di Alessandro Quattrone
Ivan Fedeli, Gli occhiali di Sartre, puntoacapo Editrice, 2016
Non sempre i poeti considerano insufficiente la realtà. Non sempre aspirano a cambiare dimensione, a cercare un cielo o un inferno in cui potersi esiliare, pur di evadere dalla mediocrità quotidiana. Non sempre affidano alla parola poetica il compito di trasformare il mondo, di restaurarlo e renderlo abitabile. Ci sono poeti che alla realtà non chiedono nulla, se non di lasciarsi attraversare. E non è che frequentarla li lasci indenni o indifferenti, dal momento che la sua molteplicità e la sua sempre urgente presenza richiedono prontezza di giudizio, sforzi morali e reazioni emotive, e nessuno è instancabile o invulnerabile. Tuttavia ci sono appunto poeti, come Ivan Fedeli, che non pretendono niente né da se stessi né dalla realtà, e umilmente – ma con coraggiosa disponibilità – camminano per le strade di ogni giorno ricavando brevi storie da singoli gesti, e registrando movimenti, cenni e occasionali posture con una sorta di oggettività partecipe.
(Il Sergio del bar)
Allarga il sorriso come nessuno
mai il Sergio del bar, anche se l’età
si svuota e ci si dà senza pretese.
(…)
Nella sua ultima raccolta, Gli occhiali di Sartre, in continuità con la precedente Campo lungo (2014), Fedeli ci dice qualcosa, non tutto, dei personaggi che incontra; ma di essi alla fine sappiamo tutto, non qualcosa. Siamo costretti a occuparci di loro e soltanto di loro, non della condizione umana. Ma paradossalmente è proprio così che, della condizione umana, veniamo a sapere di più.
(L’età nobile)
Ha vent’anni Marta e la pelle candida,
vorrebbe risposte per sé e sul mondo
mentre sorride allo specchio per dire
sono bella. Si prepara così
alla vita e ci sta limpida come
una mattina al sole. Legge i classici
sul tram appuntando suoni e parole
quasi l’asfalto fosse cosa d’altri,
poi ascolta i bambini, le loro storie
sillabate alle nonne. Ama l’amore
perché lì c’è gloria per tutti pensa
e ride aggiustandosi il ciuffo. Scende
al metrò con l’aria di chi si perde
contando i passi e va meravigliosa
in cerca di tempo. La sente stretta
la città e immagina un giorno ventoso
dove ognuno ha un luogo. Piace tenerla
protetta tra uno sguardo e il caldo tenue
di un tramonto prima che l’afa arrivi,
quel ronzio insistente delle vespe
sui balconi ai piani alti a ricordare
l’addio dei gerani, il loro rosso
smalto che finisce perdendo petali.
Nel poeta non sembra esserci alcuna intenzione di trovare simboli o allegorie nella realtà, nessun impulso a risalire ardue chine metafisiche: gli basta il mondo così com’è, quello delle strade e delle tangenziali, quello dei condomini e dei marciapiedi, dei bar e dei mercati, delle metropolitane e dei semafori, dei giardinetti e degli uffici pubblici. Luoghi di ritrovo e di incontro casuali, dove ognuno sa di avere una biografia irripetibile, e invece appare come una persona qualsiasi; dove ognuno si sente unico e invece è uno dei tanti.
Fedeli ama soffermarsi su una umanità impoetica, marginale e insignificante che però, a guardarla bene, contiene ricchezze che attendono solo di essere rivelate: sogni, speranze, progetti, domande, ricordi, cortesie. È l’umanità nella sua essenza e nella sua verità, nella sua epica ciclica e ordinaria, che non si abbassa mai fino al comico, anzi trova nelle tinte elegiache i colori giusti per esprimersi.
Ma l’odore della pioggia, il suo battere
deciso sull’asfalto proprio quando
sfogliano il giornale all’aperto e al bar
qualcuno offre un caffè e si sente vivo.
Sono cose da città, buone solo
per fermare il tempo, finché fa sera
e ci si ribella un po’ al temporale,
che possa lavare i cuori di chi
passa affrettando la corsa. Più in là
la pazienza dei tram in attesa all’angolo,
le pensiline quasi gialle dove
s’accalcano parole e ombrelli. Scivola
il mondo dei semplici, tra un s’accomodi
e un sorriso bello che ammicca vieni
qui c’è spazio. (…)
Ivan Fedeli è poeta dallo sguardo aperto e implacabile nel raccogliere, anzi nel collezionare, personaggi e situazioni che ai più non direbbero niente nel loro fuggevole grigiore, ma che a lui proprio per questo, e a maggior ragione, appaiono interessanti.
Non manca nessuno: pensionati, studenti, impiegati, cassiere, badanti, e poi mamme con le carrozzine, innamorati che si baciano e via dicendo. Gente che vive la propria normalità ripetitivamente, portandosi dietro mancanze inconsapevoli, nostalgie taciute, aspirazioni appena sussurrate.
Si fissano in fretta storie su storie
quasi si attaccassero i volti all’afa
a ricordare un silenzio, una traccia.
Stare così nel mondo, come un pezzo
di asfalto che preme sui tacchi e chiede
chi sei, mentre emerge il sole qua e là
e la città sta nel fiato di donne
che vanno, il loro profumo che attira
e gli occhi al semaforo, che non scatti
prima di capire chi c’è al tuo fianco.
(…)
Esseri piccoli o minimi si aggirano per la città (Milano) come creature concrete, molto concrete, eppure ignare della loro evanescenza, del loro essere trasparenti fino a non esistere agli occhi di chi li sfiora. Ma Fedeli non accetta di passare invano accanto a loro. Vuole dare un contorno preciso a queste esistenze qualsiasi. Sente la responsabilità di notare e annotare, sapendo bene che ognuno attende solo di essere riconosciuto, perché nell’essere riconosciuti si sperimenta una forma d’amore modesta ma non soggetta a guasti o equivoci. A tutti il poeta rivolge la propria attenzione con sguardo invisibile e mano leggera, accarezzandoli senza che se ne possano accorgere. È la sua forma – discreta e gentile – di risarcimento per gli anonimi, i dispersi, gli isolati.
Ragionano d’amore anche qui giovani
badanti mentre s’affrettano a darsi
un tono che è sabato e non si sa
mai. Le senti dall’accento dell’est
quando si specchiano nei vetri opachi
delle pensiline e coprono i seni
generosi dentro un pudore antico.
Ma arrossiscono a modo loro dopo
uno sguardo di troppo quasi a dire
non serve e si tirano un po’ il vestito
sulle gambe perché è giusto così.
Sognano la vita buona e una casa,
cose normali dicono impacciate
ai signori di mezz’età che chiedono
poi fingono un sorriso e vanno via
tutte, tra una corsa e l’altra dei tram
con l’idea di un figlio, i suoi capelli
biondi domani. È il migliore dei mondi
pensano in segreto e le mani stringono
la borsa in finta pelle, quel giallino
pallido che dà allegria malgrado
il tempo incerto di un luglio improbabile,
le nuvole basse, senza poesia.
Benché le folle e il viavai siano spesso presenti nel libro, benché venga ritratta nel suo insieme la gente che frequenta bar e mercati, che sale e scende da tram e metrò, che si affretta ad andare chissà dove su marciapiedi pieni di altra gente che va pure chissà dove, per Fedeli le persone non cessano di essere individui con i loro segni distintivi, le loro mimiche incoscienti, i loro sorrisi appena accennati. Uomini e donne senza deformazioni grottesche né aure idealizzanti. E non importa, poi, se sono sognatori o disincantati, logori o fiduciosi, malati o sani. Il poeta non fa selezioni preventive, perché ama la realtà con le sue pecche e le sue virtù, come si può amare la persona che ci sta accanto da una vita, e della quale si cominciano a notare i segni dell’invecchiamento, le rughe, le piccole deformità, come pure le ripetizioni, i vezzi, gli scompensi, le debolezze: non è più quella persona che abbiamo conosciuto all’inizio, non è più l’incarnazione della giovinezza luminosa che ci ha entusiasmati e affascinati, ma mantiene una sua forza di attrazione, perché nel frattempo anche noi siamo cambiati, siamo maturati, siamo usciti da una fase mitica e mitizzante, e siamo pronti ad accettare – sia pure con un velo di malinconia – il volto e il corpo dell’altro: il volto e il corpo della realtà, appunto.
Dicono la primavera magnifica
anche qui. Te ne accorgi dalla calma
degli studenti del Carducci, il loro
passo lento da seconda ora mentre
improvvisano un selfie da postare
nonostante il latino, la versione
saltata. Hanno la forza dei piumini
gialli, l’idea di un tempo invincibile
dalla loro e fanno il verso alle facce
da ufficio, quel modo ordinato dietro
la linea gialla prima di salire.
Pensano non sarà così per noi
invadendo gli spazi in piedi mano
nella mano. Tutto ciclico, tutto
che si ripete sospira un signore
seduto e si vergogna un po’ di cosa
si diventa dopo l’età dei sogni.
Si scende allora e non si sa di chi
è mai il mondo o se basta una fermata
per capire come viene la vita.
Di certo è aprile e a Loreto si cambia.
Gente di corsa, scompare a distanza.
Considerando l’abbondanza di dettagli nei testi, sembra che il poeta abbia percorso ogni zona della Milano periferica o dell’hinterland, quella minore, brulicante di vite che si affannano – a volte senza neanche rendersene conto – a tirare la giornata. Ma il suo percorso non è quello dell’esploratore, che si pone l’obiettivo di scoprire nuovi luoghi e nuove culture, né quello del sociologo, che osserva e studia per classificare o per elaborare teorie. A lui basta muoversi attraverso posti conosciuti, e parlare delle persone comuni, quelle che fanno la coda al catasto o siedono sulle panchine o scendono in fretta le scale condominiali al mattino. L’abbondanza di particolari è la prova che Fedeli sa guardare, e siccome sa guardare, vede. E naturalmente, siccome sa vedere, continua a guardare. È così che per lui tutto può diventare interessante, e tutto lo diventa.
Siedono pazienti, sembrano nuvole
se non c’è vento. Hanno l’aria di tanta
vita alle spalle: lei ride un po’ stanca,
lo sguardo ancora biondo, le parole
belle sulla fatica che fa il mondo.
Lui borbotta e legge in fretta il giornale
quasi venisse meno il tempo intorno.
Ma stanno tutti in un cenno d’intesa,
e si raccontano i figli, la resa
alle rughe. Rimangono in attesa
di una chiamata buona e di un dio che apra
il cielo al sole più in là, dove passano
i giorni. Chissà domani sospirano
in una carezza, come le mani
dessero confine stabile ai luoghi
e ci fosse una certezza dovunque.
Poi s’abbracciano, nemmeno i vent’anni
tornassero mentre l’estate va
immutabile, ben oltre le case
o il pensiero per le piante in balcone,
che prendano acqua ogni tanto. Si sta bene
comunque giurano con l’intenzione
di non lasciarsi mai e dentro quel mai
affondasse un senso di appartenenza,
l’idea di continuazione indomita,
il rifiuto del limite di specie.
Gli occhiali di Sartre è una sorta di poema della città e dei suoi abitanti diviso in nove sezioni, che sono come scorci dei luoghi destinati al vivere comune e che potrebbero essere considerate, nella sequenza dei loro componimenti, poemetti unitari e conformi alla linea generale dell’opera. È un libro pieno di persone e di circostanze, di anime e di cose, e perciò incuriosisce ad ogni pagina. Ha un suo tono costante, sommesso, che lo rende coerente e scorrevole, e non difetta di aperture liriche, sempre misurate, che non mutano l’atmosfera complessiva. Ma tra le sue qualità non si può certo trascurare lo stile. Non è da tutti pensare di dare a una materia così prosaica una forma così scorrevole, utilizzando endecasillabi mai monotoni e mai troppo melodiosi, che si avvalgono di un frequente ricorso all’enjambement: endecasillabi giusti, insomma, per veicolare contenuti che non potrebbero avere un andamento diverso. La musica c’è, dunque, ma non in primo piano. È in sottofondo, come coperta dai rumori della vita. Il lessico quotidiano, il tono dimesso e la sintassi ordinaria, poi, sono tutti elementi di una bellezza povera, che si addice ai personaggi delle microstorie poetiche come certi vestiti semplici ma appropriati si addicono a chi non ha un rango da esibire, ma una dignità – di per sé comunque bella – da evidenziare.
Siamo di fronte a un realismo minimalista, che avrebbe potuto prendere la strada più prevedibile (ma non per questo più facile) del racconto, e invece ha preferito il rischio della poesia, che richiede all’autore un modo particolarmente interessante di presentare situazioni e personaggi, per non far cadere il lettore nella noia. A Fedeli non sfugge questa necessità, perciò dissemina i suoi versi di frasi o semplici sintagmi che brillano di una luce originale, di una verità non scontata, di una svolta inattesa nella descrizione o nell’osservazione. A volte è solo un aggettivo ben scelto a scintillare come un piccolo gioiello, ma comunque in ogni testo si trova sempre, nel mezzo dell’ordinario, qualcosa di prezioso.
(…)
Chissà domani chi tornerà qui,
se la vita conterrà tutti ancora:
è la pazienza del giorno il segreto,
sapere che bene o male si passa.
In fondo basta sapersi aspettare.
Leggere Gli occhiali di Sartre significa addentrarsi in un mondo che si è sempre avuto sotto gli occhi, cominciando finalmente a percepirlo e a trovarlo anche poetico. Significa imparare a guardare e a vedere, a dare importanza a ciò che sembra non averne, e a sentirsi creature fra le creature della vita, con il proprio carico di pena da sopportare e la propria dotazione di sorrisi da rivolgere alla realtà.
La poesia di Fedeli, così oggettiva e così accogliente, è in fin dei conti un gesto di amore per questo mondo, per i suoi abitanti comuni e “normali”, per i suoi angoli più disparati. Un mondo in cui muoversi con la gentilezza silenziosa di chi non pensa di trovarsi né in un campo di battaglia né in un paradiso terrestre, ma semplicemente in un luogo da frequentare senza protervia e senza fretta.
In copertina: Ivan Fedeli (fonte: www.milanocosa.it)
Ivan Fedeli è nato a Monza nel 1964 e vive a Ornago (MI). Insegna Lettere e si occupa di didattica della scrittura. Ha pubblicato diversi percorsi poetici, tra cui Dialoghi a distanza in Sette poeti del Premio Montale (Crocetti), Virus (ed. Dot.Com.Pres.), A bassa voce (Cfr. edizioni), Divagazioni orobiche (Cfr. edizioni) e, in edizioni a tiratura limitata, Polveri sottili (ed. Fiori di torchio, con incisione di Valentina Persico) e Questo fuggire (ed. pulcinoelefante, con incisione di Carlo Monti). Per i tipi di puntoacapo editrice sono usciti Teatro naturale (2010), Campo lungo (2014) e Gli occhiali di Sartre (2016).