CONSONANZE E DISSONANZE / Del proprio e dell’altrui: “Bubuluz” (Edizioni del Verri, 2017) di Rodolfo Zucco

Giocando sul titolo della prima parte di Bubuluz – “Distrazioni, restituzioni” – un buon rimedio alla mia personale distrazione rispetto al libro di Rodolfo Zucco, uscito ormai due anni fa per le Edizioni del Verri, è certamente quello di parlarne adesso. In seconda battuta, però, le distrazioni e i rimedi – ancorché nelle forme sempre ambigue e provvisorie delle “restituzioni” – si impongono anche per il loro continuo intrecciarsi nell’intramato più generale del libro.

Di questo processo, si vorrebbe poter dare un’esauriente interpretazione psicanalitica, oppure ricondurlo – attraverso certe armi, invero spesso spuntate, della filologia – a una storia etimologica che si faccia, d’emblée (o “d’emblème”?), storia culturale. Tuttavia, se distrazioni e restituzioni hanno un qualche agio, nel libro, è per la loro funzione in ultima istanza narrativa, come collazione delle diverse sotto-sezioni e dei diversi testi che formano Bubuluz.

Fungono, per meglio dire, da contraltare sia strutturale sia tematico nei confronti di quel gusto per la combinazione e per il pastiche che regola la costruzione dei singoli testi, cosi com’è dichiarato in quarta di copertina dall’autore attraverso il frammento di una lettera del 2015, indirizzata a Francesco Rognoni, nella quale si citano, a vario titolo, la tradizione anglosassone dei found poems, Andrea Zanzotto, Toti Scialoja, Elio Pagliarani, Genette, Socrate, etc.

Dunque, “l’intento primo dell’autore”, come ha già osservato Gabriella Musetti, sembra essere “quello di mantenere un equilibrio interno, una proporzione nel dicibile, lavorando di scelta ponderata, di presa di misura negli accostamenti. Questo procedimento non diminuisce la creatività, ma libera la disposizione autonoma alla ricerca, senza eccessi o sovraccarichi derivanti da un surplus empatico”.

Mi sembra particolarmente adeguato parlare, per Bubuluz, della mancanza di un “surplus empatico”, ossia dell’assenza di quella empatia per sovrapprezzo che può sempre derivare verso il kitsch. Al tempo stesso, questo non vuol dire che manchi completamente ogni traccia di empatia e che il testo si ritiri immediatamente verso i territori di quella “scrittura fredda” (posto che la distinzione tra “scritture calde” e “fredde”, ormai più impressionistica che altro, regga ancora) dove prevale, infine, l’approccio “cerebrale” su quello “emozionale” (per usare altre due semplificazioni, con ogni probabilità pre-critiche).

Si prenda, a titolo di esempio, Museo, il cui incipit è: “Contenitore / per maschera antigas” e la chiusa: “Tagliola, usata / contro i soldati” (p. 70). Benché il testo sia strutturato per accumulazione nominale (fanno eccezione soltanto il terzo e quarto verso), nel passaggio dall’incipit alla chiusa si avverte una variazione nella carica patetica, se si considera che la menzione della “tagliola”, in un libro dove tanta parte ha il mondo animale (anzi, il teatro naturale, per citare un Giampiero Neri effettivamente presente, nei ritagli), non può che convogliare un doppio significato dal notevole effetto.

Non sono soltanto le sottigliezze – effetti di una sovrainterpretazione che, d’altra parte, rimane sempre possibile – a dichiarare la possibilità di un riconoscimento empatico e, per questo tramite, di una lettura più articolata e stratificata. L’analisi di almeno altri due elementi del testo converge in questa direzione: la struttura dialogica dei ritagli e delle combinazioni delle “Distrazioni, restituzioni” si va perdendo (salvo qualche improvviso ritorno di fiamma) nella seconda parte del libro, “Distrazioni prime e ultime”, con tutto quello che comporta la progressiva perdita di una “voce” che spezzi l’andare monologico; la lingua, poi, è un coacervo di registri diversi, dall’aulico al dialettale, per arrivare fino a distorsioni espressionistiche, secondo il magistero di un altro punto di riferimento esplicitato nella nota finale dell’autore, ossia Jolanda Insana.

Quel che più importa, in ogni caso, è che in Bubuluz si trova una formula che tiene tutto insieme, senza che vi sia alcun accenno a una costruzione allegorica. Lo si evince con particolare chiarezza dalla lettura testo finale, che reca lo stesso titolo dell’intero libro (p. 89) e dove infine appare Bubuluz, insieme a tre topi di campagna, un topo muschiato e una rana. Il teatro naturale, in altre parole, convive con quello della lingua, ed è così che Zucco costruisce una poesia – più che una lingua o uno stile – che è propria. E lo è tanto più, quanto più è altrui.

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