Il morbo della colpa in “Caino. Homo Necans” – di Auretta Sterrantino per Atto Unico

di Marta Cutugno

 

“Non c’è nessun altro come te, Abele ed io sono quel che mi è dato di essere”

Messina. Un drammatico rimbalzo, quello della colpa. Uno studio approfondito sulle figure di Caino e Abele a partire da “Kain” di Friedrich Koffka, da “Caino” di José Saramago e da “Caino” di Mariangela Gualtieri. Domenica 10 febbraio, alla Chiesa di S. Maria Alemanna per la sesta edizione di Atto Unico, è andato in scena “Caino. Homo Necans”, primo capitolo della Trilogia dei Traditori o Portatori di colpa. Scritto e diretto da Auretta Sterrantino, lo spettacolo rivede le scene dopo il debutto del 2016 per la rassegna del ridotto del Teatro Vittorio Emanuele, curata da Ninni Bruschetta. Vestono i panni dei due biblici fratelli Michele Carvello, nel ruolo di Abele e Giacomo Lisoni, in quello di Caino. Immersi intensamente nella loro storia, Carvello e Lisoni si lasciano andare fluidamente al testo drammaturgico mettendo a frutto doti e preparazione importanti, entrambi attori diplomati all’Accademia di Arte Drammatica (ADDA) dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. 

“Prima la terra, poi la carne. Prima i frutti, poi il sangue”. Da un lato la luce che “è per tutti, ti basta accettarla, lasciare che ti accarezzi e che prenda spazi dentro di te”; dall’altro il buio che “accorda un tempo ai tristi pensieri”. Le musiche originali di Vincenzo Quadarella accompagnano lo scorrere del tempo scenico, scandendolo a tratti come farebbe un pendolo in intervallo di settima e bilanciando abbastanza bene l’interazione tra silenzi ed interventi. Alle musiche si aggiungono distorte voci fuori campo, echi di tormento e di smarrimento. Molto belle le scene di Giulia Drogo nel riallestimento di Valeria Mendolia. Lo spazio è limitato e gli elementi si offrono ad uno sguardo che naviga circolarmente. Sono pochi, concentrati ma esaustivi e vanno a richiamare un tutto omogeneo in grado di miscelare pratico e simbolico. Due postazioni cubiche con trasparenze e sfumature a due estremi opposti, un piccolo altare in rosso sangue, anfore piene d’acqua e piccole vasche per compiere il rituale della purificazione. Aleggiano il sacrificio, l’offerta delle primizie, l’attesa del divino e ci si affida ad oggetti narranti: le spighe di grano per il pane, macchie di sangue sulle sagome degli agnelli sacrificali, ferri appesi a catene fluttuanti. Caino non deve, non vuole, non può ascoltare il proprio corpo. Abele lascia che la corda colpisca l’aria ma è il fratello ad avvertirne i segni sulla sua carne.

La regia di Auretta Sterrantino – assistente alla regia Elena Zeta – predilige un’espressività globale che investa l’interprete nella sua complessità, nella parola e nella gestualità del corpo, mantenendo un suo stile consolidato e più che riconoscibile. Prima della messa in scena, il pubblico è accolto da un preludio in musica e movimento. Per Caino Necans questa parentesi assume i contorni di un dialogo in cui occhi e movenze disegnano due anime in conflitto. Una danza della contrapposizione, eco ritmico che, nello scrutarsi e nel fuggirsi, riconduce al protendere verso il cielo di Abele e all’attaccamento alla terra di Caino. Eccessivi i tempi del preludio, preparazione che certamente ha introdotto la giusta atmosfera ma, probabilmente, ha occupato troppi minuti prima di incontrare la parola. Questa, una volta giunta, prosegue naturalmente il suo corso fino all’ultimo sacrificio. Caino adesso può compiere il medesimo rituale mentre Abele respira il terrore e diventa egli stesso sacra libagione. Quel maneggiare la pietra chiama la supplica all’essere ciò che si vuol essere, “io schiavo, io suddito, finalmente in uno col Verbo”.  Un clima di provocazione e morbosità cammina tra le righe del testo che è linea, lama e figlio di chiara evoluzione, di un percorso elaborato che ha trovato giusta e corposa sintesi. Applausi prolungati e riscontro positivo da parte del pubblico presente, coinvolto subito dopo in un’interessante tavola rotonda sul tema, con gli interventi di Vincenza Di Vita, docente di drammaturgia, critico teatrale, direttore dell’Osservatorio Critico di QA-QuasiAnonimaProduzioni; Carmelo Carvello, docente di Teologia e studioso di Filosofia, arciprete coordinatore dell’equipe diocesana nissena per il Ministero della Guarigione e dell’Esorcismo; Berardino Palumbo, professore di Antropologia presso l’Ateneo di Messina, autore di numerose pubblicazioni di rilevanza internazionale in ambito culturale, con specifici interessi per rituali, religioni, istituzioni e politica.

Kain di Friedrich Koffka, Caino di José Saramago, e Caino di Mariangela Gualtieri. “A queste letture – dichiara Auretta Sterrantino – se ne devono aggiungere altre più generiche relative alla Bibbia, alle pratiche religiose, ai riti di purificazione, letture sulla colpa e il peccato, letture fondamentali come Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale di Giuseppe Fornari, Elogio dell’ombra di Jorge Luis Borges e chiaramente la Commedia di Dante e Homo Necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia Antica di Walter Burkert. Ho iniziato ad accarezzare l’idea di questo testo leggendo Saramago e mi sono decisa a metterlo in scena leggendo Koffka e le critiche mosse al suo testo e alla sua messinscena. Dante mi ha convinto di essere nel giusto e che il tema meritasse uno studio più lungo, nel tempo e nei soggetti. Da qui l’idea che Caino faccia parte di una trilogia dedicata ai portatori di colpa o al tradimento insieme a Giuda e Gesù”.

“Fermati Caino, solo questo ti chiedo”

Foto di Federica De Francesco 

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