Il teatro di memorie di un poeta, il suo sguardo spezzato
Giuseppe Vetromile, Congiunzioni e rimarginature (edizioni Scuderi, 2015)
di Mario Fresa
L’ultima raccolta poetica di Giuseppe Vetromile, Congiunzioni e rimarginature (edizioni Scuderi, 2015) mette in scena una continua rappresentazione degli eventi che si profila tagliata, sospesa, incompleta, e che sembra tendere, con elusiva tensione, al nascondimento e al rimescolamento delle tracce esposte e dei segnali raccolti. Lo stesso poeta si ripara nell’ombra, e si consegna al baratro di una visione spezzata, nella quale si uniscono e si sovrappongono le linee di una prospettiva asimmetrica e disturbata, dove s’intersecano e si disperdono la memoria e la storia, l’immaginazione e la realtà: una prospettiva inquietamente provvisoria e purgatoriale, prigioniera di un labirinto che non finisce mai di dilatarsi e di trasformarsi.
La scrittura di Vetromile è immersa, dunque, nell’inattraversabilità del tempo interrogato e nell’immisurabilità dello spazio percorso: e pare stipata, con affanno, con violenza, nello stretto corridoio di una parola che si rivela, infine, indicibile e mai pronunciabile; e la vertigine della poesia sembra, allora, simile alla meraviglia irrappresentabile della morte: come quest’ultima, essa giunge a diventare «qualcosa che non ha più nome in alcuna lingua» (Jacques Bénigne Bossuet).
Scrivere coincide con il nostro mancare (conosciamo noi stessi e la vita quando perdiamo quella vita). Una poesia deve agire, perciò, come una specie di solenne rito mortale: la sua azione violenta pone a rischio l’esistenza, e nel suo precipitarla (nel suo distruggerla) tende a potenziarla, a illuminarla, a mostrarla nella sua vera interezza.
Ed ecco: si fanno chiare le azioni fondanti dello scrivere poesia, del costruire la parola delle parole: offrire e sparire; evocare e perire; mostrare e cancellarsi.
Il poeta non scrive per ostentare, ma per capire e per difendersi, per guardare e per ritrarsi.
Non si usa la lingua poetica per conquistare uno spazio, per limitarne i confini, per chiarirne le coordinate: si cade nel pozzo dei suoi segmenti bui, mai duplicabili e inesplicabili sempre.
Come nel paradosso acuto di una fotografia – si rifletta sul suo delusivo tentativo, e sulla sua illusiva tentazione, di rendere immobile e vivo ciò che appartiene alla deperibilità di un istante – un verso dice tutto quello che è nascosto e che non può essere riferito altrimenti: e dice, soprattutto, ciò che non è mai di colui che dice e scrive i versi (che cos’è l’io? Un altro nulla che sostiene di essere, proprio adesso, qui).
Nell’incontro-dialogo con le fantasime famigliari, con le memorie risorgenti, nella visione sognata di certe impossibili ricongiunzioni, il poeta scorge «mondi paralleli ma / incomunicabili», restando con «un piede nella stanza» e con «una mano tesa / verso l’oltre»: e in questa irrisolvibile trama di legami e di ricordi, di riavvistamenti sublimi e di istantanee ricuciture, noi diventiamo tutto ciò che abbiamo vissuto e immaginato: noi siamo i nostri padri, e i nostri padri sono stati noi stessi: ricordando di continuo, però, che tutto questo ricomporre e risognare è tutto e sempre illusorio e fallace, ché l’esistere non è che «un cambiarsi continuo la camicia / senza mai sapere di che è veramente vestito / il nostro andare sfumando».
*
Testi tratti da Congiunzioni e rimarginature
Dovevo dirlo a mio padre
Dovevo dirlo a mio padre prima che andasse via per sempre
dissolto nella polvere del pianeta
che non c’è confine certo oltre la stanza
quantunque illuminata e soleggiata
che non c’è proroga al tempo dei battiti del cuore
quantunque sonori e ritmici
come di musica africana
e lo sguardo di speranza dato di sottecchi
all’altro cielo mentre cammini evitando i fossi
c’è da dire
– ora che a più nulla serve –
che è stato previdente ed opportuno
credere soltanto a poche gioie
e a questa terra di fortuna
ché poi il resto passa e più non torna
Dovevo dirlo a mio padre ed ora lo ripeto
alla mia ombra renitente
che la vita è angusto spazio da riempire
è tempo da passare brevemente
*
La mano già sulla valigia
La mano già sulla valigia mi dicesti dunque
io parto
ma tu non seguirmi e
non cospargere di petali la scia d’amore che ti lascio
e neppure rendimi le parole che ti ho fatto
a misura del tuo corpo
figlio
perché un giorno tu possa convertirle in inchiostro indelebile
sulla tua pelle pellegrina
Allora non ti vidi più
padre
come risucchiato dal cielo
o confuso nella terra
sparito dalla stanza
e il tempo è un’invenzione per crederti ancora qui
seduto sulla tua poltrona preferita
accanto alla radio a galena di tua costruzione
(ti piacevano i rottami del mercatino delle pulci
che tu rimettevi a nuovo come per incanto)
Partisti allora sì
ma per lidi tenebrosi e speranzosi
quando l’afa di agosto era già alle porte
ti seguii fino all’orizzonte senza luce
una goccia di rugiada si scioglieva
e il sole ignaro un’altra volta all’alba
risorgeva
*
Mia madre al qui e al dopo
Sono l’ultima fanciulla di Ottaviano e prendo il sole
tra le braccia grezze scivolando sull’ala del vento
come una farfalla rudimentale
io l’antica stazza di prorompente ma fugace
beltà
io il sorriso la carne lo scoglio di piazza vittoria
e santa lucia che mi tiene in barca
io la possente persistente contro tutte le mode del tempo
sono rimasta l’unica fanciulla che guarda in alto
sulle pareti mio padre e mia madre severi e torvi
sono un altro mondo mai vissuto
ma raccontato a segni e a smorfie di volti
i miei raccapriccianti amati
i miei dolorosi fratelli
sono rimasta
e qui vorrei abbandonarmi sul terrazzo sgretolato
all’ultimo sole d’agosto
senza più il frastuono del mare
né l’ala del vento che mi accarezza
questa pelle d’elefante
io sento ora l’armonia degli angeli
verranno a prendermi di notte
mentre tremo ancora sulle labbra
la parola di Dio che non so
che non sento
che non vedo
ma respiro come l’aria
necessariamente
*
Abito da questa parte
Abito da questa parte e in questo momento solo perché me lo dissero i miei
quando nacqui
e senza sapere nulla del mio orizzonte
mi preparai a percorrere una lunga strada
fino ad una possibile congiunzione
con l’eterno
Ma sta di fatto
che il punto d’incontro di tutte le anime
di tutti i tempi
non è mai capitato da nessuna parte
e il mio orizzonte è sempre lattiginoso
qui
e nessuna parola sull’uscio di casa mi accompagna e mi benedice
quando cammino sull’orlo della luna
o rasente i segreti passaggi del cuore
Mi tradirai!
lo so
un giorno che la finta luce mi colpirà alle spalle
ed io più niente potrò
di fronte a questa evanescenza
ultima speranza
prima di abbandonare questa terrena residenza
*
Del dolore
Si distanzia sempre di più la clessidra dalla mia architettura
Ora che so di essere polvere sgusciante attraverso le pareti della stanza
e me ne vado da un capo all’altro del tempo
in un giro che non ha mai fine
raccolgo dolori all’apice e sprofondo in statici abissi
porto addosso la mia nullità terrena
che si sgretola liberando arie divine – forse –
verso un olocausto di speranza
laddove si accumulano preghiere e vaticinii
sull’orlo bianco-oro del paradiso
dovrò prendere atto di queste distanze
e staccarmi per sempre dalla rozza terra
che pure mi modellò
ma io sono un altro me stesso
e quest’ombra avara di verità definitive
dovrò per forza condurla giù nel prato verde
dove
nonostante il tempo e l’evoluzione
il fiore mantiene un profumo tutto suo
*
Se altro c’è oltre la casa e il circolo di terra che m’accompagna
verso la sera
dovrò desumerlo da qualche angolo di luce
intercettata al momento della medicina
che scende in me a recuperare scompigli d’ossa
tentando resurrezioni o improbabili rifacimenti
e nell’impasto sconclusionato di terra e cuore
vedere la cima del monte sgombra da ogni nube
svettare imperterrita nel nulla luminoso del cielo
è forza che mi viene dalla disperazione
*
Ho ragionato a lungo sugli sconquassi delle molecole
in un giorno leggendo la creazione del mondo
dal verbo di Dio
ed ora mi strazio cercando la giusta composizione
o amalgama
della mia anima con l’etere celeste
e quand’anche fosse raggiunta la perfetta osmosi
direi che basta un soffio di vento
per fugare tutti i mattoni e tutte le ossa
verso il fondo dell’universo
laddove non piange e non ride nessuno
ma si vive
con l’attimo felice in una tasca
e il dolore nell’altra
In copertina: Radio a galena (Fonte: Bertibenis.it).