Occhio al testo (2). Angelo Maria Ripellino: Guai a chi costruisce il suo mondo da solo

di Diego Conticello

Alla base della splendida unicità della poesia di Ripellino vi sono lo sfoggio di arditissime peripezie linguistiche, l’eclettica estrosità metaforica e analogica, il virtuosismo stravagante e caleidoscopico delle associazioni visionario-immaginative che ne fanno certamente l’esempio insieme più superbo e grottesco del nostro neo-barocco. Proponiamo qui una poesia da Lo splendido violino verde[1]:

Guai a chi costruisce il suo mondo da solo.
Devi associarti a una consorteria
di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickerìa.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi al volere del cielo.
Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
guai a chi resta solo come un re disperato
fra i neri ceffi di lupi digrignanti.

In questo testo la costruzione si sviluppa per mezzo di un lucidissimo elenco oggettuale, costruito peraltro attraverso una peculiare torsione lemmatica che va dal calco prezioso (gighe dall’inglese jig) o antico (larifari) sino al limite del solecismo (inorpellato) e del neologismo più impervio (Schickerìa). Il peculiare eccesso aggettivale dà conto di un’ansia metafisica sempre incombente (poi infatti richiamata in chiusura) sottolineata anche dalla sinestesia posizionata strategicamente al centro – anche grafico – del componimento (verde allegro). L’avvertimento iniziale viene ripreso con doppia iterazione anaforica nella chiusa, amplificando a dismisura la sensazione di isolamento attraverso l’immagine ferina e coloristicamente torva data dall’associazione chiastica del verso finale (neri-lupi, ceffi-digrignanti).

L’acme di originalità viene tuttavia raggiunta con l’uso di un espressionismo descrittivo che tende ad associare i termini di paragone più disparati, ricavandone effetti quasi patetici e di amaro sarcasmo, in cui le acrobazie sintattico-lessicali tentano di aggirare l’orrore della morte o la disperazione della vita.

Questo esasperato ma lucidissimo «istrionismo» poetico si manifesta soprattutto attraverso la metafora barocca della vita-scrittura come «teatro della morte»:

L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Le squallide vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della poesia, perché essa, sempre più scalzata sui margini, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. La poesia è magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione. […] Scriver poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomàsie e delle assonanze la Morte[2].

Chissà se Ripellino scrivendo questi versi abbia pensato alla coeva – e ancor oggi purtroppo vivissima – situazione politica cercando di denunciarne il malcostume o, forse, alla tanto travagliata situazione editoriale personale in cui i rifiuti e i ridimensionamenti (non ultimo quello di Calvino) superarono di gran lunga i pur numerosi successi.

Certamente ne vien fuori un affresco insieme allucinato, aberrante ma lucidamente razionale e oracolare, in cui il tasso di indignazione è direttamente proporzionale alla sensazione di solitudine ed impotenza che l’estro terminologico tenta – vanamente – di esorcizzare.

***

[1] Angelo Maria Ripellino, Lo splendido violino verde. Torino, Einaudi 1976.

[2] Angelo Maria Ripellino, A proposito di Autunnale barocco. Ora in Poesie. Torino, Einaudi 1990, pag. 241.

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