Bambino Gesù, di Daniele Mencarelli

di Alessandro Quattrone

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Daniele Mencarelli, Bambino Gesù, Edizioni Nottetempo, 2010

Benché si occupi principalmente dei limiti umani, del senso di devastazione e sbigottimento che si può avvertire quando il male fa le sue feroci apparizioni nei campi dell’innocenza, benché metta in luce la nostra quotidiana sete di bellezza, una bellezza negata o insidiata da una forza invisibile e indifferente, Bambino Gesù è un libro ricco di vita e, si vorrebbe dire, di anima. Un libro che accoglie ciò che in genere – forse non tanto per viltà, quanto per umana debolezza – si vorrebbe respingere, che offre spazio a personaggi e immagini che piuttosto si tenderebbe a evitare o a dimenticare. Un libro dalla sostanza e dalla pronuncia etica: perché è etico non permettere che il dolore (specialmente se si tratta di quello altrui) rimanga chiuso nel nulla. È etico rappresentarlo, resistendo alla tentazione del silenzio e ostinandosi a sperare contro ogni speranza. E non sembra improprio parlare persino di etica della voce, a proposito di questa poesia, dal momento che la pronuncia di Mencarelli non è mai gridata, mai enfatica, anzi mantiene sempre un tono pacato che sottintende brividi e commozione. Niente di moralistico, di retorico o di saccente trapela dai versi. Attraverso la poesia è piuttosto l’uomo a rivelarsi in tutta la sua inerme nudità, con la sola affermazione del suo essere e del suo esserci, del suo vedere e del suo sentire, insomma del suo ritrovarsi testimone – turbato, ferito, ma non riluttante.

(padiglione Pio XII)

Per tre giorni t’ho vista dormire
sulla panchina fuori il padiglione
accucciata piccola nel giaccone,
mai ho sentito dirti una parola.
La tua voce l’ho sentita questa sera
tremenda come il tuono che preannuncia,
ed è arrivata mostruosa la tempesta
un uragano di lacrime e delirio.
Da poco è tornata la calma
chi ti è vicino abbozza discorsi,
tu ora sembri di un altro mondo
dove le voci e le parole non arrivano.

Come è noto, il “Bambino Gesù” è un ospedale pediatrico di Roma. Perciò è naturale che la sezione eponima sia la parte più dura del libro, con il suo indugio sulle attese, l’incredulità e lo strazio che riguardano direttamente chi è costretto ad entrarci, ma finiscono col coinvolgere anche chi ci lavora (come il poeta, che nell’ospedale ha fatto l’operaio anni fa). L’argomento è così duro che le parole, avvertendo la propria insufficienza lenitiva ma comunque bisognose di mostrarsi almeno compassionevoli, all’inizio del percorso poetico aspirano a farsi preghiera: Se valgono questi versi una preghiera / dai giorni, anni, a questi uomini futuri, / ora bambini che forse non vedranno / la fine di questa sera di settembre.

I versi di questa sezione colpiscono il lettore come schiaffi; ma si tratta di schiaffi in un certo senso ingentiliti dal potere attenuante del dettato poetico di Mencarelli, che, pur nel suo realismo a volte crudo, riesce a mantenersi sempre delicato, reverente quasi, nei confronti della malattia e dello sgomento. È una sezione dedicata al bambino che soffre, certo, ma anche agli adulti che gli stanno a fianco, che gli stanno attorno, che c’erano prima di lui e qualche volta – disperatamente, tragicamente –  dopo di lui ci saranno ancora.

(padiglione Pio XII)

T’ho salutato per sei mesi
pensandoti impiegata o segretaria
di chissà quale ufficio dentro il paese,
poi l’anziano collega mi spiegò bene
la tua vera professione dentro l’ospedale,
vivere da cinque anni dietro a un figlio,
un lavoro che nessuno potrà toglierti
per quanto sarà lunga la tua vita.
Ma tu della fatica ne fai un sorriso
del sacrificio una saggezza pratica.
Oggi sulla panchina ti godi il tempo
limpido e fresco com’è d’autunno a Roma.

La sezione successiva invece, In marcia, presenta  spesso un mondo en plein air, quello fuori dal “paese” a sé stante che è l’ospedale, quello della città in movimento, della gente, del traffico, delle code, dei semafori, del pericolo improvviso: del flusso della vita, insomma, continuo o intermittente. È appunto la vita che scorre con i suoi incidenti – o forse malgrado i suoi incidenti – a essere osservata nei suoi rettilinei e nelle sue curve, nei suoi aneliti e nel suo soffocamento, nei suoi pochi sorrisi e nelle sue tante smorfie. Ma in Mencarelli anche i versi che contengono minute osservazioni hanno qualcosa – una verità – da suggerire.

È un punto risaputo.
Non c’è mattina del creato
che non ci trovi qui
paralizzati, a noi stessi estranei.
Sarà per consuetudine, l’umana pazienza,
ma non vedi mai nessuno tra i presenti
abbandonare l’auto e scappare via
coi propri piedi
per la campagna sovrana circostante,
non più disposto a perdere il suo prestabilito tempo
ogni giorno allo stesso punto, senza senso.
O forse ci nascondiamo che il tempo
nasconde altro tempo,
la vita altra vita.

L’ultima sezione, Guardia alta, è lo spazio degli affetti familiari, dei ricordi d’infanzia, delle cose insignificanti per i più ma decisive per il poeta, che sembra sentirsi fiorire solo quando entra in relazione. I luoghi frequentati abitualmente o casualmente, oppure quelli ritrovati dopo tanto tempo, nascondono tesori di grazia impensata, visibili a chi ha gli occhi puri, ancorché velati di malinconia o nostalgia. È la sezione in cui la felicità sembra poter esistere nel mondo in forma minima e semplice, e il poeta-testimone, tenendo la “guardia alta” (la stessa che lo costringe a sopportare pesi) si presta a esserne contagiato.

Paese di bar e barbieri
ti svegli prima che nasca il sole,
c’è chi legge il giornale
con il Fernet in mano per colazione,
due vecchi discutono di verderame
di vigne che non si finisce mai d’accudire
c’è anche Toni il matto beato
svegliato dal rumore delle corriere
e già tutto preso a rincorrere piccioni,
si spengono intanto i lampioni
il chiarore fa più bella la chiesa,
in un angolo c’è uno che scrive,
la sua vita è fatta delle vostre
si lascia cullare dai discorsi
dai musi lisci di barbe appena fatte.

(Albano, 6:10)

Nel suo insieme Bambino Gesù sembra avere come nucleo spirituale la pietà (una pietà a volte stordita, a volte ridotta ad augurio, ma sempre attenta e coraggiosa), rivelandosi una sofferta testimonianza di come sia fondamentale voler guardare per poter vedere. La poesia di questo libro è fatta appunto di sguardi, a volte obbligati ma sempre e comunque coscienti, sguardi che se perdono tranquillità acquistano purezza. Ma è pure una poesia fatta di parole che non temono di assorbire e restituire la realtà, non temono di conoscerla né di riconoscerla.

Dietro la scrittura di ogni testo si avverte spesso un bisogno di reagire. Non scompostamente, e nemmeno con eccessiva sicurezza, ma con l’umile offerta dei propri limiti come strumenti di simpatia umana. Proprio per questo i limiti non diventano barriere, ma linee di confine che permettono il contatto – se non la congiunzione – tra il proprio essere e quello altrui. Ed è così che la reazione assume le fattezze di una risposta: una risposta non risolutiva, ma quanto meno consolatoria nei confronti dello smarrimento, della mancanza, della perdita.

Guarda su questa carrozza in movimento
le facce chiuse nel sonno,
le mani incrociate, le tempie sudate,
l’oro vivo di quel bambino napoletano,
il controllore che mi restituisce il mio dialetto,
mia famiglia, mia terra mi viene incontro.
Quanto è duro vegliare il mio vagone,
fare attenzione alla solitudine di un vecchio
l’impazienza del guaglione senza pace
il saluto del padre al figlio risvegliato,
quei ragazzi stremati dalla vacanza riminese.
Che paura quando una galleria ci prende
azzera gli occhi allontana le parole,
ma che gioia, che respiro di sollievo,
la luce, rivedervi tutti.

(Bologna/Roma, 25/8/2001)

Forse la poesia non può salvare, ma può almeno accompagnare l’uomo nella sue pene e nelle sue gioie, grandi o piccole che siano.


In copertina: Daniele Mencarelli (foto © Maurizio Caruso)


Daniele Mencarelli nasce a Roma, nel 1974. Vive ad Ariccia. Le sue raccolte principali sono: I giorni condivisi, poeti di clanDestino, 2001, Bambino Gesù, Tipografie Vaticane, 2001, Guardia alta, Niebo-La vita felice, 2005, Bambino Gesù, edizioni Nottetempo, 2010 (vincitore del premio Città di Atri, finalista ai premi Luzi, Brancati, Montano, Frascati, Ceppo), figlio, edizioni Nottetempo, 2013, e Storia d’amore, LietoColle, 2015. Nel 2013 è uscito La Croce è una via, Edizioni della Meridiana, poesie sulla passione di Cristo, il cui testo è stato rappresentato da Radio Vaticana per il Venerdì Santo del 2013.

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