AFFABULAZIONE – il Pasolini di Giovanni Gionni Boncoddo

di Marta Cutugno

Messina. Quasi 44 anni senza Pier Paolo Pasolini. Esistenza incontenibile, voce scomoda del suo tempo e di ogni tempo per la ferma attualità che ne attraversa opera, scritti e pensiero, oltre ogni epoca. Necessario Pasolini, lo è stato sempre ed oggi, forse, lo è ancora di più. Per sua forma e per intenzioni, l’adattamento di “Affabulazione” firmato da Giovanni Gionni Boncoddo – e andato in scena al Teatro Savio domenica 14 aprile per “Aria Nuova in Me” di Davide Liotta – risponde a questa pratica necessità. Studiare, conoscere, mettere in scena Pasolini dovrebbe essere azione irrinunciabile di quel teatro che Boncoddo definisce “processo rivoluzionario” e che l’attore e regista affronta lasciandone emergere la potente valenza politica e sociale, come ha sottolineato dopo lo spettacolo nel brevissimo messaggio di saluti al pubblico su fascismi dichiarati o latenti.

“In un rapporto padre-figlio c’è sempre qualcos’altro”. Un grande senso di incompiuto, di epidermico disagio tra le generazioni aleggia volutamente tra quei versi liberi della tragedia che Pasolini aveva composto nel 1966, in tempi brevissimi e sotto forma di prologo, otto episodi ed epilogo. Fondamento primo nell’adattamento di Boncoddo, l’originalità e lo scandalo nel messaggio di PPP, “anticipatore della degenerazione antropologica degli italiani”. Boncoddo non si perde in orpelli di alcun genere. La scena è minimale e vuota. Soltanto otto sedie per gli interpreti ed un piccolo tavolino nero su cui poggia la sfera di vetro della negromante. La parola è libera, diretta, scarnificata da retropensieri ed, in andamento surreale, spazia dal silenzio all’esplosione.

“Tutto è difficoltà, squallidi complessi, prosa”. È estate in Brianza. In principio c’e il sogno del padre, “un padre reietto-non più padre, ma quasi figlio … che ha perso la qualità di uomo, che non lavora, non lotta più, perché non può”. Al centro di quel piccolo mondo sigillato vi è un industriale lombardo o più semplicemente un uomo, trasfigurato dalla smania di sentirsi di nuovo bambino e trascinato dall’ossessione per il figlio, che tormenta, che spia perché vuole scoprirne il mistero. Vorrebbe somigliargli, vorrebbe conoscerlo nella sua intimità. Irrompe il leitmotiv caro a Pasolini: la sovversione di un ordine prestabilito a cui un nucleo famigliare borghese con “problemi morali irrisolti” ed una “nobiltà ridicola e senza qualità” tenta di sottrarsi in una lenta ed intensa parabola di autodistruzione. Oltrepassare ogni limite è l’unica forma di resistenza conosciuta.

“Amara terra mia”. Sul palcoscenico otto figure perse in un fiume di parole, si dice tutto e non si spiega nulla. Misurarsi col teatro di parola pasoliniano non è affatto cosa semplice. Dalle ore di prove, durante la preparazione alla messinscena, è emersa la chiara direzione di Gionni Boncoddo: liberare la performance dall’inutilità del gesto e delle espressioni di troppo e muoversi lontano dalla canonica resa attoriale. Al centro di tutto, non il risultato ma l’intuizione. L’obiettivo è scuotere, provocare, opporsi. In una giusta atmosfera sostenuta dal progetto luci di Vincio Siracusano, Enzo Cambria veste bene quel padre in preda ad una allucinazione ossessiva ma ingenua; sicura è l’accorata madre di Daniela Conti, impegnata anche come seducente negromante. Molto bravo Luca Stella nel ruolo del figlio. La partecipazione straordinaria di Tony Canto è un tocco di poesia. Le note di “Amara terra mia” di Domenico Modugno si offrono al pubblico con finezza e chiudono lo spettacolo quale manifesto di un’emigrazione strettamente intellettuale e sociologica.
Sul palcoscenico anche Martina Costa, Gabriele Crisafulli, Davide Marchese, Costanza Sibilla, Damiano Venuto. Molti giovani sul palco del Savio per questa rappresentazione-studio di Boncoddo, quella giovinezza, vissuta, rimpianta, invidiata come in “Affabulazione”. E giovani erano anche gli attori della “Cooperativa Teatro Proposta” che, con la regia di Beppe Navello, il 30 gennaio del 1975, al “Cabaret Voltaire” di Torino, misero in scena la prima assoluta della tragedia con il permesso dell’autore che, dieci mesi dopo, sarebbe stato ritrovato morto, assassinato sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Chi ha davvero conosciuto, scoperto Pier Paolo Pasolini e la sua opera, tra le righe di Teorema per esempio, come in quelle delle Poesie a Casarsa dedicate al padre nel dialetto materno, ha potuto intravederlo nella messinscena messinese di “Affabulazione”, per lo sguardo serrato e l’adesione idealistica che Boncoddo offre della poetica pasoliniana. “Se questo era il futuro, era del tutto imprevedibile”.

FotoInScena di Giuseppe Contarini

da “Affabulazione” di Pasolini:

Padre nostro che sei nei Cieli,
io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita.
Ho sempre avuto negli occhi un velo d’ironia.
Padre nostro che sei nei Cieli:
ecco un tuo figlio che, in terra, è padre…
È a terra, non si difende più…
Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti.
(…) Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita.
Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere.
Per difendermi, dopo l’ironia, avevo il silenzio.
Padre nostro che sei nei Cieli:
sono diventato padre, e il grigio degli alberi
sfioriti, e ormai senza frutti,
il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso.
Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pasto
agli altri il mio potere perduto.
(…) Che me ne faccio di questa persona
cosi ben difesa contro gli imprevisti?

 

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