Carteggio XXIII : VIVA LE PAROLE SPORCHE! Qualche appunto sul rapporto fra la scrittura poetica e il sistema della visione

di Alfonso Lentini

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Prendendo il discorso ab ovo, notiamo come prima cosa che la parola è percepibile sostanzialmente per due vie: per via di orecchio o di occhio. O si fa voce o si fa scrittura. E se storicamente la comunicazione verbale prende forma in origine come voce, modulazione del respiro, l’avvento della scrittura ha determinato nel tempo il prevalere della funzione visiva: è per gli occhi che la parola, come la donna amata da Guido Cavalcanti, attraversa il core[1]. E del resto, fin dall’antichità più remota, la scrittura si sviluppa commista a elementi visivi non alfabetici (si pensi alla scrittura dell’antico Egitto, solo per fare l’esempio più eclatante, dove i geroglifici – già di per sé fortemente pittorici – sono spesso accostati a immagini stilizzate, ma realistiche). Nello scorrere dei secoli una tappa fondamentale è stata l’acquisizione della cosiddetta “lettura silenziosa” (cioè una lettura che dal campo visivo si proietta, bypassando la voce, direttamente nel cervello). L’avvento della “lettura silenziosa” coinciderebbe grosso modo con la diffusione e l’uso domestico del libro stampato, che avrebbe portato (intorno al ‘400-‘500) alla lettura intesa come azione individuale. Sembra che prima non fosse così: nel medioevo si leggeva quasi sempre ad alta voce, in pubblico (e spesso in coro, nelle chiese, nelle scuole, nelle piazze). Leggere coincideva in sostanza con il recitare. La “lettura silenziosa” diventa invece fatto individuale, privato, e consente un diverso livello di penetrazione del testo. Fra lettore e scrittura (attraverso gli occhi) si stabilisce una sorta di corpo a corpo, una tensione quasi fisica, comunque di natura molto più intima. I tempi e i modi della lettura si adattano all’individuo e il “lettore muto” può più facilmente interagire, intervenire sul testo, farlo proprio, scandagliarlo in profondità. La poesia, in particolare, come ci insegna Ungaretti, ha bisogno di silenzio intorno a sé. Il suono delle sillabe, che pure nella scansione dei versi è fondamentale, attraverso la “lettura silenziosa” si trasforma in risonanza interiore, provoca un’eco impercettibile dalle orecchie che si espande nella mente come una musica dello spirito. In articolazione sinestetica, può accadere insomma che il rintocco della poesia sia generato dagli occhi, dalla capacita di riassetto, di ricomposizione semantica del campo visivo. Senza nulla togliere alla forza dell’oralità, noto che già di per sé l’azione del “leggere” pone la visualità come elemento centrale. Appare perciò naturale che l’intera storia della scrittura poetica sia attraversata dalle più diverse commistioni fra immagini e parole. Dalle “parole dipinte”[2] del Medioevo e del Barocco, ai calligrammi di Apollinaire, alle “parole in libertà” dei futuristi, ai fumetti, ai manifesti pubblicitari o di altro genere che, dopo la rivoluzione industriale, colorano le strade delle metropoli, fino alla babele multi-mediatica dei nostri giorni, è tutto un pullulare ininterrotto di mescolanze e ibridazioni.

Più in generale, del resto, ai nostri giorni la parola appare spesso come “parola sporca” in quanto contaminata da altre forme di comunicazione. Come a volte si “imbratta” di musica attraverso il canto (generando per esempio il fenomeno della canzone d’autore), può dunque succedere che altre volte la parola si “sporchi” di colori e di forme. E il linguaggio poetico, anche nella sua natura tradizionale, non è estraneo a tale contesto. Basta pensare alla disposizione dei versi, brevi o lunghi, sulla pagina. Un sonetto, ad esempio, lo si riconosce già a una prima occhiata, anche senza averlo letto. La scarnificazione del verso, le frammentazioni dei versicoli, le valorizzazioni degli spazi bianchi nelle poesie di Ungaretti si percepiscono e si apprezzano prima di tutto visivamente.

L’esperienza della “verbo-visualità” (o “poesia visiva” o “scrittura visuale”), nata nel contesto delle neo-avanguardie degli anni sessanta-settanta[3], costituisce dunque solo una tappa, per quanto importante, di questo lungo viaggio della parola che attraversa (contaminandosene) i più disparati universi comunicativi. Tuttavia, affermatesi in un preciso momento storico, la teorizzazione e la pratica della “scrittura visuale” hanno contribuito a far emergere valenze originali per quanto non facili da definire. Erano anni in cui molti facevano riferimento alla filosofia strutturalista. Le sperimentazioni verbo-visuali, assorbendo e rielaborando questo clima culturale, hanno dato ad esempio un importante contributo alla riflessione sul rapporto fra “significante” e “significato”, anche se i diversi autori hanno poi sviluppato queste problematiche diversificando molto le loro ricerche.

Per quanto riguarda il mio personale percorso all’interno della verbo-visualità, posso affermare che ho operato in una direzione che tende verso l’autonomia del significante, evidenziando cioè il primato del significante sul significato. A differenza dei testi in prosa o in poesia che ho pubblicato negli anni in diversi contesti[4], nelle mie opere verbo-visuali ho lavorato con l’intento di dar “corpo fisico” alla parola, esplorandone la natura materica, gestuale, oggettuale, facendo cioè emergere la forza del significante a volte anche a scapito del significato, nella convinzione che la parola, nelle sue mille potenziali aperture semantiche, sia ante-rem, venga cioè prima della cosa a cui si riferisce. Le mie sperimentazioni tendono allo sbilanciamento, ricercano un diverso equilibrio fra la parola e l’immagine e intendono rappresentare la parola come oggetto fra gli oggetti, cosa fra le cose.

Le opere che ho prodotto fin dagli anni Novanta, che ho chiamato “poesie oggettuali”, si riallacciano a un’idea di scrittura che somiglia al solco tracciato nei campi dai contadini nell’azione materiale dell’aratura, come è detto nel celebre “indovinello veronese” del XII secolo[5] (e per questo alcune mostre che ho allestito in quegli anni si intitolavano “Alba pratalia”).

Per tale insieme di ragioni ho sempre cercato di mantenermi lontano da quel genere di poesia visiva che tende al semplice gioco di parole imitando l’enigmistica o, peggio, ricalcando i modelli del cartellone pubblicitario magari per lanciare messaggi (non sempre originali e artisticamente significativi) di critica o satira sociale. Mi attraggono di più altri territori: la scrittura caotica che sfiora l’espressionismo astratto, il nonsense o il gioco pre-dadaista della Patafisica, la scrittura frammentaria (e frammentata) che dilata la valenza dei vuoti e delle mancanze, gli accostamenti spiazzanti, il lavoro di cesello che valorizza il particolare rispetto all’insieme. Mi piace insomma generare incongrue rêveries e far sì che gli oggetti, le “cose” che a volte prelevo direttamente dalla quotidianità e assemblo nelle mie “poesie oggettuali”, generino significati inattesi. E non temo le derive asemantiche.

Ma questo insistere sulla scrittura come azione fisica, anche se sposta l’attenzione dal significato al significante, non ha mai voluto essere, nel mio caso, una pura esaltazione della forma o della crosta esterna della parola. Al contrario, ho voluto avviare una riflessione sulla “forza”, ma anche sulla “debolezza” della parola, senza mai perderne di vista la centralità. Attraverso la parola, gli esseri umani riescono a manifestare la complessità del loro pensiero, ma nello stesso tempo scoprono i limiti della loro natura, in quanto le parole non sono in grado di dare forma verbale a certi territori dell’esistenza, ai lati oscuri, alle pulsioni inconsce, agli azzardi concettuali verso i quali pure l’istinto umano ci conduce. In questo senso la parola è l’elemento rivelatore della condizione umana in tutta la sua drammaticità perché attraverso i limiti della parola prendiamo coscienza dei limiti della nostra natura. Se persino nelle forme più alte di poesia ci si scontra prima o poi con qualcosa che “significar per verba / non si poria”[6], se esiste una barriera semantica oltre la quale la natura umana non è in grado di spingersi, se la lingua può essere falsificata e resa “inoffensiva” dal suo uso serializzato, se il linguaggio massificato o mediatizzato asseconda il linguaggio del potere, allora bisogna giungere alla conclusione che la comunicazione e di conseguenza la scrittura sono armi a doppio taglio, elementi problematici. Il gesto dello scrivere, che avvenga sfiorando con le dita una tastiera digitale o intingendo una penna d’oca nel calamaio, è comunque un rischio, un’azione perigliosa, una sfida.


note: 
[1] Guido Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste il core
[2] Giovanni Pozzi, La parola dipinta (Adelphi, 1981)
[3] Gruppo 63. La nuova letteratura, a cura di N. Balestrini e A. Giuliani, Milano, Feltrinelli, 1964.
[4] Cito, come esempio, tre miei libri che, per quanto contenenti scrittura in parte “sperimentale”, si possono comunque considerare testi narrativi: Un bellunese di Patagonia (Stampa Alternativa, 2004), Cento madri (Foschi, 2009) e Luminosa signora, lettera veneziana d’amore e d’eresia (Pagliai, 2011).
[5] Questo è il testo (con traduzione e interpretazione) dell’indovinello veronese del sec. IX, nel quale la descrizione dell’aratura ha come significato nascosto l’azione dello scrivere: Se pareba boves / alba pratalia araba / albo versorio teneba  / negro semen seminaba. Spingeva avanti i buoi (muoveva le dita) /arava prati bianchi (scriveva sulla pagina bianca) / teneva un bianco aratro (la penna d’oca) / seminava un seme nero (l’inchiostro).
[6] Paradiso, Canto I, vv.70, 71.

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