FLASHES E DEDICHE – 116 – LA RIVOLTA DI LUCIFERO TARANTINO

Un altro libro che difficilmente è riassumibile nelle poche righe della rubrica è “Fiori estinti” (Terra d’Ulivi Edizioni 2019) di Mattia Tarantino. Dopo aver parlato la scorsa settimana del Trismegisto Galloni, tocca adesso al suo compagno di versi e merendine avvelenate, Lucifero Tarantino. Leggendo qua e là recensioni e critiche sul lavoro in oggetto, quasi tutti  rimarcano il titolo come un richiamo ai poétes maudìt, cadendo nel primo tranello del nostro autore. Tarantino maneggia la materia poetica con versatilità unica, sviando il lettore, infarcendo il dettato di richiami a tante poetiche diverse ma non solo; in realtà siamo di fronte ad una antropologia del profondo. Le strutture ben delineate, se lette al di là delle parole senhal che fungono da fil rouge, mostrano oltre ad uno studio non casuale dei testi, archetipi e livelli traumatici del linguaggio portati in superficie. La provocazione testuale che affiora è soltanto uno specchietto per le allodole. Qui si scava, si scava nelle interiora del poeta. Siamo davanti a discorsi sulla ritualità, non ad effimere immagini di sfida o scritte per il gusto di sorprendere. Scomodando Eliot, Tarantino è sicuramente più “metafisico” che “maledetto”. Paradossalmente il suo “angelo” simbolo , è  vicino a quello della Guidacci e al contempo a Blake e Milton, tutti impostati comunque su una base biblica. I suoi versi di carne e sangue esondano dai percorsi canonici e intravedo in lui un potenziale ulteriore. I fiori, gli angeli , la materia e l’antimateria non sono a rischio di estinzione, sono canali di collegamento tra un mondo e un altro, tra umani e disumani. Cadiamo nella trappola per un momento : Tarantino è un ladro di fuoco.

 

 

 

Mi hai donato fiori morti
da lanciare nella stanza, fiori
già sporcati da una voce, e seppelliti
dove la parola non fa tana.
Ed è questo il trucco degli amanti:
se prendi un fiore puoi legarlo
in fondo al cielo, puoi impiccarlo
a qualche nome e poi morire.

 

 

Vorrei guardare il cielo

Vorrei guardare il cielo, ma le stelle
mi aprono il sangue e disturbano
i versi in bocca ai morti:

stanotte mia madre non partecipa
al pane che si spezza, non consente
né risate né preghiere, capovolge
tutti i nomi e li scavalca;

stanotte mio padre non ricorda
quante volte ha indovinato, quante volte
la parola gli ha mozzato la parola.

Stanotte prendo l’ago e cucio
i miei occhi agli occhi di mia madre, prendo
un piccolo coltello e svuoto
le mie ossa nelle ossa di mio padre.

Vorrei guardare il cielo, ma le stelle
le ho tra i denti e fanno male.

 

 

Il fanciullo e il dolore

Da bambino tagliavo gli occhi ai pesci;
credevo all’inganno
che ha nome di madre, credevo
alla sorte e alla luna. Eppure
abitavo gli arrembaggi del nascere,
cucivo le vertebre astute
dei morti, rendevo
tutto il mio canto all’inverno.
Quando fui testimone del corpo
compresi la prima menzogna:
solo l’acqua è crocifissa; solo
l’acqua adesca
il fanciullo e il dolore.

Penitenza

Allora la speme dell’angelo
marcia mi domina il volto:
non basterà la penitenza che squarcia
la misura del verso, non
colmerò il cuore con l’astro
passito all’altare del dono.
Posso giurare, auspicando
dalle ossa dei fiori che ogni
sillaba nerissima strazia
la memoria di nascere.

 

foto di Thomas Vitale

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