Orfeo (II), Orfeo. Euridice. Ermes di Rainer Maria Rilke

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. La seconda puntata dell’Orfeo di Daniela Pericone dedicata a Rainer Maria Rilke (pubblicato il 12 aprile 2015).


di Daniela Pericone

“Era il 1904 quando Rainer Maria Rilke scrisse Orfeo. Euridice. Ermes, e qualcuno può domandarsi se la più grande opera di questo secolo non fu creata novant’anni fa. Il poeta tedesco aveva allora ventinove anni e conduceva una vita alquanto peripatetica che lo portò prima a Roma, dove la poesia fu iniziata, e pochi mesi dopo in Svezia, dove fu terminata. […] Non c’è dubbio:   Orfeo. Euridice. Ermes è una fuga dalla biografia così com’è una fuga dalla geografia. Della Svezia vi appare tutt’al più la diffusa luce grigiastra che avvolge tutta la scena. Dell’Italia vi è anche meno, se si astrae dall’affermazione spesso ripetuta che fu un bassorilievo del Museo Nazionale di Napoli, raffigurante i tre personaggi, a mettere in moto la penna di Rilke. […]

L’estraniamento […] è il forte di ogni individuo, e questa poesia si occupa, in parte, anche dell’estraniamento. Proprio a questa parte, specificatamente, la nostra poesia deve la sua durevole suggestione. […] Tutto sommato, ciò che costituisce il nocciolo di Orfeo. Euridice. Ermes è una frase di uso comune, che esprime quella essenza e suona più o meno così: “Se te ne vai, io muoio”.[…]

Questa poesia assomiglia a un sogno inquietante nel quale si conquista qualcosa di molto prezioso solo per perderlo dopo un momento.”

Torö, Svezia, 1994

(Iosif Brodskij, Novant’anni dopo, in Dolore e ragione, Adelphi)

orfeo_euri_Hermes

“Quanti secoli sono passati da quando la mano di uno scultore ha inciso questo marmo che ti ritrae, Orfeo, accanto alla tua Euridice e al dio dei messaggi Ermes. Valeva la pena anche solo per questo venire in Italia. Rilke è il mio nome, e i versi sono la mia vita. Tu sai di cosa parlo, sai quale vertigine prende quando un soffio, un’idea, un’immagine arriva da chissà dove o chissà quando e preme per diventare verso, poesia, canto immortale. Tu mi hai parlato, io ho ricreato un mondo straniato e distante, ho sentito la morte incombere su ogni sforzo umano.”

(da Orfeo ed Euridice lo sguardo sull’ombra, Daniela Pericone)

 

di RAINER MARIA RILKE

ORFEO. EURIDICE. ERMES  

Era l’arcana miniera delle anime.
Esse per quella tenebra vagavano,
mute vene d’argento. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,
e greve come porfido sembrava
in quel buio. Di rosso altro non v’era.

V’erano rocce,
boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto
e quello stagno grande, grigio, cieco
che incombeva sul suo letto remoto
come cielo piovoso su un paesaggio.
E la striscia dell’unico sentiero,
scialba tra prati, facile e paziente,
pareva lino steso a imbiancare.

Per quell’unica via i tre venivano.

Primo, nel manto azzurro, l’uomo snello,
muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.
Il suo passo ingoiava il sentiero
a grandi morsi, senza masticare;
dalle pieghe cadenti gli pendevano
le mani, grevi e serrate, ormai
dimentiche di quella lieve lira
che sulla sua sinistra era cresciuta
come tralci di rosa sull’ulivo.
E i suoi sensi sembravano divisi:
l’occhio correva avanti come un cane,
si voltava, tornava e ripartiva
e aspettava lontano, a ogni curva,-
ma l’udito indugiava come odore.
Talvolta a lui pareva che intralciasse
il passo agli altri due che dovevano
seguirlo su per tutta la salita.
Allora aveva dietro solo l’eco
dei suoi passi e il vento nel mantello.
Ma diceva a se stesso che venivano,
e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.
Sì, venivano infatti, ma entrambi
avevano il piede troppo lieve.
Se si fosse voltato (e non poteva,
poiché un solo sguardo frantumava
tutta l’impresa da portare a termine),
li avrebbe visti, i due dal piede lieve,
camminare in silenzio alle sue spalle:

il dio del moto e dell’ampio messaggio,
con il casco sugli occhi luminosi,
l’agile verga tesa innanzi al corpo,
le ali oscillanti intorno alle caviglie;
e nella sua sinistra, in pegno, lei.

Lei, tanto amata che una sola lira
levò lamento più che mai le prefiche;
e sorse un mondo di lamento in cui
tutto ricompariva: bosco e valle,
strada e paese, campo e fiume e bestie;
e intorno a questo mondo di lamento,
così come intorno all’altra terra,
un sole si volgeva, e tutto un cielo
pieno di stelle, silenzioso, un cielo
di lamento con stelle sfigurate -:
lei, tanto amata.

Ma, tenuta per mano da quel dio,
con il passo frenato dalle lunghe
bende funebri, ella camminava
incerta, mite e senza impazienza.
Raccolta in sé e come trasognata,
non pensava a colui che le era innanzi,
né alla strada su verso la vita.
Era raccolta in sé, e la impregnava
il suo stato di morte.
Se un frutto è pregno di dolcezza e d’ombra,
quella sua grande morte la colmava,
così nuova che nulla lei coglieva.

A una verginità nuova era giunta,
e intangibile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore verso sera,
e le sue mani così disavvezze
alla vita nuziale che persino
il contatto di quell’esile dio,
tanto lieve e gentile nel condurla,
la turbava per troppa confidenza.

Ormai non era quella donna bionda
che si udiva nei canti del poeta,
non più il profumo e l’isola del talamo,
né più era il possesso dell’uomo.

Era già sciolta come lunga chioma
e già dispersa come pioggia in terra,
e diversa come un retaggio in cento.

Ella era già radice.

E quando all’improvviso
il dio la fermò e con dolore
pronunciò le parole: Si è voltato! -,
lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma lassù, scuro sull’uscita chiara,
stava qualcuno, irriconoscibile.
Stava e guardava un tratto del sentiero
in mezzo ai prati ove il dio del messaggio
si voltava in silenzio, mesto in viso,
e si avviava a seguire la figura
che già ripercorreva quel sentiero,
con il passo frenato dalle bende,
incerta, mite e senza impazienza.

(trad. di Gilberto Forti)

Rainer Maria Rilke, Poeta boemo di lingua tedesca (Praga 1875 – Muzot, Svizzera, 1926). Indirizzato dal padre alla carriera delle armi a 16 anni abbandonò l’accademia militare. Passando da Linz a Praga,  da Monaco a Berlino, fece studî irregolari. La certezza di una vocazione poetica gli venne a Monaco, dove nel 1896 conobbe Lou Andreas-Salomé, di 14 anni più anziana, legandosi a lei in un singolare rapporto affettivo. Determinanti per lo sviluppo della sua personalità furono le esperienze di viaggio in Toscana (Florenzer Tagebuch, 1898) e in Russia (1898 e 1899), dove incontrò il vecchio Tolstoj. Per due anni (1900-02) visse a Worpswede, villaggio di artisti nei pressi di Brema, dove si unì in matrimonio di breve durata alla scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin. Dal 1903 R. trovò a Parigi una specie di patria, e in Rodin un interlocutore e un modello per la sua ricerca formale. Anche durante gli anni parigini continuò i suoi viaggi per tutta l’Europa e in Africa; tra l’altro a Roma (1903-04) e al castello di Duino presso Trieste (1911-12), ospite della principessa von Thurn und Taxis. Allo scoppio della guerra nel 1914 fu trattenuto in Germania, dove prestò servizio, a Monaco, in un ufficio di estrema retrovia. Finita la guerra R. si stabilì, dopo un nuovo e più breve soggiorno a Parigi, nel piccolo castello alpino di Muzot, nel Vallese, ospite di un nuovo mecenate. Gli ultimi anni furono molto penosi, a causa del rapido declino fisico; morì di leucemia, all’età di 51 anni.

Rilke fu narratore e drammaturgo, ma fu soprattutto un lirico, fra i più significativi e fortunati del secolo. Incoronato di sogno (Traumgekrönt,1897) e Avvento (Advent,1898) preludono a Per la mia gioia (Mir zur Feier, 1899), in cui per la prima volta emerge la tematica dell’angelo, centro di una religiosità sofferta e ben presto discosta da ogni confessionalità. È dello stesso anno, ma pubblicato nel 1906, il volumetto in prosa lirica Il canto di amore e di morte dell’alfiere Cristoforo Rilke (Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke) serie di rapide impressioni su cui corre  una struggente nostalgia di vita sospinta verso la meta di una prematura dissoluzione. Intanto nel 1902 uscì Il Libro delle immagini (Das Buch der Bilder) raccolta di liriche di ricca suggestione figurativa e nel 1905 Libro d’Ore (Das Stundenbuch), libro di meditazioni religiose, testimonianza di una sete di Dio ricercato sotto ogni forma e presso ogni creatura, primo capolavoro di R. per carica concettuale e per rigoglio stilistico. Nelle Nuove poesie (Neue Gedichte, 1907-08) R. assorbì la lezione di Rodin, affidandosi alla lirica per attingere quella che egli definiva “visibile inferiorità delle cose”. Un momentaneo ritorno alla prosa si ebbe col romanzo I quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, 1910), nel cui giovane protagonista, poeta e nobile, si riflette l’esasperata sensibilità fisica e spirituale dell’autore. Nel 1923, diede insieme le sue prove più organicamente coordinate, le Elegie Duinesi (Duineser Elegien) e i Sonetti a Orfeo (Die Sonette an Orpheus). Le 10 Elegie, concepite e scritte lungo l’arco di oltre 10 anni, ripropongono ed esaltano la tematica dell’angelo e una nuova mistica cosmica. I Sonetti cantano la gioia della contemplazione poetica in un’epoca impoetica, espressione di un simbolismo decadentistico giunto, nel momento stesso in cui si esalta, alla sua estenuazione.

(fonte: Enciclopedia Treccani)

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