di Alfredo Nicotra
Come ricorda Giorgio Manganelli a proposito di Beckett, avere “qualcosa da dire” è “per uno scrittore, inizio rovinoso. Il problema è, sempre, di trasformare quel ‘qualcosa da dire’ in struttura, in linguaggio”. Se questo assioma è valido per la letteratura, lo sarà soprattutto per la poesia, la cui peculiarità è di abitare le ambiguità e le eccedenze del senso. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del Novecento, una tensione a ricomporre la scissione tra il suono e il senso o tra la parola poetica e la parola filosofica – faglia che attraversa tutto il pensiero occidentale – accomuna nei modi di una “poesia leggibile” molte esperienze poetiche post-ermetiche e post-avanguardistiche.
Una sintesi eloquente di questo lavoro sul linguaggio si può leggere nell’intera opera di Umberto Fiori, il cui esercizio trentennale è ora racchiuso nella raccolta completa delle Poesie (1986-2014), Oscar Mondadori (introduzione di Andrea Anfribo): da Case (1986) a Voi (2009), fino ad includere le prime sezioni di un poemetto inedito, Il Conoscente (2014).
Più che la consueta scorsa di testi disposti diacronicamente, il volume si presenta al lettore come un macrotesto, vivo di una straordinaria compattezza stilistica e tematica, le cui singole raccolte dialogano intimamente tra loro, sottolineando il percorso coerente di una scrittura che, nonostante la presenza di un campo semantico ossessivo, non è stata avara negli anni di sviluppi e approfondimenti incisivi. Di conseguenza, tale omogeneità regala a ogni raccolta uno spessore e un significato nuovi.
Dalle prime prove di Case e di Esempi (1992), a caratterizzarne l’aspetto è l’intento dichiaratamente dialogico di ricucire il rapporto con la lingua e con il lettore contemporanei (un principio di poetica il verso “come tutti esprimersi”), e rimediare a quell’assenza di mandato sociale che rende molta poesia attuale un gesto elitario quando non un urlo afasico.
Come scrive Anfribo nella nota introduttiva, quella di Fiori è “una poesia semplice”, il cui merito è, paradossalmente, di “perdere tutte le bravure, quelle bravure che definiscono da sempre lo stile di un poeta e lo scarto tra lingua della poesia e lingua comune”.
Una poesia media, dunque, soprattutto nel senso che fa da tramite, scritta con un italiano d’uso standard, colloquiale e ricco di anacoluti (“era da disperarsi le persone, / a guardarle, il disprezzo che mi prendeva”), ma capace di accogliere la lezione dei maestri di un Novecento eslege come Saba, Sbarbaro, Sereni, Caproni.
L’idioletto di Fiori si riveste di case, muri, parole, verità (“la verità / la vedi come si spreca, / come si spande”). Appartiene a tutti ed è di tutti i giorni. Modula un’espressività minimale che attraverso l’oralità e una pianezza argomentativa ci dispone verso un’analisi del quotidiano e dei suoi interstizi.
“Il nero che avevo dentro, / bastava un po’ di ghiaia sotto le ruote / e mi montava la paura / di non tenerlo più. Ecco: la piena / saliva. Ero sul punto / di lasciare la presa, perdere tutto. // Appeso a una stanga, in autobus, / sentivo crescere il vuoto / di essere ancora – lì in mezzo – questo segreto, / la pena / di rimanere, senza niente intorno, il centro” (Piena).
Dentro un paesaggio urbano e disincantato il poeta registra oggetti ed eventi che popolano le vite di ognuno, conducendo il proprio sguardo in uno spazio costellato di edifici e fabbricati, interni, quartieri da percorrere a piedi o in tram ravvolti in sé stessi. Elementi muti di una quotidianità che proprio al culmine del silenzio può prepararci a un incontro con noi o con gli altri e farci accedere a una fugace epifania.
Come nella migliore poesia dialogica, Fiori mette in scena e drammatizza, grazie a uno stile visivo, di ascendenza leopardiana, quelle situazioni ordinarie in cui l’essere si ridesta dagli automatismi più triti della chiacchiera e del reale per affacciarsi di colpo a una dimensione altra (“quando mettendo in ordine un balcone / ti ricordi del mondo”). E proprio la riflessione sull’opacità della parola e sulla sua funzione fática (quella che stabilisce il contatto tra i parlanti) è al centro di questa poesia:
“Vedi? Parlare ci separa. Eppure / nemmeno nella stretta di mano / più calda, occhi negli occhi, / nemmeno abbracciati, / persi nel bacio più profondo / saremo mai vicini come siamo / nelle parole” (Spiegarsi). “Parlano come se con una frase / si potesse davvero dare e togliere, / legare e sciogliere e mettere bene in chiaro / tutto, una volta per sempre; // (…) Sono solo parole, / le parole. // Ma un giorno questo solo / che le mette da parte e le fa stare / sacrificate / ti sembra nuovo” (Le parole).
E in fondo, è ciò che ogni lettore di poesia si auspicherebbe ancora dai versi. Ridare alla poesia quella specificità che la riconduca ad essere un’espressione separata ma necessaria e insieme la legittimi nel mare odierno dei discorsi. Una poesia che
“parafrasando Wittgenstein, (…)
si dovrebbe propriamente
soltanto filosofare”
(Agamben).
Lo stile semplice di Fiori non propende verso la cantabilità né cerca di rendersi memorabile, bensì pretende la verificabilità dei propri assunti, secondo un incedere meditativo non dissimile da un “pensiero poetante”.
In questo periodare prosastico, diviso tra cantilena e abolizione del canto, scandito da “frasi” ‒ benché il camouflage di endecasillabi e settenari, rime interne e omofonie, ne trami il dettato, da Chiarimenti (1992) a Tutti (1998) a La bella vista (2002) a Voi ‒, si rivela una vocazione lontana dal realismo e dalla cronaca, in attesa di imbattersi nel “collante” segreto tra le cose (parola ad altissima occorrenza e densità: “le cose là fuori, belle e pure / dentro la prima luce”) e noi: “la cosa che tiene”, che “ci regge”, (quasi in antitesi al montaliano nichilismo dei Limoni), “l’odore del collante che le tiene / ancora insieme”, “quello / che mette in ordine il mondo, / quello che tiene insieme / persone e cose”.
Senza fuoriuscire dal poetico, Fiori manovra i suoi testi come un dispositivo gnoseologico. L’uso di similitudini stranianti e dell’enjambement che strappa il tessuto delle sue poesie sono gli strumenti di indagine con cui il poeta incide il guscio del reale, per restituire abilmente una “percezione lirica delle cose” (Gianluigi Simonetti), magari nascosta, che soltanto le parole possono rievocare, rinominando il mondo e deformandolo, per riconsegnarlo destrutturato e nuovo (“intanto se lo sente, il mondo, / proprio qui / sulla punta della lingua”).
La metropoli diventa luogo di svelamenti, dove l’“impenetrabile come quotidiano” è attraversato da “illuminazioni profane” (Benjamin), da teofanie nere (“è questa l’apparizione / ma non c’è niente da annunciare”), da intuizioni (vite e case “restano in piedi come per miracolo”), fino a vere Visioni:
“Vetrine, macchine: / è tutto così liscio, così lucido. / La gente in giro, / appena può, si specchia. / Ma fuori, ai capolinea / dove finisce il comune / e più avanti, nei campi, in mezzo al verde, / solo le cose si vedono. / Nel fango secco oppure lassù, nel cavo / dell’alta tensione, uno / riflessi non ne ha più. Manca, si perde. / Allora viene la paura / di apparirsi di colpo. Come ai bambini, / nelle cantine, il diavolo.”
Fiori ricostruisce una sorta di mitopoiesi del quotidiano, in cui perdersi (“siamo così. Siamo quello che manca / in tutte le spiegazioni”) e ritrovarsi nell’evidenza delle cose, “sotto gli occhi di tutti”.
La similitudine straniante è il nucleo genetico in grado di sottrarci a una percezione abituale e usurata, così le preghiere sono come “il ritmo di una lavatrice”, “l’autobus vuoto, / come un tempio in un viale”, le case “belle come un saluto”. Così gli enjambement,
“l’unico criterio distintivo della poesia rispetto alla prosa” (Agamben),
che nella sospensione della sintassi si fanno allegoria. A scapito delle meravigliose oscurità del testo o dei ripiegamenti autoreferenziali del messaggio, questa poesia scommette nel potere conoscitivo della parola, sceglie di ristabilire una comunicazione con il proprio lettore, privilegiando la relazione, la funzione eteronoma come un atto linguistico democratico. Ne dà prova lo stesso io dell’autore. Non separato o trascendente ma impersonale, immanente (Deleuze), “tutto fuori”, “pura presenza, / senza rimedio” di uno che parla (“voi siete tutti. / Meno uno”).
“Io rimango nascosto, / ma quello che mi brucia dentro è là”. La poesia come unico luogo di prodigi senza privilegi: “Nella sala d’aspetto / a un certo punto il rombo delle chiacchiere / è finito di colpo. / È stato lì che tutti / ai nostri posti / abbiamo alzato gli occhi e per un attimo / ci siamo visti” (Stazione).
L’ha ribloggato su Gianluca D'Andrea.