Quarta stella di Gisella Genna

Recensione di Felicia Buonomo

 

C’è nella poesia una naturale predisposizione all’autonomia testuale, per cui ogni componimento vive di luce propria, a dispetto degli altri. Eppure, per ogni silloge esiste un lavoro sotteso, una catena, una sequenza che sottende un momento di sedimentazione e, successivamente, elaborazione dei versi. Valutare una raccolta significa entrare in quel meccanismo nascosto, operato da autore (ed editore). A leggere Gisella Genna, che firma il suo esordio poetico con “Quarta stella”, edito da Interno Poesia, si percepisce fin da subito quello che presto “accadrà” nel corso del susseguirsi dei versi. La poetessa dà al lettore già dai primi versi un assaggio di quello che sarà lo scorrere negli anfratti dell’umano sentire, «Sono nata un venerdì, giorno pari dell’inverno / gli anni sgranati una vertebra alla volta». È impresa da pochi, questa. E in pochi vista per chi scrive. E questo lo si riconosce come un pregio, una sorpresa, un dono fatto al lettore. Ma nonostante questa caratteristica sua propria, la si vede chiaramente l’argilla della lavorazione, il luminoso maneggiare sul testo. La sua offerta al lettore è solo un addizionale, rispetto a una scrittura che sottrae solo il superfluo, mai il midollo poetico della Genna.

I gesti poetici della Genna sono sostanza, sulle pareti di stanze che lasciano sempre la porta aperta all’aria che arriverà dall’altrove. Sono movimenti delicati quelli che caratterizzano il percorso in cui ci guida la poetessa. Ma lo sguardo è abissale, si pensi a versi come, «Io non so niente e ancora cerco / tra le volte e il fogliame / un segno, un filo / un’anticipazione», di quella che nella prefazione Giovanna Rosadini definisce, a buon ragione, forse la sua poesia più bella. Testo inserito peraltro anche in quarta di copertina, e che da subito ci dà il senso di un dire deciso, lo strapiombo della poetica della Genna, che mai rinuncia alla grazia, nonostante l’incipit disarmante (così come sempre dovrebbe essere la poesia): «Dite ai miei morti di apparirmi / poiché mi sento sola come loro».

Gisella Genna è la «voce delle ore sicure / di una rima che sapeva tornare», come lei canta, rivolgendosi a un tu che noi identifichiamo nella sua marcia terminologica, e semantica. Ed è così lungo tutta la raccolta, che imprime sulla carta orme mai perdute, «resta nella cucina un tavolo / e tutto intorno polvere», acutizzando lo sguardo di un’interiorità che c’è, si sente, ma non urla, con chiusure – il che non guasta – anche d’effetto, ma mai sensazionalistiche, «il tempo non è stato vero».

La voce è essenziale, così come dovrebbe essere quando si vuole dire con tono che accompagna e accarezza. E sperimenta, riuscendo nell’impresa; come testimonia l’ultima sezione dove la scrittura cambia abito, per assumere la forma della prosa breve, piccole incisioni su corpi consapevoli. E mentre leggiamo anche noi pensiamo che il «gelo non può certo impedire ai cuori di esplodere».

Felicia Buonomo

Gisella Genna

 

Ho portato il nulla al nostro altare

spinto la notte

difeso il dolore

acceso il presente

aperto lo spazio

di una flessa verità.

Gisella Genna

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