CONSONANZE E DISSONANZE
Senso di precarietà
Da quando ho letto per la prima volta, in bozze, Senso di facilità (Passigli, 2014) di Valerio Nardoni, mi ronza in testa una battuta, sempre uguale e, in ogni caso, difficile da aggirare: non è con un senso di facilità, anzi, è soltanto con un senso di difficoltà che si può affrontare l’esordio poetico dell’autore, ispanista, traduttore e autore del romanzo breve Capelli blu, pubblicato per e/o nel 2012.
Coglie uno dei motivi di questo disagio Franco Buffoni nel risvolto di copertina, che svolge anche la funzione di agile nota al testo: “Di Luzi appare in queste poesie l’incanto della parola sospesa e al tempo stesso determinata, della metrica innata al punto da apparire spontanea e sorgiva, unitamente a un senso ritmico quasi sempre volto a un’interlocutrice, quasi sempre ‘alta’, beatrice e madonna”. Non è tanto il ritorno di un ‘tu’ lirico così tradizionale nella storia della lirica italiana a generare la difficoltà di cui parlo, quanto l’affiancamento, indovinato, a quella poesia di Luzi cui Nardoni deve parte del suo apprendistato personale e poetico. Una parte, ma non tutto, come ha osservato giustamente Bernardo Pacini sull’ultimo numero di Atelier, cogliendo anche la netta influenza di Caproni, livornese come Nardoni “nel ricorrere di un cinismo ironico e arrendevole, di una malinconia tagliente e ragionata, quasi razionale nel suo proporsi dialetticamente semplificato”.
La commistione di queste influenze con un dettato che, per altri versi, muove verso la contemporaneità rende la voce poetica di Nardoni unica – cifra di uno stile responsabilmente cercato e individuato – e al tempo stesso lontana dal panorama di autori suoi coetanei. Talvolta dominano note di inattualità, come accade, ad esempio, nella ricerca di puntelli gnomici evidenti e in ciò completamente assertivi, oppure nella resa di un fonosimbolismo che, pur se insistito, rappresenta un esito di maturità rispetto ad altri autori che hanno ormai perso interesse per questa specifica possibilità del testo poetico (si veda, si senta, il rumore marino di Mare uguale: “E tutto l’insolito che non era stato, / l’imprevisto, il rivisto / leggermente danzato, per quanto sul momento / sembri la sosta dopo migliaia / di itinerari tristi…”).
Altre volte, invece, la ricerca si risolve in una sintassi agile, musicale, come in Marematta: “Tu che sei stata una bimba normale, / crescere com’è stato, cos’hai atteso? / Io la guerra, / ero un maschio. Tu la conca…”. Di questi versi, tuttavia, mi importa più la focalizzazione sul verbo ‘crescere’ che non sulla funzione lirica dell’interlocutrice, che pure domina la struttura del testo specifico, per parlare di un Nardoni che continua a interrogarsi sugli effetti sociali, economici, ma anche esistenziali e psichici della precarietà lavorativa, già al centro delle allucinazioni romanzesche di Capelli blu. Ecco, è difficile, forse, leggere questo senso di precarietà, che è talmente messo a nudo da essere ricoperto in modo paradossale di ansiolitici e dunque ancora più esposto. Qui, forse, sta tutta la mia difficoltà della lettura: vedere consuonare il proprio tempo – “tempo di proroga”, dice Nardoni, nella sintesi estrema del suo discorso poetico – nell’esposizione assoluta della poesia, attraversarne tutta la sconfitta.
Estate di terra
Tutto iniziò quando tornai a essere povero.
In questo letto di periferia,
non avvilito, ma saldo intorno al nulla,
provando a superarlo in concetto strano
di uomo.
Il bisogno di fare bene a oltranza
fiaccava le nostre cause:
avevamo perduto il morso
e non il suo ricordo,
che ora funziona quasi
da norma.
Non ho potuto essere giovane,
non tirò vento.
Tornammo verso terra,
nella nostra casa
bruciata
per non servire più.
Lorenzo Mari
Immagine di copertina: Marco Iacobelli, Magma (cartapesta giapponese) 2012 ©.
L’ha ribloggato su Gianluca D'Andrea.