di Libera Capozucca
Parterre (13) Tra le braccia stringe l’inseparabile chitarra, nella testa alimenta la sua idea romantica di cantastorie, dando voce a melodie in cui l’elettricità del rock e il colore del pop collezionano scampoli reggae. Con quel gusto di terra e polvere della tradizione popolare, il salernitano Mico Argirò compone per il teatro, segue vari progetti musicali e lavori in studio, poi approda ad un disco tutto suo (“Vorrei che morissi d’arte”).
E’ la storia di un giovane cantautore alle prese con la sua idea di fare musica lontano dai circuiti ufficiali, a caccia di sincerità. Un percorso ancora poco visibile ma destinato a dare presto i suoi frutti, se è vero che l’esercizio dei sentimenti musicali richiede tempo e fatica; l’importante è non avere fretta. Allora viene da pensare che l’arte è sempre nell’aria se uno sa bene riconoscerla, si insinua dolcemente ed è un balsamo per le orecchie. Mico Argirò si limita ad agire, a creare laconico, ma sommessamente partecipe, la sua arte. E a chi gli chiede se vivere di sola arte sia possibile, lui risponde che la vita stessa è un’opera d’arte pure quando si spegne. Ecco perché il suo disco è un inno alla vita e noi gli crediamo.
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