MACBETH: Il Cinema del venerdì – di Francesco Torre

MACBETH

Regia di Justin Kurzel. Con Michael Fassbender (Macbeth), Marion Cotillard (Lady Macbeth), Paddy Considine (Banquo).
Gb 2015, 113’.
Distribuzione: Videa-CDE.


macbeth-2016

Due eserciti disposti frontalmente, immobili. Una galleria angosciosa di volti fumanti, ansanti, quasi demoniaci, pronti a compiere il fatale rito della morte. Nessuna parola, solo un sordo, continuo ronzio industriale e un ritmo di percussioni tribali destinato a tumultuare dopo il grido di battaglia. L’orrore: nel corpo a corpo crudo e violento, enfatizzato dall’uso del rallenty e dalla macabra esposizione di ogni dettaglio cruento, l’aria sembrerebbe quasi funestata dall’odore del napalm, se non fosse che le armi da fuoco non erano ancora contemplate nell’armamentario del tempo. «Non ho mai visto un giorno così brutto e così bello», dichiarerà infine Macbeth, vittorioso sull’esercito del traditore Macdonwald.

E’ un percorso di guerra per i sensi il nuovo, coraggioso adattamento di Justin Kurzel del classico shakespeariano. Inizia e finisce con il combattimento, tra incantesimi mormorati, continui roghi, impalpabili viaggi allucinatori e veloci corse tra i boschi. Si fatica a prendere fiato, soprattutto nella prima parte, e anche quando questo succede ci si sente invischiati all’interno di una cornice sporcata selvaggiamente da eccessi cromatici e ardite invenzioni stilistiche, che richiamano senza soluzione di continuità una dimensione di lotta permanente per la sopravvivenza. Si pensi, ad esempio, al lavoro del truccatore Jenny Shilcore, che avvolge Lady Macbeth, dopo l’incoronazione, di una fascia di colore azzurro cielo non solo sulle palpebre, ma su tutto l’arco degli occhi e delle tempie, un’eco orizzontale alle tre strisce verticali di terra nera che in apertura di film si stagliano, quasi che si tratti di un combattente Maori, sul volto del marito in battaglia. Oppure al disegno delle luci di Adam Arkapaw, che senza particolari artifici – a parte un convenzionale seppiato per incorniciare la presenza delle Sorelle Fatali nella sequenza d’apertura – trasforma il paesaggio scozzese in un’ambientazione talmente primitiva da richiamare l’estetica post-apocalittica del primo Nicholas Winding Refn (“Valhalla Rising”) e definisce l’ambiguità del personaggio di Lady Macbeth con un’alternanza tra bagni di sole (anche in controluce) e tagli di luna, conditi questi ultimi – nella tragica sequenza del sonnambulismo notturno – dalla presenza di una bianca e soffice neve tanto candida e splendente da sembrare un’illusione della mente.

La regia di Kurzel, d’altra parte, è lucida nel perseguire un disegno di rinnovamento della rappresentazione del testo shakespeariano pur rimanendo saldamente all’interno della tradizione. Le soluzioni visive adottate in precedenza da Welles, Kurosawa, Polanski (solo per citare alcune note trasposizioni del Macbeth) gli sono senz’altro note, ma egli adotta uno stile più aggressivo e meno cerebrale. La libertà con cui affronta, insieme con gli sceneggiatori Todd Louiso, Michael Lesslie e Jacob Koskoff, la fonte materiale anche a livello interpretativo, denota una smaccata presenza autoriale, che cerca e trova una sintassi visiva a tratti sorprendente, soprattutto nel dialogo mai banale con altre forme d’arte, come la pittura e la fotografia, spesso evocate ma mai esibite in maniera posticcia.

Certo, la partitura prosegue non sempre con lo stesso vigore. Se Kurzel riesce a rendere immobili ed iconiche le truppe in battaglia, creando momenti di sospensione davvero pieni di tensione (nel ricordo di Macbeth, i tempi della battaglia iniziale subiscono velocizzazioni per poi fermarsi davanti a rigidi fermo immagine), al contrario non sembra così a suo agio nel creare movimento drammatico nella seconda parte, dove il recitato prende nettamente il sopravvento, le idee visive latitano (i due celebri monologhi vengono entrambi rappresentati con un unico primo piano ravvicinato fisso) e la messa in scena si fa progressivamente più statica, quasi illustrativa, per poi riesplodere nel fulgore di un finale disturbante, dall’alto valore simbolico, che sembra guardare ora alle spericolatezze fotografiche di Storaro/Coppola, ora alle magmatiche elucubrazioni di “Sussurri e Grida” di Bergman, situandosi comunque in maniera coerente entro i confini interpretativi della versione di Kurzel, che si contraddistingue per la scelta di voler marcare in maniera più esplicita di quanto faccia il testo originario l’ansia della coppia di tiranni scozzesi per l’assenza di un erede diretto.

La condanna per la mancata genitorialità, infatti, investe nel film prima Macbeth (che indugia dopo la battaglia iniziale nella cerimonia funebre di un piccolo combattente, il cui viso straziato ritorna come angoscioso memento nei pensieri del protagonista proprio nella sequenza dell’assassinio di Re Duncan), poi la consorte (nella sequenza del sonnambulismo, il passaggio dal primo piano al totale rivela la presenza di un bambino), tanto da lasciar desumere che l’ingorda brama di potere di entrambi sia quasi una terapia, un modo terribile per compensare l’infelice condizione di mancanza (volontaria o meno non ci è dato sapere) di prole. Un’ipotesi ancor più suggestiva se pensiamo che uguale sottaciuto presupposto è alla base anche di un moderno classico della lunga serialità televisiva, quell’”House of Cards” che, nel tratteggio dei protagonisti e nella direzione dell’intreccio, mostra più di qualche debito nei confronti del dramma del Bardo. Possiamo dunque realisticamente guardare a Michael Fassbender e Marion Cotillard (Macbeth e consorte) come a dei gemelli diversi (ma nemmeno troppo) di Kevin Spacey e Robin Wright (Frank e Claire Underwood)? Certo, il contesto del grande colosso Netflix (peraltro targato David Fincher) è troppo “georeferenziato” per ambire al carattere di universalità a cui invece l’opera di Shakespeare evidentemente aspira, ma nella versione di Kurzel la Scozia spoglia e desolata per cui ci si gioca la vita, terra senza passato in cui i nobili accolgono i re in accampamenti nomadi, le foreste si bruciano per scorgere i nemici sul filo dell’orizzonte e la partita per il trono non può prescindere da logiche dinastiche non è poi immagine così lontana dagli Stati Uniti degli Underwood: un palcoscenico abitato da fantasmi in cui potere e successo emergono come grandi illusioni, surrogati al senso di responsabilità perduto nei confronti di se stessi, del prossimo e della propria comunità. Un luogo di eterna e fatale dannazione, in cui anche al più forte può capitare di vedersi alla luce dell’alba e riconoscersi – come succede a Macbeth in un passaggio emblematico del film – ombra priva di baricentro, costretta a oscillare senza peso e consistenza in attesa di raggiungere il proprio destino.

Francesco Torre

UNA PARTE DI QUESTO ARTICOLO E’ STATA PUBBLICATA SUL “QUOTIDIANO DI SICILIA”, EDIZIONE DEL 14 GENNAIO 2016.

Rispondi