Siamo davvero un popolo strano di lettori, osanniamo mestieranti di medio calibro, elevando i loro libercoli a summae poetiche ed abbiamo ostracizzato una “voce” potentissima come quella di Alida Airaghi. Voce non “nome” e questo è forse quello che paga, al pari della non dimenticata Guidacci (un parallelismo non certo casuale il mio). L’Airaghi ha scelto la poesia e non ha scelto i poeti, il loro mondo spesso fasullo di chiacchiere e portaborse. Dalla metà degli anni 80 in poi ci ha regalato dei veri gioielli poetici. “L’attesa” appena uscito per Marco Saya Edizioni non è da meno. 5 sezioni, che coprono un vasto arco temporale, comunque tra loro collegati da vari fili e dalla ricerca di una parola che affonda. L’apertura del libro è un richiamo eliottiano di densa scrittura. La spirale del dettato tocca la memoria, sospende i giudizi, attende. Diffonde anche “omaggi”. La Airaghi scava, porta in superficie, non ha paura di mostrare, non si nasconde, è pura poesia. Le altre sezioni si susseguono tra richiami mnestici e domande mai retoriche. Una scrittura tra il quotidiano e il colto, tra il vuoto e l’abisso di noi. L’esergo di ogni singola parte offre una chiave di lettura.
Non la conosco personalmente ma questo numero 100, lo dedico con il cuore a lei e ai suoi versi che negli anni sono diventati miei amici; lei ha dimostrato sempre una umile grandezza non apparendo ma scrivendo e tu che leggi “ascolta la voce distante /che racconta una partita indifferente”.
Il mio primo dolore
me lo ricordo bene.
A tavola, con gesto sbadato,
rovesciai l’acqua dal bicchiere,
sporcai la tovaglia,
e avevo quattro anni.
Il rimprovero della mamma
fu solo un pretesto
alle lacrime.
Non per quello piangevo,
ma per l’improvvisa rivelazione
che tutto passava e finiva:
quel pranzo, il bagnato,
la gente del mondo,
ogni aiuto futuro.
Saremmo invecchiati e poi morti
– nessuna eccezione.
Quello a cui non si deve pensare,
invece a me era venuto in mente.
Se c’è uno che aspetta,
quello è senz’altro il Creatore.
Da miliardi di anni,
in molteplici universi.
Immobile nascosto onnipresente.
Partecipe.
Forse indifferente.
È lì, non si sa dove.
Altrove ovunque in alto:
e aspetta.
Fargli dire parole che non ha detto.
Suggerirgli mentalmente un gesto
mai fatto. Stampargli
sulle labbra un sorriso innamorato.
Mettergli in mano un dono inaspettato.
Che indossi un bel maglione color sabbia.
Porti scarpe di cuoio pesante
con cui muovere passi sicuri.
Sia spettinato come dopo una corsa.
Abbia una voce roca e intenerita.
Possa guardarmi quasi fossi una sorpresa.
E gli occhi (oh, gli occhi!) quelli
dovrebbero essere incantati.
E ironici, e puri.
Presto, mio cavaliere e romeo,
presto, mio trobador fiammeggiante!
Da tutta la vita son qui, in attesa.
Questo abisso
del non accadere
(del non partire, non arrivare):
è quasi meglio
della speranza di un cambiamento.
Si aspetta.
Durante, nel frattempo. Intanto.
Si aspetta. Nel tempo
fisso, e duro,
del disincanto.
Ci si abitua a tutto
(a un lavoro faticoso,
a un amore deludente).
Ci si abitua all’abitudine
e all’indifferenza,
all’attesa di una lettera,
ai rimproveri ingiusti.
Mia cara solitudine
tranquilla, sorpresa
che non arriva mai;
e non fa niente.
«Do I dare?» La paura
di non essere niente, e di avere paura.
Di passare inosservato tra la gente,
o di entrare al ristorante
guardato da tutti:
«È a posto la cravatta?
Puzzerò di sudore?»
La paura della gioia
e dei lutti, di fare l’amore
con una signora elegante,
strafatta di noia.