di Giorgio Galli
Lucetta Frisa, Ritorno alla spiaggia, La Vita Felice, 2009
In Ritorno alla spiaggia (La vita felice, 2009) Lucetta Frisa riesce a comporre un poema sinfonico con materiali umili, elementari. Eppure non sono elementari l’origine, la scoperta rivissuta che il bambino fa del mondo. Non è elementare una poesia riparatrice di offese vive, che risprofonda nella domanda primordiale e sempre inevasa circa l’origine la fine. Lucetta fa tutto questo in un poema la cui “occasione” è data dalla morte della madre, e lo fa con tale esplicita emozione che si può rimanere imbarazzati. Se non fosse stato messo in versi, questo percorso di elaborazione del lutto meriterebbe da parte nostra un solidale e pudico silenzio. Ma Lucetta lo ha messo in versi, e così ci ha trascinati fuori da ogni rispettosa distanza, ci ha costretti all’empatia. La sua parola non ci ha dato alternative.
La struttura del poema è complessa. E’ diviso in sezioni, e dentro le sezioni ci sono i poemetti, e dentro i poemetti i frammenti, talvolta giustapposti e talaltra cuciti insieme. Le pause, le transizioni e i ponti sono elementi strutturali del poema, anche laddove sembrano destrutturarlo.
Il primo e l’ultimo componimento hanno la tempra granitica di un’altra silloge della stessa autrice, i Sonetti dolenti e balordi (CFR, 2013). Tutto ciò che accade in mezzo è un poema scritto a volte da Parmenide a volte da Eraclito, sempre in bilico tra essere e divenire, dove a fatica lo scavo nel dolore intimo conquista una dimensione di “canto generale”: è un susseguirsi di lampi, apparizioni, varchi metafisici e tritume quotidiano portati sulla pagina direttamente, da un immaginario collettivo anche consumistico -la spiaggia, la vacanza- e senza una voce unica, come se Lucetta si fosse franta in tante Lucette che si rispecchiano a loro volta nella madre, nell’assenza, nel senso dell’origine che non si fa mai definire, ma esercita su tutto il poema la sua attrazione gravitazionale. Un cammino accidentato, formalmente segnato dal contrasto tra il poema e il frammento, dove la perfezione del frammento subisce la forza centripeta del poema e il frammento rompe il poema con la sua tendenza ad isolarsi. La conciliazione fra queste due spinte avviene solo nel poemetto eponimo, composto da frammenti, estatici o desolati, giustapposti, in una successione vertiginosa di stati contemplativi. In questa scossa d’assestamento che segue al sisma della scomparsa della madre, ci si muove a volte in un minimalismo dai toni carveriani, oppure in un “quotidiano strano” da cui scaturiscono mitologemi saviniani. Si assiste all’irruzione di domande e affermazioni lancinanti. Si viene trascinati da un fluire che va in una direzione indefinita -c’è tensione verso l’origine, verso il punto in cui l’io poetico si ritrova e deraglia, si afferma annientandosi, diventando tutti. Il circo di reminiscenze e miti che Lucetta mette in moto, la infantile brutalità della messinscena e il risolutivo tutti finale ricordano Otto e mezzo di Fellini, ma senza il cinismo felliniano della facilità di visione presa in se stessa. Non c’è né facilità né cinismo in Lucetta. L’architettura risente di un lavoro di com-posizione fatto di tensioni e distensioni, di sistole e diastole non sempre facili da calcolare. Dove il lavoro di com-posizione si fa più difficile, affiora il desiderio di dare dignità allo strappo, di rendere poetiche cuciture e scuciture, di farne il vero oggetto di una poesia che creaturalmente -non pietosamente- le recupera: un tentativo di “poetizzare il com-porre, senza ricomporlo”, che rimanda ad Antonella Anedda anche per la rappresentazione di paesaggi interiori/esteriori di imperiosa solitudine.
Tutto approda a una sorta di omnium poundiano nel penultimo poemetto, prima di alzarsi nella drammatica innodia finale. E’ al penultimo poemetto che sembra affidato il senso di questa architettura musicale, lì si riaffermano, nell’apparente dispersione, i tratti distintivi di Lucetta. C’è quella che Marotta, nella prefazione ai Sonetti, ha definito la perturbante “inversione del moto ascensionale” della poesia :
Se questa passeggiata torna a capo
e nell’acqua marina vedo una sagoma che mi somiglia
sono dentro una sfera il mondo
è una rotonda lacrima uno specchio
concavo dappertutto e non c’è scampo
C’è l’improvvisa affermazione del “canto generale del dolore”, che vince sull’intimismo:
Ora con chi sto camminando? Con mia madre
e tutti i morti amati e i vivi
così lontani
con i ricordi di chi cammina
di chi ha già camminato
possedendo il respiro perdendolo
ad ogni passo
Anch’io non sono un’isola
nei confini dei versi separata
da acqua e terraferma
ma lentamente l’orizzonte intorno
riduce la vita a poco o la spalanca.
Fino a che punto la solitudine è nostra
o condivisa in un giorno di luce?
C’è l’impossibile e ineludibile rimando a un’origine, a un fonte comune:
Eppure occhi e pensieri sanno unire
uomini e cose:
le emozioni alla spiaggia
le onde alle case dipinte.
Perderò tutto se li chiudo.
Ad occhi aperti se ne vanno le idee
intorno alle cose ma non le cose
forse si vedranno come sono
scontornate nella materia
si stanno già sfacendo senza di me.
Come varcare la riva
che separa il mare dal mare?
So che non siete altro da me
eppure tutto il mondo è senza di me
ditemi che per tornare c’è la strada
Versi che, oltre ad antichissimi problemi gnoseologici, chiamano in causa le scoperte neurologiche di Rudolph Linas. Ed è bene ricordarlo perché la provocazione di Lucetta, il suo mostrarsi e costringerci all’empatia, riesce grazie al rigore scientifico con cui è condotta, che rende condivisibile un mondo interiore perché perfettamente conosciuto, illuminato a giorno ed espresso, oltre che con l’immediatezza del dire, con l’architettura dell’insieme. Se nei Sonetti lo sforzo formale consiste nel saldo ancoraggio tra parola e cosa (emozione, immagine o idea), qui lo esso sta nell’ancorare un complesso movimento interiore a un complesso movimento strutturale, in una dispersività sapientemente governata.
In copertina: Lucetta Frisa (fonte: www.noidonne.org)