Nella città dove vivo in immagine, Philippe Jaccottet

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Daniela Pericone riflette sui versi “ariosi” di Philippe Jaccottet (pubblicato il 14 giugno 2015).


di Daniela Pericone

copertina Jaccottet

Philippe Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorante (con un saggio di Jean Starobinski, a cura di Fabio Pusterla), Einaudi, 1992

La poesia di Jaccottet trae la sua forza […] da una costante esigenza di verità. […] per Jaccottet la verità […] si rivela nella qualità di una relazione con il mondo, nell’esattezza sempre rinnovata del rapporto con quel che ci sta di fronte e che ci sfugge. […] l’unica speranza del poeta è quella di ricevere, nelle parole la cui pronuncia sia in suo potere, un riflesso di ciò che non si lascia raggiungere né domare: luce, morte o pericolo.”

Con tali segni essenziali Jean Starobinski coglie i fondamenti, le tensioni portanti della poesia di Philippe Jaccottet, accompagnando l’edizione francese del volume antologico Poésie 1946-1967 (Gallimard, Paris 1971) con un saggio che sarà poi accolto nella versione italiana de Il Barbagianni. L’Ignorante  (Einaudi, 1992). Voce ariosa e cristallina nella struttura significante quella del poeta svizzero, ma stratificata e misteriosa riguardo alle implicazioni interrogative e alle allusioni finalistiche.

Nella parte del volume einaudiano che ospita L’Ignorante (L’ignorant, 1952-1956) è contenuta la poesia Dans les rues d’une ville où je n’habite qu’en image,  Di notte, nella città dove vivo in immagine nella traduzione di Fabio Pusterla, che ha curato l’intera edizione. Poesia che ben si presta a rappresentare, nei dettagli delle figure e degli stilemi utilizzati, un microcosmo compiuto e significativo del corpus poetico di Jaccottet.

L’ambientazione è già di per sé emblematica di una precisa concezione della poesia (per Jaccottet “l’incertezza è il motore, l’ombra è l’origine…”), l’atmosfera è notturna, silente, fumosa e popolata di fantasmi. C’è un continuo accostamento con effetto antinomico di espressioni e termini concreti, descrittivi di luoghi realistici se non reali, accanto ad altri appartenenti a una sfera di indeterminazione, di vaghezza, così sin dal verso di apertura: “Dans les rues d’une ville où je n’habite qu’en image”, dove la portata di senso dell’identificazione di uno spazio fisico, “nelle vie d’una città” (nella sua traduzione letterale) è subito attenuata, o addirittura smentita, dalla specificazione che segue, “dove non abito che in immagine”.

Da qui è un susseguirsi di modulazioni di analoga tipologia (“la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini”, traduce Pusterla), il cui intento è dimostrare che tutto ciò che è occultato alla vista o non pienamente visibile (ben simbolizzato da termini come nebbia/brouillard e altri dello stesso sentore disseminati per l’intera versificazione), dunque l’ombra e il suo mistero sono sempre in agguato, pronti a risalire dal fondo, e assalgono l’uomo quando di notte i fragori del mondo si placano, a spezzare l’illusione diurna della chiarezza. E della forza, presunta o crollata, se questa viene subito contrapposta all’estrema fragilità (fragilité extrême) delle cose e degli uomini, punto su cui insiste il verso d’intonazione sapienziale al centro del testo e snodo cruciale anche dal punto di vista dei significati: “sapendo / che i muri più alti non sono che leghe di polvere” (“sachant que les plus hauts murs sont alliances de poussière”).

Il tutto mentre i fantasmi (fantômes) che accompagnano le esalazioni del cuore  si mostrano anch’essi nella duplice natura di figure della luce (figures de la lumière) e figure terrificanti (figures terrifiantes), un richiamo, forse, al bello e tremendo dell’angelo rilkiano.

La quartina finale ricomprende tutte le antinomie, là dove il poeta si avvia a una sorta di pacificazione, di decostruzione delle paure e accettazione appena meno tremante della fragilità del tutto. Seppure non rassicuri abitare entro fortezze di sabbia (forteresses de sable, sintagma in perfetta corrispondenza fonosimbolica con l’aggettivazione insaisissable/inafferrabile del verso successivo, resa più poeticamente da Pusterla con “una cosa che sfugge, vaga”), tuttavia conforto e unico desiderio possibile al poeta rimane la parola, quella che in altre occasioni Jaccottet definisce “parola-passaggio, spazio aperto al soffio”, a ribadire la visione in cui “il mondo è soltanto la forma passeggera del soffio”.

*

Dans les rues d’une ville où je n’habite qu’en image,
le brouillard construit la nuit de provisoires passages
qu’empruntent des fantômes avec l’air d’aller ailleurs
porter la buée légère qui vient du secret du coeur.
Pourtant, si maladroit que soit toujours le solitaire,
je m’entête à épier les figures de la lumière.
Si c’était justement parce que la pierre ne tient pas bien,
parce qu’à la porte des bars le vent bondit comme un chien,
parce qu’il s’attaque aux feuilles, aux fenêtres mal fermées,
que j’allais vous croiser enfin, après la force ruinée,
fragilité extrême qui n’avez cessé de me fuir:
si j’allais vous rattraper dans votre manteau de cuir…
Sachant que les plus hauts murs sont alliances de poussière,
que le vacarme des cafés et leurs colonnes de verre
chancellent sitôt touchés par les cornes du matin,
sachant que si je monte aux belvédères suburbains,
la ville ne sera plus qu’un peu de braises fumantes,
je n’accueillerai plus ces figures terrifiantes
et je marcherai encore bien que ce soit déjà l’hiver
et que le fleuve ait emporté les derniers souvenirs d’hier…
J’habiterai moins tremblant ces forteresses de sable,
car je n’ai plus désir que d’une chose insaisissable,
cette parole dite dans un souffle à la bouche qui attend
et ce passage de brume sur l’astre des yeux brûlants…
*
Di notte, nella città dove vivo in immagine,
la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,
in cui vanno i fantasmi, come portando altrove
quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.
Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,
e osservo le figure della luce. E se poi fosse
appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento
di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa
foglie, finestre malchiuse, che finalmente
stavo per incrociarvi, distrutta la forza,
estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi
acciuffato il vostro mantello di cuoio… Ora sapendo
che i muri più alti non sono che leghe di polvere,
che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente
s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo
ai belvedere di periferia la città appare
povero mucchio di braci fumanti,
più non accoglierò queste figure terrificanti,
e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi
ricordi di ieri il fiume abbia travolto…
Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,
poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,
questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,
sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.

(traduzione di Fabio Pusterla)

Philippe Jaccottet nasce a Moudon, nella Svizzera francese, nel 1925. Dopo alcuni anni trascorsi a Parigi, si stabilisce a Grignan, nel Sud della Francia, dove vive dal 1953.  Poeta e saggista, ha tradotto, tra gli altri, Rilke, Góngora, Hölderlin, Musil, Leopardi, Ungaretti, Cassola. Ha pubblicato nel 1953 L’effraie et autres poesies, le successive opere poetiche (tra cui L’ignorant, 1958, Airs, poèmes, 1967, Leçons, 1969) vengono riunite nel volume Poésie 1946-1967 (1971). Seguono Chant d’en bas (1974), À la lumière d’hiver (1977), Pensées sous les nuages (1983), Et, néanmoins (2001) e Ce peu de bruits (2008). In prosa ha pubblicato le pagine di diario di La semaison (1963 e 1984), i racconti L’obscurité (1961) e le variazioni sulla pittura di Morandi in Le bol du pèlerin (2001). Tra i saggi di critica, quelli sulla poesia francese del Novecento raccolti in L’entretien des muses (1968).

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