Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel primo anno di attività. Qui un carteggio-riflessione di Enrico De Lea sulla poesia, pubblicato il 15 giugno 2014.
Ripropongo, con qualche “correzione di tiro” e con qualche decisiva modifica, alcune mie riflessioni, apparse in una precedente nota sul mio blog.
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La creazione poetica rappresenta sicuramente la parte più viva, vivace, ricca di presenze, fertile di intuizioni, della letteratura contemporanea, e non solo in Italia. Noi in particolare soffriamo, oltre che della perdita di nomi come Raboni, Luzi, Sanguineti, Zanzotto, Giudici e, in ogni caso, sia dal punto di vista simbolico che materiale, della cancellazione del poeta come figura pubblica, del suo ruolo “sociale” (cancellazione “consacrata”, ab origine, dall’assassinio di Pasolini), altresì, del sempre maggiore peso – proprio nel senso mercantile, come i “pesi” delle vecchie stadere o bilance – del sistema dei media, che ha scelto “senza scegliere”, in qualche modo ratificando il linguaggio del “cantautore” come unico linguaggio “poetico” ammissibile, linguaggio piano, comunicativo, che non pone problemi, che, in fondo, rassicura, nelle scelte estetiche, formali e di contenuto.
Gli autori di poesia, che abbiano maturato qualche consapevolezza di alterità critico-estetica, rischiano di vivere una sensazione di costante frustrazione, per il sostanziale misconoscimento della loro attività creatrice di realtà, di nuove aggiunte di senso inedito alla realtà…
Certo, coi nuovi strumenti, forniti dal web, le possibilità di diffusione/comunicazione apparentemente si allargano -tuttavia, con l’inevitabile avvertenza di una scarsa capacità selettiva da parte del lettore e di uno scarso senso dei propri limiti da parte di ciascun autore…
Sul punto ho maturato progressivamente un’idea-base: si è poeti in quanto c’è un grumo di parola necessaria da pronunciare, volta ad arricchire di nuovo senso il mondo, a dare la propria irriducibile aggiunta di verità, a ridare ad esso un senso ed un’unità originaria, a prescindere poi dalle possibilità reali di pubblicazione/comunicazione. Dovendosi sempre attenere a quello speciale fenomeno di “decantazione”, che in qualche modo invocava Vittorio Sereni, in una delle sue essenziali prose: “lasciare che la parola scritta parli da sé, posto che ne abbia la forza”.
Aggiungerei anche: una poesia/parola scritta che sia sempre meno distante dall’oralità che ne è la scaturigine comunitaria (significativamente Lello Voce parla di “esilio dalla voce” per molta nostra poesia contemporanea), che non tema la contaminazione tra generi (poesia e musica, poesia e pittura, poesia e teatro), malgrado i rischi di operazioni pasticciate.
La tendenza alla fissazione di un canone è inevitabile, ma irrealistica. Visto il carattere multiforme del panorama poetico nel medesimo periodo storico credo che sconti un normativismo dannoso e poco fedele. Se prendiamo il Novecento, non mi pare che Bartolo Cattafi, Emilio Villa, Adriano Spatola, Cristina Campo, Amelia Rosselli, per citare solo a titolo esemplificativo alcuni autori preferiti, possano farsi rientrare in un canone, eppure c’è in essi la capacità di una “diversa” fedeltà alla tradizione che li rende unici, in cui le regole date sono rivoluzionate, in un irrituale ed “eversivo” rispetto (penso anche ai sonetti di Zanzotto o di Raboni).
Il ruolo del poeta e della poesia nel tempo presente è apparente vano: tuttavia credo che il dualismo di Mallarmé (cittadino-artista) debba essere declinato col fine di riconquistare spazi alla capacità di trascendere, di formulare nuove ed inedite aggiunte all’immaginario sociale, avendo la forza, in primis linguistica, di comunicare una realtà apparentemente non-comunicabile. La responsabilità fondamentale è quella di dire ciò, che con onestà intellettuale, si ritiene “necessario”, fondamentale, irrinunciabile. In tale contesto lo stare insieme dei poeti, il farsi, non “gruppo”, bensì comunità aperta d’esperienze (accomunate, nel nostro caso, dall’appartenenza a un luogo metaforico come lo Stretto e dalle tracce di una koiné meridiana del fare poetico) segnala, oltre ad un antidoto virtuoso contro l‘isolamento e la dispersione, altresì, una scommessa fraterna, un nodo di luce nel passaggio costante dell’apertura alla compresenza, in cui si esalti ciascuna esperienza individuale.
Quest’ultima, irrinunciabile, comporta, al fondo, una certa “trance” creativa, che nasce anche da una lunga consuetudine con la parola, un’esperienza del mondo attraverso il linguaggio, una sorta di ascesi intramondana, che ha qualcosa in comune con l’anacoretismo classico, a prescindere da aspetti confessionali.
Danilo Kis parla del poeta come di uno gnostico-manicheo, che di fronte al caos del mondo nella sua caduta, intende ribadirne/ricostituirne l’unità originaria.
Una poesia che, a partire da dati apparentemente memoriali, archetipici, paesaggistici, storici, etc., in realtà “morda il futuro”, mettendo ordine nella caotica materia del mondo e dell’esistenza, attraverso la capacità di canto che ogni voce possiede. A tal proposito, mi ha sempre affascinato nel parlato siciliano il termine “scantu”, sinonimo di timore, terrore, ma anche, di “ammutolimento” , privazione del canto, e, per converso, il “canto” quale implicito sinonimo di coraggio dello stare al mondo. Ecco, in quest’epoca “scantata”, ammutolita di fronte al dominio dell’immagine vuota, il coraggio dell’esperienza, dell’esperimento della poesia, è quello di affermare una parola irrinunciabile, di autenticità, di pienezza materiale e morale dell’umano.
Così, nel secolo passato, un maestro dimenticato come Giaime Pintor esemplarmente invocava, nello scrivere di poesia (da poeta e traduttore di Rilke e Trakl), e nell’azione collettiva, l’instaurazione di “un rapporto sincero tra gli uomini”.
Enrico De Lea