviglio
è a due passi, la nebbia era più forte
prima che lo coprissero … Ma quello
che hanno fatto, distruggere le case,
distruggere quartieri, qui e altrove,
a cosa serve? Il male non era
lì dentro, nelle scale, nei cortili,
nei ballatoi, lì semmai c’era umido
da prendersi un malanno. Se mio padre
fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra
che serva? è il modo? A me sembra che il male
non è mai nelle cose, gli direi.
(Risanamento, ne Le case della Vetra)
*
Quasi sempre, a quest’ora
arriva gente un po’ speciale (però
di buonissimo aspetto). Chi si siede
ma poi continua a cambiar posto,
chi sta in piedi, sul fondo della sala, e fiuta,
fiuta rari passaggi, la bambina
mezzo scema, la dama ch’entra sola,
la ragazza sciancata … Li guardo per sapere
che storia è la loro, chi li caccia. Quando
viene la luce penso come il cuore
gli si deve contorcere cercando
d’essere salvo più in là, di sprofondare
nel buio che torna tra un minuto.
(Cinema di pomeriggio)
Ecco, questi sono de esempi di poesia urbana, cioè di poesia in cui l’inquietudine della vita di una grande città, le sue stranezze i suoi aspetti, anche sordidi a volte, le sue figure di emarginati, di infelici, di spostati, eccetera, prende – direi – il primo piano. E’ di nuovo, se si vuole, un modo di raccontare se stessi attraverso altro, attraverso quello che c’è intorno a noi. Ancora in quegli anni – siamo alla fine degli anni ’50, nei primi anni ’60 – […] stento a parlare di me in prima persona, ancora quello che mi interessa è certificare il mio rapporto con la realtà […] adesso attraverso le figure, attraverso la realtà della città, della città riscoperta, della città amata anche, perché – come dicevo prima – effettivamente è stato un innamoramento che dura ancora adesso, a distanza di tanti anni, anche se la città è cambiata, anche se è molto meno vera, […] molto meno ricca di umanità e anche di drammi. Però appunto è ancora il luogo in cui non riesco a non vivere.
Come nasce una poesia? Penso si possano dare grosso modo due tipi di risposta; la prima di carattere più teorico, a cui sono meno interessato, comunque direi che una poesia nasce dall’incrocio di due modi di pensare, di due logiche, come dicono i teorici della nuova psicoanalisi – per esempio Matte Blanco[2], che è stato un grande pensatore e ri-pensatore della psicoanalisi -, dall’incrocio di due logiche, cioè la logica razionale e la logica dell’inconscio, che è anche quella una logica. Credo che il fenomeno della poesia nasca dall’incrocio di questi due piani del pensiero, pensiero conscio razionale e pensiero inconscio. Però, ecco, forse mi sento più portato e più interessato a rispondere a una domanda di tipo pratico: come nasce in pratica una poesia? E posso rispondere naturalmente per me: non nasce a tavolino, per quanto mi riguarda assolutamente una poesia non nasce a tavolino. Nasce da un rimuginare mentale perlopiù. A volte è un’immagine che si insegue, a volte è un suono, un fantasma sonoro: a me capita di avere in mente un ritmo e ancora di non riuscire ad accordargli delle parole. Comunque nasce proprio da un’elaborazione mentale. Quando mi metto a scrivere una poesia, l’ho già praticamente scritta dentro la testa: poi naturalmente viene il lavoro artigianale. Una volta che esiste una traccia che è, ripeto, non praticamente confezionata, una traccia che viene da dentro, allora si comincia il lavoro di limatura, di aggiustamento: si trovano dei legami, si trovano delle associazioni di suoni, di ritmi, dei perfezionamenti che all’inizio si sono soltanto intuiti o sperati. Però, ripeto, mi riesce totalmente estranea l’idea di una poesia che nasca come “oggetto di laboratorio”: la poesia è qualcosa che si impone a noi, non qualcosa che noi imponiamo a noi stessi o alla realtà.
Quando sei morta stavamo
in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio
da vendere per pianerottoli e scale.
Dunque non t’è toccato di passare
di spalla in spalla per angoli e fessure,
d’essere calcolata a spanne, raddrizzata
nel senso degli stipiti. Sparire
era più lento e facile quando tu sei sparita.
Parecchie volte,, dopo, mi è sembrata
una bella fortuna.
Eppure se ci pensi, in poche cose
c’è meno dignità che nella morte,
meno bellezza. Scendi a pianterreno
come ti pare, porta o tubo, infìlati
dove capita, scatola di scarpe
o cassa d’imballaggio, orizzontale
o verticale, sola o in compagnia,
liberaci dall’estetica e così sia.
(Amen, in Cadenza d’inganno)
Questa poesia scritta […] ripensando alla morte di mia madre, è in qualche modo conclusiva di una serie di testi di carattere familiare […]. E’ anche una poesia in cui in qualche modo tento di uscire da questo viluppo di emozioni e di ricordi, come se sentissi il bisogno di avvicinarmi di più alla vita non riflessa, alla vita “in diretta”, si direbbe oggi, o in prima persona. Comunque è un tema, questo dei rapporti familiari, […] che poi è continuato […] fino alle ultime cose. Però in qualche modo lì sentivo il bisogno di uscirne, di superarlo, di affrontare forse un modo più autobiografico di frequentare e di usare la poesia. E probabilmente quello che doveva succedere era che entrasse, con forza, con violenza nella mia ispirazione e nella mia pratica poetica, il tema dell’amore. Alle poesie di pietà familiare […] è subentrata poi negli anni successivi una poesia di racconto amoroso, di autobiografia amorosa.
Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro
e solo del futuro, di nient’altro
ho qualche volta nostalgia
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’essere tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere.
*
Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.
*
Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
dopo l’altro ti lascio, anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo, intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero, m’incanto …
*
Non questa volta, non ancora.
Quando ci scivoliamo dalle braccia
è solo per cercare un altro abbraccio,
quello del sono, della calma – e c’è
come fosse per sempre
da pensare al riposo della spalla,
da aver riguardo per i tuoi capelli.
*
Meglio che tu non sappia
con che preghiere m’addormento, quali
parole borbottando
nel quarto muto della gola
per non farmi squartare un’altra volta
dall’avido sonno indovino.
*
Il cuore che non dorme
dice al cuore che dorme: Abbi paura.
Ma io non sono il mio cuore, non ascolto
né do la sorte, so bene che mancarti,
non perderti, era l’ultima sventura.
*
Ti muovi nel sonno. Non girarti,
non vedermi vicino e senza luce!
Occhio per occhio, parola per parola,
sto ripassando la parte della vita.
*
Penso se avrò il coraggio
di tacere, sorridere, guardarti
che mi guardi morire.
*
Solo questo domando: esserti sempre,
per quanto tu mi sei cara, leggero.
*
Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce.
(Canzonette mortali)
Sono poesie d’amore, e a questo punto direi che il privato, e il racconto di me, è entrato in modo spudorato nella mia poesia. Non sono, queste, le prime poesie d’amore, sono in un certo senso le ultime, cioè quelle dell’ultimo amore, quello che continua ad essere nella mia vita. Però sono in qualche modo la conclusione di un avvicinamento alla confessione diretta, […] e probabilmente occorreva proprio questo rapporto traumatico che si ha con l’oggetto del proprio amore, con la persona amata, per farmi uscire così allo scoperto. Da questo punto in poi, in un certo senso, anche le mie poesie di argomento non amoroso, le mie poesie di argomento riflessivo, meditativo o addirittura civile, sono decisamente poesie in prima persona. ho in qualche modo rotto il diaframma del correlativo oggettivo, sono diventato uno che parla di sé, sono diventato un poeta in prima persona. Io non credo che questo sia un progresso; credo che la poesia possa essere altrettanto sincera, altrettanto autentica, altrettanto rivelatrice anche se si mantiene, appunto, al coperto, se mantiene la finzione o il gioco di sponda con la realtà oggettiva. A me è successo questo; ed è abbastanza probabile che sia qualcosa che riguarda le età di una persona, cioè che ci sia qualcosa di addirittura biologico, no, in questo andare da un rapporto privilegiato con la realtà esterna, con la realtà oggettiva, con le immagini del mondo – diciamo così – verso una meditazione sempre più interiore, sempre più in prima persona. Alla fine si rimane soli di fronte alla solitudine e alla morte; questo è il destino, credo, di tutti noi; e quindi che anche la poesia segua in qualche odo questo tracciato – dalla vita alla morte, dal collettivo al drammaticamente individuale – credo sia abbastanza nella natura, nella natura delle cose.
[…]
L’ha ribloggato su Gianluca D'Andrea.
L’ha ribloggato su natalia castaldi [esilio e desnacimiento].