LE MUCCHE NON LEGGONO MONTALE – di Giulio Maffii

Le mucche non leggono Montale è un piccolo e graffiante libro edito da Marco Saya Edizioni, che senza fare sconti a nessuno e con estrema chiarezza – come dice l’autore stesso – “volutamente divulgativa” descrive e racconta l’abisso d’inutilità in cui è precipitato il panorama poetico italiano. Il provocatorio titolo, infatti, parte dall’analisi che ravvede nell’ironica massima montaliana:  “la poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti”, causa e origine dell’inutilità della poesia nella sua stessa natura a portata di tutti. A primo acchito si potrebbe pensare che Giulio Maffii con questo pamphlet miri a sparare a zero, tout court, sulla poesia, ma non è così; Maffii tiene talmente a cuore la poesia contemporanea e le sue sorti, da assumersi la non gravosa responsabilità di scrivere un vero e proprio j’accuse motivato e dettagliato sui meccanismi perversi che fanno sì che il brulicare indiscriminato di sedicenti poeti e altrettanto sedicenti editori, annulli nella sovrabbondanza di offerta senza criterio e nell’altrettanto catastrofica assenza di giudizio critico, ogni barlume di autenticità e novità degna di nota nel panorama letterario italiano. Maffii con questo tagliente “manuale del pessimo poeta”, vuole infatti sollevare la questione della responsabilità dell’autore, che necessita a suo avviso – e anche a nostro parere – di una profonda conoscenza e rigoroso rispetto per ciò che la poesia come genere letterario ha rappresentato nel corso della Storia della Letteratura (con la L maiuscola!), imparando quindi a discernere quanta parte vi sia tra la necessità intima di scribacchiare diaristicamente e l’altrettanto intima e narcisistica necessità di appagamento egli possa soddisfare con la pubblicazione dei suoi effluvi egotici. In conclusione non possiamo che sentitamente consigliare questo piccolo tesoro di saggezza per impartire a noi stessi il monito dell’autore, cogliendo il suo invito – prima di tutto – al rigore, all’amore, e al rispetto per il nostro bagaglio umano e culturale, sì da acquisire quantomeno un metodo prima di pubblicare.

natàlia castaldi

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(Qui di seguito un estratto del libro a riprova di quanto sia l’amore per la poesia a muovere le pagine di questo libro, ancorché la volontà polemica contro la stessa.)

PICCOLE OSSERVAZIONI SULL’ATONALITA’ MISTA NELLA POESIA “SE VOLESSI UN’ALTRA VOLTA” DI FRANCO FORTINI

Se volessi un’altra volta queste minime parole
sulla carta allineare (sulla carta che non duole)
il dolore che le ossa già comportano

si farebbe troppo acuto, troppo simile all’acuto
degli uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto
sull’altissima magnolia si contendono.

Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso
che non dica in nota acuta: “Più non posso”.
Grande fosforo imperiale, fanne cenere.

(F.Fortini) da Composita solvantur

Dare un altro senso, un’altra accezione che non sia quella di apologo finale del percorso poetico e umano di Fortini, è veramente difficile. Composita solvantur nell’univoca interpretazione esegetica è questo e qualcuno potrebbe aggiungere “ e niente altro”. E` da questo ‘niente altro’ che dobbiamo partire per le nostre piccole osservazioni. La volontà testamental-poetica di Fortini è lucida, sia nella costruzione strutturale del lavoro, sia nel dettato apparente ed occulto. La complessa allegoria della raccolta sembra riducibile, nunc et semper, ad un colloquio informale con la morte, alla sua ineluttabilità. Già in questo però si deve dicotomizzare e scernere la morte del poeta e la morte dell’uomo. Le due variabili sono inseparabili nel poeta fiorentino. Non esiste l’uno senza l’altro. L’acuta sensorializzazione della prossimità della fine, o di una non-fine, permea i versi, i contenuti, i rimandi e gli agganci storici di ogni sezione del libro. Non meno presenti giustappunto nel piccolo capolavoro di “se volessi un’altra volta”. Le tre terzine che la compongono sono l’epilogo del “Composita”. La loro collocazione è, infatti, e non casualmente, l’ultima. Non inganni il fatto che dopo segua “E`questo il sonno”, graficamente in corsivo, rimando al “Foglio di via” del 1946, una sorta di “reprise” che contiene il messaggio gnomico per i posteri “proteggete le nostre verità” rimasto nella storia letteraria e su cui si sono scritte varie pagine di critica . Non inganni l’esistenza di un’ulteriore sezione chiamata “Appendice di light verses e imitazioni”, il titolo stesso è prodromico a ciò che si incontra. Il maestro della coerenza storica lascia quindici pagine di apparenti calembour, di depistaggio, ma avverte: si tratta di ‘imitazioni’ di ‘light verses’, un accessorio al suo testamento.
Se volessi” non si discosta certo dalla sua cinquantennale disciplina della parola anzi, ne cementa le fondamenta con pochi versi fulminanti, collocandola a ragione in una atemporalità, concetto pressoché sconosciuto al Fortini attaccato alla storia. Qui però siamo in campi differenti. Già la poesia in genere, nel suo complesso, è vista globalmente, come intuisce Gardini[1], in senso cronologico invece che diacronico; inconfutabile l’esempio della grande stanza in cui dobbiamo immaginare tutti i poeti che allo stesso momento lavorano per la poesia e non ogni singolo poeta che lavora per se stesso. Ciò premesso credo allora che la poesia possa essere vista come un punto geometrico; anche se l’accostamento è apparentemente illogico. E` un “ognidove” in cui passano infinite rette, ovvero le poesie, che si sfiorano, si uniscono, si allacciano creando strutture simili ad un ipertesto. Si costituiscono dunque strutture di intere letterature che confluiscono nel “nessundove”, che non è termine negativo, ma luogo infinito dove la poesia si rigenera con la poesia. Rinasce ogni qual volta viene letta, rielaborata e ripresa, si rigenera nel suo stesso linguaggio come scrive anche Salinas[2]la poesia è affidata a quella forma superiore di interpretazione che è la malentendu. Quando una poesia è scritta è terminata ma non finisce; comincia, cerca un’altra poesia in se stessa, nell’autore, nel lettore, nel silenzio”. Quasi tautologico ricordare sempre che “la poesia non è formula”[3] con buona pace dei puristi reazionari della metrica. Proprio dall’osservazione metrica di “se volessi”, dalla sua costruzione in terzine, nascono alcune considerazioni. Gabriella Sica nel suo interessante e illuminante “Scrivere in versi”[4] considera proprio questa poesia un “madrigale”, concetto pure ripreso in un articolo di poco spessore da G.Guarducci[5]. Fuori opposizione il fatto che un madrigale è di per sè musicale, la storia della musica lo mostra chiaramente, ma la forzatura di etichettare questa poesia è evidente. La lettura evidenzia la musicalità, il ritmo, quasi una cantilena, una lallazione di contenuti, aprendosi poi a variazioni, cambiando, con una chiusa spiazzante che esce da qualsiasi schema. Si può quindi considerarla un esempio di “atonalità mista”, concetto che supera la distinzione semplicistica ma efficace di Harold Bloom[6] a sua volta mutuata dallo Pseudo Longino, circa la prevedibilità e l`inevitabilità della poesia. Soffermandosi sui concetti teorici proposti da Schönberg [7] per la musica, si può pensare quindi di lavorare su più strutture, più toni, non rispettando appieno le leggi del contrappunto. Per far ciò è necessario che il poeta conosca tali leggi per usarle, modificarle, plasmarle per dare toni e accenti diversi, per giungere al risultato di un cambio di ritmo, all’andamento rapsodico e vario, legato comunque ad un tema dominante. “Se volessi” è dunque, al di là dell’altezza del contenuto, legata al concetto di ritmo che, non è una novità ma un pensiero centrale, è la base e la madre della poesia anche a livello archetipico e antropologico. Il termine “mista” va considerato fondamentale. Non dobbiamo pensare a qualcosa di dogmatico, intangibile, la poesia è parola, la parola è via di fuga e cambiamento. Quindi cambiamenti ad una struttura regolare, cambiamenti voluti e volontari, ovviamente, non casualità da verso sciolto buttato su di un foglio bianco. Se volessimo fare un paragone audace, potremmo pensare a dare una mutazione di accento ad un blank verse. “..la parola tonale viene usata in modo non giusto, se la s’intende in un senso esclusivo e non inclusivo…”[8] Utilizzare una tecnica “mista” significa lavorare su variazioni ritmiche fino a rendere un tono sincopato, non una semplice agglomerazione di suoni, ma attendere ad esiti inattesi che superano una misura prevedibile e scontata.

Se volessi” nella sua significanza, pare una “logopea” di poundiana memoria, una leggibilità oltre il non detto o l’apparente significanza intesa nell`interezza di costruzione e significato. Rimanda ad un madrigale ma non lo è, rimanda ad un significato immediato ma ne nasconde altri nella sua stessa parola. Si lega, nell’esplosione della sua ipotetica iniziale, all’If kipliniano, ma per fortuna non si sviluppa noiosamente in maniera didascalica. Fortini gioca su variazioni tonali della parola. …. sulla carta allineare (sulla carta che non duole) la ripetizione, quasi anaforica, si trova anche nel quarto verso … si farebbe troppo acuto, troppo simile all’acuto… rendendo il ritmo simile a quella che sopra ho chiamato lallazione di contenuti. Quindi il legame tra i versi è espresso seguendo regole strumentali proprie a Fortini, quali gli enjambement (vedere ad esempio il primo verso) ma vi è un nesso ulteriore che lega le tre terzine ed è il cambiamento rispettivamente del 3,6,9 verso. In particolare il nono che entra in totale dissonanza con il resto. Questa dissonanza tonale rende forte, vigoroso l’apparente estraneo “Grande fosforo imperiale, fanne cenere”. Se l’atonalità mista può spiegare ed interpretare correttamente le asprezze e i cambi ritmici montaliani, qui nella brevità del verso può, ancor meglio, rafforzare il pensiero gnomico e doloroso del poeta fiorentino. Considerando ancora proprio l’ultima terzina

Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso
che non dica in nota acuta: “Più non posso”
Grande fosforo imperiale fanne cenere.

Il fosforo del nuovo imperialismo coloniale è una scia di fuoco sui cieli del Golfo, e, in Composita, il tema è ampiamente trattato e reso quasi a glorificare il dolore personale, storico, per gli accadimenti coevi. La chiusa quindi ricama e conclude idealmente, ripeto, la raccolta, nonostante il reprise di “E` questo il sonno” e della sezione delle Appendici.

Dobbiamo prendere in considerazione un altro elemento di legame : il ritmo spaziale[9]. Scrive Paz [10]“Quindi, il ritmo non è esclusivamente una misura vuota di contenuto, ma una direzione, un senso”, senso e tipologia di ritmo che spesso vengono tralasciati da chi discute di poesia, ma che collega segmenti poetici, crea un “movimento”. Il termine movimento chiaramente è a duplice accezione. Già la rappresentazione grafica è chiara, la terzina è movimento, movimento di dettato, movimento musicale. La chiusa, abbiamo detto, richiama il dramma storico che accompagna tutto il Composita solvantur; forse è una risposta melodrammatica allo stesso motto baconiano utilizzato per dare il titolo alla raccolta.

I “cari piccoli” sono gli uccelli del quinto verso o destinatari universali dei dubbi umani e poetici che assillavano Fortini? Certo è che il dolore delle ossa, il doloroso scrivere, acutizza i dubbi, acutizza la necessità di consapevolezza e di coscienza che Fortini chiede, sia nel lettore che nello scrittore. Non c’è carta che non duole e questo ‘duole’ non per abbellimento estetico rima con ‘parole’; è retorica, conoscendo l`intera produzione del poeta, affermare che la parola è una risposta. Raboni magistralmente ha scritto[11] che Fortini

“… esprime essenzialmente la crisi dell’intellettuale di fronte alla storia la rottura del rapporto di solidarietà con lo stato di cose presenti, respinge ogni ipotesi di salvezza interna di auto redenzione negando al proprio fare poetico qualsiasi funzione diversa dalla presa di coscienza… e della testimonianza”.

Quindi coerentemente con le convinzioni di una vita intera, Fortini sublima e attacca nell’ultima terzina con quel “ecco scrivo”,   e in tutto il testamento poetico di Composita Solvantur vi è continuità di pensiero, perché “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”[12]. Per scrivere si usano parole, si utilizza la carta, si adoperano similitudini e nessi come gli uccelli, gli acuti e la magnolia. Si disfa il proprio corpo, fino ad essere senza tendini od ossa. Il poeta è muto riempiendosi di grida. Un rimando post montaliano, senza dubbio, dato dalle asprezze che la Storia mostra: mai celate nel fiorentino, dissimulate nel ligure. Un’asprezza storica dunque, che non duole soltanto a livello metaforico o all’interno dello spirito che muove il versificatore. Fortini ci dice che il dolore è addirittura fisico, unendo cosi scrittura, storia e coscienza in una triade indissolubile. Nessuno deve perdere di vista la coerenza e l’utilità della scrittura; si dissolva quindi quanto è composto, che sia l’ordine o il disordine, non ci è concesso saperlo con certezza; sarà soltanto l’uomo calato nel proprio contesto sociale e antropologico a deciderlo.

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[1] Vedi ad es. N.Gardini, Storia della poesia occidentale ,Milano 2002, Mondadori e N.Gardini, Com`è fatta una poesia?, Milano 2007, Sironi
[2] Si veda in particolare la pagina XVII dell`introduzione a cura di E.Scoles di “La voce a te dovuta” , Milano 2007, Einaudi per il riferimento preciso di tale citazione
[3] T.S.Eliot, Il bosco sacro, Milano 2003, Bompiani pag.15 dell`introduzione in risposta ad un contributo critico di Edmund Gosse apparso nel Sunday Times il 30 maggio 1920
[4] G.Sica, Scrivere in versi –Metrica e poesia- , Milano 2011, Il saggiatore pagg.156-167
[5] G.Guarducci, Modernità del madrigale, da “Il dolce stile eterno”, suppl. a “L`Alfiere”, gennaio giugno ottobre 2007 gennaio 2008
[6] H.Bloom, L`arte di leggere la poesia, Milano 2010, Rizzoli in particolare alle pagg.43-47 con esempi mirati e pungenti
[7] Arnold Schönberg, Manuale di armonia , Vienna 1921 e Roman Vlad, Storia della dodecafonia, Milano 1958, Suvini Zerboni
[8] Schönberg op cit.pag.13
[9] N.Gardini 2007 op.cit.pagg.84-95
[10] O.Paz L`arco e la lira, Genova 1991, Il melangolo pag.60
[11] La citazione è tratta da AA.VV., I contemporanei, Milano 1974, Marzorati vol. III pagg.959-980 riportata a pag.169 di I poeti del Novecento, a cura di F. Fortini, Roma-Bari 1977, Laterza
[12] In F. Fortini, Poesie scelte, Milano 1974, Mondadori, la citazione è tratta da Traducendo Brecht contenuta nella raccolta, Una volta per sempre

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