“Salernitudine” di Ennio Abate

Salernitudine è una raccolta di poesie di Ennio Abate aventi come tema la vita di un ragazzo tra i vicoli della sua città natale.

Impreziosito da una prefazione di Michele Ranchetti, il testo (pubblicato da Ripostes nel 2003) è composto da poesie in parte in salernitano e in parte in italiano (quest’ultime spesso ricordano il passato con il senno di poi), nonché da pezzi in prosa talvolta narrativi e talvolta poetici (una sorta di prosa d’arte). L’opera sembra raccontare l’educazione sentimentale del giovane Abate nella città-presepio in cui è nato, per concludersi con il suo esilio – l’uscita dal presepio, espressa nella lirica che dà il titolo alla raccolta -, che rappresenta l’entrata nel mondo adulto, al di fuori del proprio microcosmo provinciale, dove famiglia, parentado, amici e conoscenti costituiscono un piccolo universo isolato da tutto il resto.

Il libro è dedicato alla madre, che nei testi in prosa diventa voce narrante che dialoga con il figlio, esprimendo i più profondi patemi di genitrice. La madre immette il ragazzo nella vita del loro microcosmo instillandogli i suoi principi morali, che gli faranno da filtro – se non da scudo – alla scoperta della donna. Personaggi delle poesie di Abate sono le donne, ragazze o adulte (in questo caso spesso vedove:

“Femmene senza prufume/

camminavene cu me./

Une vesteve a llutte.”

– da “Stu munnu fernisce”), i preti, i ragazzi come lui, i parenti, ma non meno importante è il paesaggio con i suoi vicoli, il cimitero, le feste paesane, gli alberi, gli animali (gallinelle, mucche, lombrichi), e anche il vento e la pioggia.

C’è un senso di angoscia repressa che aleggia nelle poesie, angoscia che diventa sarcastica mestizia, spesso dolciastra, che flirta con la morte (si vedano le bellissime “Scioscia, viente”*, “Tenebria”*): il dialetto salernitano conferisce, con il suono esuberante che lo contraddistingue, un carattere ruspante a queste liriche amare, che Ranchetti infatti chiama “spietate”.

Si instaura, durante la lettura, una cadenza, un ritmo che scandisce un unico, costante passo tale per cui le poesie appaiono concatenate come tanti racconti di un grande poema, sullo stile di “Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson (che a sua volta rimanda all'”Antologia di Spoon River” di Edgar L. Masters), con la differenza che l’Io-poetante, ossia l’Ennio Abate ragazzo – o adulto che ricorda la sua vita da ragazzo -, è sempre in primo piano, è sempre l’unica voce.

Voce unica e, per quasi tutto il testo, solitaria.

C’è un forte scarto tra il ragazzo che che si esprime (o, ripeto, l’adulto che ricorda) e il mondo descritto: il ragazzo appare quasi sempre isolato, un io immerso e al contempo estraneo al suo universo, questo microcosmo salernitano identificabile più con un villaggio agricolo che con la città di Salerno (si parla spesso di “paese”, infatti, mai di città se non come presepio: paese con vicoli anziché strade, alberi da frutto, pollai con galline, stalle con vitelli e cavalli). Gli unici, tenui legami che l’Io-poetante sviluppa con i personaggi sono quelli parentali:  la madre, ossia l’alterità che parla insieme al figlio, il padre (dipinto in una anomala poesia espressionista carica di allucinata violenza:

“Pateme ere servatiche./

Verette na serpe divina/

nge facett’ammore e l’accirette”

– da “Pateme”),

lo zio morente (

“Dicimme a morte/

ca turnasse n’ata vota./

O zie tene e piere troppe fridde/

e non pò ascì cu tutte st’acque e viente”

– da “Dicimme a morte”); in una sola poesia, “Amicizzie”, il ragazzo che filtra i contenuti poetici parla al “noi”, identificandosi con gli altri ragazzi del suo paese, per esprimere il destino condiviso di uomini in erba già pronti a soffrire e financo a morire per amore:

“Une e nui s’arrugenette l’anema/

facenn’o pazze cu na femmene./

Sputaje nfacce ao munne/

se curcaje ncoppe e binarie sott’a na gallerie/

e o trene spezzaje a mmetà.”

Le poesie amorose parlano di una sensualità acerba, vissuta e descritta con un pudore di ascendenza materna che non soffoca comunque un grande desiderio carnale (“Maruzzelle, marunnellee”*): Abate accenna a “toccamenti” clandestini tra ragazzi nei vicoli, a ragazze abusate dai preti (“La ragazza dei preti”), a

“seni sciupati e dentro il sangue/

dentro – tum! tum! – facevano assieme. – da “Ascoltando Giovanna Marini”.

La raccolta si conclude con quattro poesie in italiano il cui tono è quello del “Braciere di ricordi”. La migliore, a mio parere, è

“Nel sud della mente”, summa ideale del vissuto interiore di Abate, del rapporto di amore-odio verso il suo paese, espresso con versi molto ispirati di mirabile efficacia:

“Care voci d’un passato assai carezzato

non illudetemi sul dovere di un ritorno.

Vivo è questo nostro reciproco smarrirci

che altrimenti ha profilato i corpi

e divaricate, irricongiungibili, le storie.

Emigrare è conoscere dalla parte delirante del celeste

l’oscuro schianto del comune presepe.

Voi, i rimasti, dalla parte interrata

ne soffrite lo stesso l’agonia.” 

 

 

*POESIE SELEZIONATE:

 

 

 

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