Il Novecento: Dino Campana – Ritorno

Dino Campana – Ritorno

canti orfici

SALGO (nello spazio, fuori del tempo)

L’acqua il vento
La sanità delle prime cose –
Il lavoro umano sull’elemento
Liquido – la natura che conduce
Strati di rocce su strati – il vento
Che scherza nella valle – ed ombra del vento
La nuvola – il lontano ammonimento
Del fiume nella valle –
E la rovina del contrafforte – la frana
La vittoria dell’elemento – il vento
Che scherza nella valle.
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento.

La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche. L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole. Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani abeti, l’avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la lunga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su se stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco. Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell’antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l’elemento grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.

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Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate! Catrina, bizzarra figlia della montagna barbarica, della conca rocciosa dei venti, come è dolce il tuo pianto: come è dolce quando tu assistevi alla scena di dolore della madre, della madre che aveva morto l’ultimo figlio. Una delle pie donne a lei dintorno, inginocchiata cercava di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, ma lei gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Figura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu allora guardavi: tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi con la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia: e già dimentica dell’amor del poeta.

Monte Filetto, 25 Settembre

Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. E un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre tra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piace dai balconi guardare la campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido sulla tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume riprende la sua cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto d’oro nello squittire dei falchi.

Presso Campigno (26 Settembre)

Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi che essa è qui veramente la regina del paesaggio.

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Valdervé è una costa interamente alpina che scende a tratti a dirupi e getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del leone. L’acqua volge con tonfi chiari e profondi lasciando l’alto scenario pastorale di grandi alberi e colline.

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Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità della terra. Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fìgliuol prodigo all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il mio ricordo, l’acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l’oro crepuscolare, dolce come il canto dell’onnipresente tenebra è il canto dell’acqua sotto le rocce: così come è dolce l’elemento nello splendore nero degli occhi delle vergini spagnole: e come le corde delle chitarre di Spagna… Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra tua faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore profondo, cuore danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla sacra oscenità di Sileno? Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra…

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Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia cola un filo d’acqua in un incavo. Il vento allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro.

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Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna.

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L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!… Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra…
Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere.

Marradi (Antica volta. Specchio velato)

Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto di archi!

Presso Marradi (ottobre)

Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra della mia stanza che affronta i venti: e la… e il figlio, povero uccellino dai tratti dolci e dall’anima indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta, e il vento che batte alla finestra dall’orizzonte annuvolato, i monti lontani ed alti, il rombo monotono del vento. Lontano è caduta la neve… La padrona zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale. Fine del pellegrinaggio.


In copertina: Dino Campana.

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