Marcantonio Pinizzotto ed “Il tempo della Mela” per Laudamo Show Off

di Marta Cutugno

Vedi, l’universo sta qui, nel palmo della tua mano e tu non lo vedi

Messina. La compagna Chiang Ch’ing è condannata a morte. È accusata di aver utilizzato le guardie rosse come esercito privato, di aver fatto una vita da imperatrice, di aver messo le gonne corte ed il rossetto. Amore, rivoluzione e strutture familiari in scena il 31 marzo, alla Sala Laudamo con “Il tempo della Mela” per la regia di Marcantonio Pinizzotto che bene riscrive in chiave tragicomica “Mela” di Dacia Maraini. In un allestimento minimale ma di effetto, con gli oggetti scenici a cura di Simone Di Blasi ed il puntuale gioco di luci, studiato per la pièce da Giovanna Verdelli, tre generazioni vivono, in forzata convivenza, un confronto aspro e leggero. Sul palcoscenico, nonna, madre e figlia, tre donne ed un’esplosione di verità, tre modi completamente diversi di affrontare e mandar giù l’esistenza. Rosaria l’ex sessantottina, Mela, l’amante della vita e Carmen, la ragazzina piena di fisime. Aleggia nell’aria una presenza/assenza maschile che intreccia le loro storie mentre una mela rossa scende giù dal soffitto: “La mela è la centralità che “ha la madre di tutte le madri in questa cosmogonia”, simbolo del tradimento del primo precetto del Grande Autore, del primo atto di trasgressione, e anche del frutto che, reciso, vive, matura e semina”.
Io ho il senso della grandezza delle cose”. Il sogno di una società libera dallo sfruttamento, il rigetto della moralità che “pesa sul fegato” ed è indigesta, la bontà vissuta come una colpa ma anche la decomposizione politica, la dimensione del ricordo sono questioni che la riscrittura di Marcantonio Pinizzotto riesce a mantenere fedelmente vive insieme ai conflitti “tra identità e necessità, rivoluzione e morale, pulsione e ideologia” in adesione alle intenzioni del testo dell’81 senza rinunciare però ad una certa originalità che, nel definitivo ed irreversibile finale, trova sua piena cristallizzazione.

In foto, da sinistra: Gabriella Cacia, Milena Bartolone, Elvira Ghirlanda.

Eccellenti le tre protagoniste che, spesso insieme sulle scene, traggono forza dalla stretta collaborazione ed allo stesso tempo stabiliscono importante crescita nelle personali performances. Gabriella Cacia come Rosaria riserva un’ intensità piena, realizza nello sguardo e nel sentire più intimo l’idealismo e la fermezza del personaggio che interpreta. La vulcanica e disinvolta Milena Bartolone che, come sempre, spiazza per autenticità, è una nonna Mela sempre pronta ad accogliere i piaceri della vita. Elvira Ghirlanda convince nella genuina interpretazione di Carmen, in un crescendo emozionale che ha visibilmente colpito e commosso il pubblico presente in sala. Esperimento riuscitissimo, inoltre, ha visto le attrici nei panni di Rosaria, Mela e Carmen già giovedì 29 marzo presso la Libreria Colapesce, a stretto contatto con il pubblico che ha potuto interagire e rivolgere domande direttamente ai personaggi, un modo “rivoluzionario” per calare la bellezza del teatro nella vita di tutti i giorni.
Dalle note di regia: “La scelta di un approccio critico al testo – ‘tradito’ in alcuni allestimenti recenti -paradossalmente restituisce una fedeltà che si sostanzia esattamente nell’enfatizzazione di zone presenti in esso ma spesso trascurate se non eliminate, in cui, a parer nostro, invece, sono depositate le riflessioni più produttive. L’intensificazione sia della vocazione tragica che di quella comica, trova corrispondenza necessaria in una scena costruita per sottrazione e sostituzione semiotica”.

Non dare retta agli sconosciuti ma soprattutto ai conosciuti controrivoluzionari.

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