di Diego Conticello
Francesco Targhetta Perciò veniamo bene nelle fotografie (ISBN Edizioni 2012)
Forse non proprio a causa dell’immobilismo in cui versa la situazione presente, bensì perché manovrati dall’alto come burattini rimbecilliti dalle estrose castronerie dei potenti di turno, ci muoviamo come a comando, a “scatti” con enormi “pause di riflessione” abulica, silenziosa, infine distruttivo-depressiva: ecco il vero motivo di questa estrema fotogenicità che ci immortala bloccati nella malinconia amara di un’intera generazione che potremmo definire del totale e assoluto annaspamento umano, poiché «[…] non si muove nessuno,/ qua,/ perciò veniamo bene/ nelle fotografie.». Di tutto questo e altro ancora ci parla questo esordio di Francesco Targhetta, dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Padova, il cui ciclo è giunto ormai al termine senza la ventura di essere stato corroborato da una ‘spintarella’ (sia essa di natura “baronale” o economica – che poi in fondo è la stessa cosa!), in una forma ormai disusata – e parimenti efficacissima – che fluttua tra il romanzo e il poema in versi, ma con un quid di spiccata tecnicità fatta di opportuni e amalgamati incastri di paronomasie, rimalmezzo, osssimori e quanto altro ancora (forse) si impara dagli anni di studio, risultando talmente familiare da essere giostrato quasi ad orecchio, tanta è la naturalezza di questo dettato.
Certo di primo acchito ci vien fatto di pensare alle scene di Tutta la vita davanti, pellicola di Paolo Virzì in cui la protagonista, laureata in filosofia (per cui “precaria” per antonomasia come il nostro), sdilinquisce in un mastodontico call-center che la costringe quasi alla depressione; oppure, per restare nella letteratura, alle memorabili pagine de La ragazza Carla di Elio Pagliarani, con quella sua tipica nonchalance stilistica e smaccata indolenza che sottendono sempre il rovello, il cruccio esistenziale: e così pure si presentano le pagine di questo che definire “romanzo” è certo riduttivo, sia per l’altezza certosina delle forme che per l’integrale fluidità negli esiti finali. Eppure una vena ipnotica e insieme dimessa agita questi versi, una vena continuamente “sbucata”, martoriata dalla frustrazione per un vissuto “critico” che, in questi anni, si è talmente allargato da trascinare nel baratro una gioventù (che ormai, a forza di prove e controprove, si è fatta – suo malgrado pecuniario ed intellettivo – più che adulta) in perenne ricerca di stabilità, eppure di continuo interrotta da motivi ormai misteriosi anche agli stessi burattinai: tutti – protagonisti e relative allusioni – divorati da un teatrino dell’assurdo che ha purtroppo poco di avanguardistico e molto di squallido.
Il poetare di Francesco Targhetta, perché davvero di ottima poesia si tratta, assume spesso connotazioni intimamente crepuscolari, quasi govoniane nei suoi passaggi sciolto-coloristici che ricordano tanto primordiale simbolismo di area franco-belga dei varî Jammes, Samain («[…] la musica disinibisce/ e infonde a strappi un perverso coraggio,/ come l’infelicità»), con corpose aggiunte da scenario urbano contemporaneo: «[…] la scia dei pini/ marittimi che inganna le betoniere,/ e copre, a sbuffi, i miasmi dei bidoni/ per l’umido e i vapori vaghi/ delle sere.». Nonostante la rovina in cui si susseguono i nostri giorni, questo romanzo delinea la ferma volontà di non soccombere alle insidie della vita, anzi reagire per tornare mobili, aerei, leggiadri, magari fantasmatici come in una foto mossa, ma solo perché non si è voluti rimanere in posa (in marcescenza?) mentre l’esistenza continua a trafugarci tempo per restituirne dolore, «[…] perché/ occorre, certe volte, la vira, farsela/ piacere, con la difficile cura/ di non superare il limite che ci separa/ dal farci del male, o di farcelo/ senza darlo a vedere».