Su ABITARE LA PAROLA, antologia a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello – di Monia Gaita

di Monia Gaita

Che cosa rimane della poesia? Esiste ancora e in quali forme? In che modo i giovani scelgono di colloquiare con le sue profondità facendo cigolare gli alberi ai tanti interrogativi cui ardisce rispondere?
Credo che in questa spinta esplorativa risieda il fronte motivazionale dell’antologia “ABITARE LA PAROLA”- Giuliano Ladolfi editore – redatta con esegetico rigore da Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello.
Nella premessa introduttiva Eleonora Rimolo puntualizza: “Questa ricognizione tenta di muovere verso una direzione collettiva di ascolto reciproco e di collaborazione attiva che racconta l’esigenza generazionale di eufonia, e anche di indignazione, nel tentativo di ancorarsi nuovamente a una realtà attorno a noi sfibrata, confusa, troppo spesso raccontata con strumenti metalinguistici e con tecnicismi che sostituiscono la poesia, sfumandola fino a demolirla del tutto”.
Per Giovanni Ibello: “Il poeta, ci ricorda René Char, si misura dal numero di pagine insignificanti che non scrive. Ecco il manifesto programmatico che i curatori vorrebbero ascrivere alla generazione entrante. Sapere che, come sosteneva per altro Leonardo Sinisgalli, in poesia le proporzioni del salvabile sono minime. Il poeta autentico deve essere il demiurgo che definisce il confronto tra la parola e l’oggetto nella sua forma più essenziale”.
A schiacciare il clic dei versi sono 38 autori nati negli anni Novanta per i quali la riflessione dimena la coda sulla realtà con il suo ordine adunco di fratture e ustoria incoesione. L’opera s’impregna di una doppia urgenza: da un lato provare a stilare un bilancio della poesia giovane, dall’altro analizzare il nesso tra espressione e attualità constatando come il presente relativistico e precario marchi con indelebile impronte, il contenuto dei testi. Ne sgorgano composizioni di decoro e compattezza che recano sul corpo un fascio di stupore, di grazia mista a solitudine, di venature ragionative educate all’impervio, all’incerto, agli addendi dell’incontro e del monologo interiore. Il linguaggio comunicativo, dalla prevalente tarsìa asindetica, dialoga con gli elementi accendendo la spia a una sofferta slegatura tra attese e quotidianità. La penuria di congiunzioni non è solo una peculiare parata sintattica, ma effigia il vuoto in cui siamo immersi in un io trafitto da troppe incongruenze, in perenne e infelice conflitto con sé stesso. Il ritmo prende le cadenze della materia disinsognata e disillusa: non è questo il tempo delle fiabe a lieto fine. È il tempo di guardarsi attorno, è il tempo delle ideologie estinte, di recepire con una sufficiente dose di disincanto, le perdite, le crepe, le scissioni. I poeti inclusi nella raccolta non compilano alcuna tavola di leggi o soluzioni. La poesia è una scienza che detiene tutti i multipli e i sottomultipli per penetrare i principi delle cose non riuscendo, tuttavia, a governarli. La parola, dalla natura mobilissima e pulsante dell’esperienza individuale, si radica lungo i sentieri collimanti del vivere comune volgendo il timone su una rotta che punta a coniugare ombre e luci. Un’investitura di origine remota che non sbaraglia i nostri limiti né falcia l’inestirpabile travaglio delle vicende fenomeniche, ma ricostruisce un trattato possibile per convertire in equilibrio e accettazione il baricentro delle contese e dei possessi transitori. Il dire non annaspa tra le reliquie, ma vuole favorire l’ascesa di un nuovo esecutivo che apra il fuoco sulla superfluità, sul collusivo reticolo del disimpegno. La parola poetica, nella sua arditezza speculativa, anela a trovare un versante di inalterabilità, un accordo con l’esistenza che non ci tagli fuori dalla storia e dagli avvenimenti. “L’iniziativa – dice Giuliano Ladolfi – mira soprattutto a una funzione di aggregazione, di attenzione e di incoraggiamento, certamente non di consacrazione. Siamo consapevoli che alcuni di questi poeti troveranno la giusta direzione e soprattutto la propria “voce”nel panorama nazionale e internazionale e la raggiungeranno se incominceranno o continueranno a studiare, a leggere, a scrivere, a lasciare i testi nel cassetto per mesi, se non per anni, a non accontentarsi dei risultati, a cestinare, a scavare in profondità nel loro animo per ritrarre nella produzione i grandi problemi in cui la società contemporanea si sta dibattendo”. E anche questa ponderazione, miniata su una diafana leva d’onestà, aspira a restaurare la speranza nella poesia come la grande interlocutrice che ci affaccia alla verità del mondo. L’antologia, frutto di un dignitosissimo scrutìnio, radiografa i sussulti e inventaria gli arpeggi di una generazione che all’erosione irredimibile del divenire oppone la responsabilità consapevole di raccontare e catturare l’istante. La poesia reagisce a chi vorrebbe confinarla nell’areale delle specie relitte. Perché la poesia non è morta, perché l’umanità deve uscire dalla vedovanza di senso in cui è caduta. Perché ognuno, tra cicatrici e fenditure, si lasci emancipare dal fulgore della parola e vaporizzi sugli arenili deserti della bellezza minacciata, uno spiraglio almeno, d’assoluto.

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