Laura Di Corcia, L’epica dello spreco (Appunti per un saggio sul modo biologico dell’epica contemporanea)

laura

 

di Vincenzo Frungillo

3.

 

La raccolta di Laura Di Corcia, Epica dello spreco (Dot. Com Press Edizioni, 2015), è di fatto una dolorosa ricognizione sull’io e i suoi limiti:

 

Il confine tra chi sono e chi non sono

è una palude larghissima,

una radura di acque e di zolfo.

 

Il libro di Di Corcia indica una forma del sé cesellata su materiali ibridi, appena oltre la costante trasformazione, ad un passo dalla liquidità baumaniana.

 

Eppure l’unica via di scampo ce la dà la gelatina

Un po’ meno del ghiaccio, un po’ più dell’acqua:

ed è questo il difficile, permanere

in una forma che il mondo rifiuta, sclerotizzato

fra evaporazioni e sublimazioni,

su pause di ritmo che sono questo e tendono a quello.

La materia, se la ascolti, te lo dice

che la gelatina esiste solo in cucina

che l’io tende a fermarsi su una rigidità,

perché ha paura del risucchio

(lo teme, l’inferno: lo brama – sono le sirene dell’abisso, il pianto antico

che da sempre ci appartiene come un noi ma riflesso –vapore bianco-

come un noi ma vagante).

 

La gelatina è il materiale simbolo di questa raccolta, ci informa di immagini e figure tridimensionali potenzialmente deperibili. Con un immaginario ipermoderno, che fa pensare ad alcune irriverenti opere dell’artista inglese Sarah Lucas o alle sculture di Jessica Lentis, Di Corcia intravede una risposta possibile alla precarietà del contemporaneo. Si pone così in totale opposizione rispetto ai blocchi del coetaneo Luciano Mazziotta, anche se le due immagini, la solidità inscalfibile e la trasparente mollezza, con uguale forza allegorica disegnano un paesaggio ancora privo di vita.

 

Ma tra forma e forma, non sarebbe meglio

Cercarne una non dico perenne, ma minimamente stabile?

La gelatina è la risposta. Ma non è facile

trasformare ciò che è osseo in mollezza,

redimerne la pretesa di esistenza,

trasformare il suo narcisismo in moto continuo.

 

Ah, quanto sono brevi i moti dei fiori,

come subito ti schianti, gloria del mondo! Come scende

la montagna, di botto, dal picco

del proprio sé puntuto.

E sei difficile, porta

Che stai tra essere e non essere,

vita minimale ma forte, forte di nulla,

imbevuta di morte e per questo duratura,

attenta a non essere attenta.

 

Questi versi di grande forza evocativa si posizionano a loro volta in un luogo ibrido, tra lirica e epica, perché se è vero che il tono emotivo è alto, e l’assertività predominante, è altrettanto vero che nelle strofe precedentemente citate si riconosce la lezione di Giancarlo Majorino, lì dove il dettato diventa discorsivo e meta poetico. Il testo, composto di 35 liriche prive di titolo, è infatti un’alternarsi di riflessioni sul sé e successive dispersioni di senso; un pellegrinaggio annotato per stazioni. Il racconto dell’accadimento è un’occasionale perlustrazione delle tappe, non c’è una visione d’insieme del cammino. Questo procedere per prismi di senso accetta anche la necessità dello spreco, lì dove ogni passo è una figura, ogni figura per costitutiva trasparenza ci lascia intravedere quanto è ancor a da raggiungere e come alla fine del percorso ci sia il nulla.

 

La solitudine è il segno infinito che si abbraccia

strozzato in mezzo, spezzato per sempre

 

un colore sbiadito che attende di essere niente.

 

Cercare nel punto più crudo della carne

è allora automatico

e ricordarsi delle gambe

diventa l’unico appiglio

la prassi del giovane pellegrino.

 

L’unico salvacondotto.

 

“La prassi del giovane pellegrino” è “ricordarsi delle gambe”, il movimento stesso è il senso ultimo delle cose, ma stiamo alludendo a un percorso potenziale, la matrice cinetica di “ciò che si spezza nel mezzo”, l’io. Questa condizione è precedente al movimento stesso, è l’immagine, la forma mitica del sé che si spezza nell’azione, nella reiterazione del “moto a luogo”. Perché non c’è per questa generazione la possibilità di riflessione, di composizione formale o anche di un nostos che riporti l’io pellegrino a ritrovarsi con la propria figura. Non possiamo permetterci/ i ritorni: la teleologia ce lo vieta, canta con chiarezza spregiudicata e con forza l’incipit di questo esordio poetico. Di Corcia non sta cantando la sofferenza personale, non ci dice qualcosa circa la sua biografia, o almeno non fa solo questo, ci manifesta la costituzione stessa dell’identità, con gli strumenti del pensiero poetante; interroga con tenacia il simulacro archetipico del sé, tant’è che esso torna lungo il percorso delle liriche sotto forma di “ginocchia”, “gambe”, “petto”, in frammenti che costituiscono l’indizio identitario corrispondente all’essere biologico di nome Laura Di Corcia.

 

Quanto sarebbe meglio, miei fiori appassiti,

piccole parti di me che lentamente decidono di accasciarsi,

seguirvi, verso i fitti sentieri del nulla,

seguirvi, come macchie di terra e impallidire con voi, piano piano […]

 

Di questa figura trasparente, questo simulacro di identità, il vero centro è il plesso solare lì dove si concentra il nodo delle emozioni e delle pulsioni dolorose; solo qui esiste il tocco costante e ripetuto di una presenza, l‘indizio della realtà. Ripartire da qui quindi, dalla patica accettazione del mondo e da qui provare una ricomposizione del tutto. Questo programma minimo è reso con mirabile inventiva poetica nella poesia 30, quasi alla fine del percorso, con un testo che vale la pena citare integralmente:

 

Esiste un modo, uno, per uscire a riveder le stelle

se la materia si sfibra in atomi, se le cose

hanno perso la lucidità del cesello?

 

Non c’è denuncia peggiore

più crudele e legata agli alberi

di quella degli occhi, punture dell’aria

insetti come aghi sul frutto.

 

Ma se li stacchi dalle pareti, dai soffitti,

dalle teste impiccate sul vuoto

(se cerchi di imparare a non aver paura del tanto)

oh, come gli atomi già formano una specie di strada

che sbrana i molti sentieri, accorpa le inutilità:

 

di unicità abbiamo bisogno, di Tasso e non di Ariosto.