di Enzo Rega
Recensendo il precedente libro di Mario Fresa, Svenimenti a distanza, uscito nel 2018, scrivevo che sembrava quella una poesia per decollage e decoupage, come se gli strappi su una pagina portassero alla luce strati sottostanti in un gioco di immagini che non si ricomponevano più in un discorso logico-sequenziale, anche se la torsione lì non toccava il piano dei legami sintattico-grammaticali ma solo quello delle connessioni semantico-contenutistiche. Invece, in questo nuovo libro, Bestia divina, l’intervento sul linguaggio è ancora più radicale e sconvolge spesso la struttura della frase: l’ordito onirico e le libere associazioni non riguardano più solo le immagini ma la frase stessa nel suo farsi e disfarsi, come in quello che ci diciamo nei momenti ipnagogici che precedono il sonno e il sogno stesso, in quella fase di sospensione in cui stiamo per addormentarci: non siamo più svegli ma neanche ancora dormiamo. A questi aspetti fa riferimento nella Presentazione al volume anche Andrea Corona che inquadra il fare poetico di Fresa all’interno della riflessione sul linguaggio di Heidegger, per il quale essenzialmente l’uomo parla, e parla dunque nella veglia e nel sonno e anche quando non proferisce parola; di Lyotard, che considera l’assenza di frase, ovvero il silenzio, e l’assenza di concatenamento, ovvero il dissidio, e che si sofferma sulla frase-affetto che disarticola le tradizionali connessioni logiche; di Merleau-Ponty, per il quale la parola di chi parla non si limita a esprimere un pensiero già elaborato, ma concorre invece, nel momento in cui si parla, al suo compimento. Possiamo poi aggiungere, nell’ambito della psicolinguista, un Watzlawick per il quale anche il silenzio comunica (Fresa a p.54: “ma parla zitta”) e Vygotskij che riconosce al linguaggio appunto un ruolo fondamentale nella costruzione del pensiero. Corona, aggiungendo ai riferimenti filosofici quelli psicoanalitici, così della poesia di Fresa scrive, e sottoscriviamo: “I versi di Fresa osano l’aporia, osano avventurarsi oltre le catene della sintassi per approdare a quel che la psicanalisi freudiana chiamava l’ombelico del sogno, nodo inaccessibile all’analisi. La poesia si fa allora estroflessione dell’inconscio, si fa… condensazione e spostamento, si fa sogno stesso” (p. 9). La poesia di Fresa è dunque per il critico una risposta all’impossibile; dunque un tentativo di tradurre in parole l’intraducibile.
Possiamo dire che da un lato questa scrittura rimane nella sfera del prelogico, ma dall’altro, data la consapevolezza intellettuale degli strumenti adoperati dal poeta, essa è anche oltre la logica – almeno quella aristotelica – perché al di là di quella che i linguisti chiamano struttura superficiale del linguaggio, che è quella dell’organizzazione sintattico-grammaticale, egli va alla struttura profonda, cogliendo il dire nel suo farsi o smontando il detto: e la tecnica del decollage/decoupage viene applicata direttamente al significante e non più solo al significato. L’abbandono delle leggi della grammatica è anche dichiarato: “Se tutto / è una grammatica noiosa. Per capirci qualcosa. Allora / si sfascia, ci getta indietro” (p. 42).
Ne possono essere un’esemplificazione questi versi, sia per il lavoro sul contenuto sia per l’anacoluto con cui non si concludono: “Cadiamo da un odore familiare / a un gesto fuori via; finito nello stomaco perché” (p. 19). O ancora: “quasi pronto a dirmi cose che” (p. 41) In questo contesto è poi interessante l’uso aggettivale d’un sostantivo: “giornale morte”, “sedia ossigeno” (p. 20). Ma è meglio cogliere questi interventi sul linguaggio all’interno dei versi dai quali sono stati estrapolati: “Ed ecco il giornale morte, invece. / Racconta che le sale questo nome dalla gola: / si apre un’identità che macina una specie / di monito serpente. / Se ne sta ferma, allora, senza una sedia ossigeno / che possa farle quadrare i conti”. Il verso che segue subito dopo è esemplare per la tematizzazione stessa della questione del linguaggio: “Solo a fatica parla. E si distacca da sé”. Ma i testi sono disseminati di considerazioni su questo heideggeriano venir meno del linguaggio: “Come uno sciopero di tutte le lingue” (p. 24); “mentre, con le sue mosse strane, / si taglia fuori da tutto l’alfabeto” (p. 27); “Siamo più umani senza una lingua?” (p. 28). Per evocare però, subito dopo, un “corpo-orecchio”. C’è, accanto alla questione dell’astratta parola anche, un forte senso della corporeità e pure di una controversa carnalità: proprio all’inizio e proprio alla fine del libro, leggiamo “Dice che usciamo insieme, carnivori e infelici” (p. 15) e “siamo carnivora felicità” (p. 57), con un rovesciamento infelici/felicità in cui, come spesso in questo libro, gli opposti coesistono.
Tornando alla questione del corpo, e a quella della lingua, possiamo leggere questo più lungo estratto che può far rendere ulteriormente conto della grana di questa particolare voce poetica (p.34):
Avete visto com’è spettro e bicchiere, questo corpo?
Quando la noti, si fa destino intero;
viaggio di lingua e orrendo viso di terrore.
Il nostro colloquio s’apre come un insetto male
che ad ogni dolce notizia spara, dalla ringhiera, in due;
s’ingoia proprio tutto, stomaco e sogno:
fino al cervello celeste, possessivo.
E tornando agli inceppi del linguaggio, è interessante rintracciare il ricorrere (due volte) della parola “balbuzie”: “una sonora mente / di balbuzie!” (p. 36: dove è da sottolineare “sorona mente” che suona anche come parola unica: soronamente) e “Il tempo fa balbuzie” (p. 41). L’incagliarsi e il venir meno del linguaggio sono resi anche dal cadere, dallo svenire, vedi “Le ragazze continuavano a svenire” (p. 40), che richiama il titolo del libro precedente Svenimenti a distanza ma ci fa ricordare anche gli svenimenti di Virgilio, nella Commedia, allorché al poeta latino (e a Dante) era impossibile spiegare ciò che accadeva. Allora, rispetto alla chiacchiera quotidiana è necessario uno scarto, uno stacco: “Era una lingua, un salto. Mica per noi, mica un insulto” (p. 46), dove salto e insulto giocano tra loro e il salto risuona (forse) come un insulto per chi resta nella tradizionale pratica del linguaggio.
Un senso di straniamento è dato anche dalla ricorrenza di nomi non italiani: Kurt, Franz, Javier, Francisco. Chi sono costoro? Per qualcuno si può fare solo una congettura. E se Franz avesse a che fare con Kafka, considerato che il nome compare in un contesto “giudiziaro”?: “Franz lo ammette; non è certo umiliato / nel tribunale della domenica / ... certe cause dozzinali” (p. 25), e nel testo compare anche la parola “imperatore”. Nella sezione Soluzioni – nella quale il lettore si aspetterebbe le tradizionali note esplicative e che è invece la continuazione, e un controcanto, rispetto ai testi “annotati” – Franz viene visto come un lettore della Bibbia, e si sa come in essa sia centrale la questione della Legge, tema kafkiano ma anche per estensione correlabile alle regole del linguaggio (e la cultura ebraica è indissolubilmente legata alla “parola”). Per quanto riguarda Francisco, il nome compare in contesti diversi, ed è anche il nome di Goya, esplicitamente nominato una volta nelle poesie, e più volte nelle Soluzioni. In un caso qui il nome del pittore spagnolo compare in relazione all’altro nome, Javier, ed è interessante leggere ciò che Fresa scrive, a p. 59, a commento del testo intitolato Ritratto di Javier (p. 28), perché dà un’idea ulteriore del suo lavoro poetico: “Nel sincretismo del sogno e del ricordo, Javier è, insieme, il silenzioso e amorevole domestico di Carlo Coccioli e il figlio, immortalmente giovane, di Francisco Goya”. Una seconda volta, nelle note finali, il nome di Goya viene fatto in riferimento al testo intitolato Era una lingua, un salto di p. 46: “Nel novembre del 1792, a Cadice, mentre dipinge un ritratto dell’amico Sebastian Martinez ed è suo ospite, Goya cade prostrato, all’improvviso: ed è strettonella ragna di un eterno assordamento. Lì precipita e s’abbuia. E poi da lì rinasce” (p. 61). Cruciale, dunque, il riferimento all’episodio di Goya in relazione al “cadere” della lingua e al salto.
Le ipotesi fatte per alcuni nomi sono plausibili? Potremmo rispondere con l’autore: “Il nome c’è, così allarmato da venirgli addosso. Ma credo proprio che sia di un altro” (p. 52): un esempio ulteriore della logica depistante che attraversa questa scrittura e questo libro. Una scrittura molto diversa dalla moneta corrente nella poesia di oggi, e altro rispetto a una moneta di scambio: il poeta è qui dunque “vero soldato / pronto a morire per una lingua che non passa / più mercato” (p. 36) e si muove per “andare al mercato / e poi disobbedire?” (p. 39).
Anche il lettore viene assoldato in un compito arduo da una poesia che occulta il proprio significato, o che psicoanaliticamente costringe a una traduzione dal contenuto manifesto al contenuto latente. Ma sono proprio le difficoltà a costringere il lettore, secondo Paul Valery, ad andare oltre la superficie del testo. Riguardo all’oscurità, e al tipo di comunicazione proprio della poesia, il poeta francese scrive “Compito del poeta non è comunicare un ‘pensiero’, ma far nascere in altri lo stato emotivo al quale convenga un pensiero analogo ma non identico al suo”. Questo può far scusare anche il lettore d’un testo per una sua eventuale misinterpretazione, rischio al quale è sempre esposto un tentativo di lettura. Ma ciò riconduce anche agli effetti della frase-affetto, da cui eravamo partiti.
2 pensieri su “Mario Fresa, Bestia divina, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2020 – una recensione di Enzo Rega”