I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): “Poche parole che non ricordo più” di Enrico De Vivo

Si potrebbe rubricare l’opera di Enrico De Vivo Poche parole che non ricordo più (Roma, Exòrma, 2017) come un romanzo soltanto per comodità definitoria e per offrire immediatamente al lettore un punto d’appoggio affinché egli possa orientarsi (anche se è proprio l’autore a usare il termine “romanzo” sul finire dell’opera) – ma non ci si aspetti né una trama univoca e facilmente riassumibile, né gli ingredienti del genere romanzo più in voga negli ultimi anni; come primo, necessario passo ci si deve abbandonare totalmente alla lettura (e questo, lo so, potrebbe valere per qualunque libro ci si appresti a leggere), ma il passo successivo, mentre si legge, è proprio il riconoscere e l’apprezzare il fatto che  Poche parole che non ricordo più vada (in maniera anche programmatica) contro le convenzioni narrative cui la gran parte dei lettori è avvezza e contro le idee più vastamente condivise sia nell’ambito culturale che sociale.

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A me sembra di scorgere dietro il solido impianto narrativo e concettuale innanzi tutto l’idea della letteratura carnevalesca elaborata da Michail Bachtin e poi il dialogo continuo che Enrico intrattiene da anni (anche attraverso Zibaldoni) con autori fondamentali e, mi sia consentito dirlo, non convenzionali e capaci di portare avanti una propria e vera ricerca letteraria (ma non solo): Massimo Rizzante, Gianni Celati, Giuliano Scabia, Franco Arminio, e, aggiungerei, Ermanno Cavazzoni e Antonio Moresco – senza dimenticare il magistero walseriano, né quello di coloro che ancora oggi mi appaiono esponenti di una “scuola napoletana” che, dal Cinquecento in poi, è straordinariamente feconda di suggestioni e insegnamenti.
L’io narrante, che costituisce il collante tra le molteplici vicende narrate (o sarebbe meglio dire “rappresentate”, “messe in scena”) e del quale, in realtà, veniamo a sapere pochissimo, imbastisce un libro che riesce a trasmettere al lettore la sensazione-idea della danza, dell’esistere-nel-mondo-e-col-mondo quale moto incessante di danza, ché il dipanarsi delle singole storie simili a fiumi che si dipartono da una medesima fonte e che si avventurano, andando sempre andando, nei paesaggi più vari, possiede come struttura fondante proprio l’andanza del viaggio, del camminare e del muoversi.
L’elemento carnevalesco cui accennavo poc’anzi (molte situazioni e figure sono grottesche o comiche o caricaturali) recupera l’origine stessa del narrare romanzesco, il suo essere un serissimo giuoco di rovesciamento della realtà sociale e politica e culturale, un rabelesiano rappresentare il mondo per riconoscerne la felicità e la libertà nella messa in ridicolo della seriosità luttuosa e demagogica, violenta e autoritaria che governa i rapporti politici, sociali e culturali. De Vivo scrive pagine formidabili e impietose (talvolta paradossali e caricaturali in maniera volutamente esagerata) che mettono alla berlina, sbeffeggiano e condannano comportamenti e meccanismi del mondo culturale – ma il mondo della cultura è parte e riflesso di un sistema politico-sociale altrettanto negativo, inteso a ottundere la libertà personale e nemico della felicità stessa, cioè di quel ritmo danzante e cantante che, secondo l’io narrante, costituisce il vero tessuto dell’esistere.
La ricerca (il libro è una recherche, una quête, un’avventura nel senso, per esempio, analizzato con la sua solita maestria da Giorgio Agamben nel saggio L’avventura, Roma, Nottetempo, 2017), la ricerca, scrivevo, della naturalità che caratterizza moltissimi dei personaggi del libro, il gusto e il piacere del loro raccontare, il loro essere e voler rimanere “ai margini” della società in senso lato (se non, addirittura, da essa scomparire, da essa venirne dimenticati), il loro raccontare che è un cantare e un danzare, tutto questo oltre che carnevalescamente liberatorio è, dal punto di vista letterario, la liquidazione della seriosità (impostata, egotica, velo sul vuoto) che si può riconoscere in molte narrazioni contemporanee.
Rossana allora (l’eterno femminino che sa le ragioni profonde dell’esistere, che le sorregge e nutre), Gargiulo (l’amico d’infanzia “analfabeta ignorantone” e geniale musicista blues, campione di una sorta di docta ignorantia che è istinto del vivere di contro ai contorcimenti verbosi e arroganti dei molti maîtres à penser) sono i due “virgilii” che introducono l’io narrante a un onirico viaggio che si duplica e triplica e quadruplica e via enumerando nei viaggi e nei racconti di viaggi dei numerosi personaggi che popolano le pagine del libro. Il vedere, o meglio, il saper vedere oltre le apparenze è la facoltà imprescindibile, la più importante che possa e debba innervare l’intero impianto narrativo e conoscitivo, dal momento che Poche parole che non ricordo più implica, in fase di sua scrittura e di lettura, un atto di conoscenza nei confronti del sé e del mondo che valica i confini del solo fatto narrativo-letterario. La dialettica mascheramento/smascheramento, apparire/scomparire, ricordare/dimenticare (ed essere ricordati/essere dimenticati) è il motore del narrare (un narrare, ribadisco, non tradizionale né lineare, ma fortemente allegorico e simbolico, visionario e spesso ironico, paradossale e irriverente), figure sovraccariche di senso (il clown, il bluesman, il mimo, il Conoscitore di Mappe, i dimenticati, l’omino rotondo, Torquato Scapece autore di drammi barocchi, Gennaro Di Gennaro piastrellista gran conoscitore di poemi antichi, Giovanni Cardone carpentiere, e tanti altri ancora, ma anche scrittori e poeti come – ne cito solo alcuni e a caso – Anna Maria Ortese, Franz Kafka, Giacomo Leopardi, Giordano Bruno che compaiono e agiscono nel libro di Enrico De Vivo) popolano paesaggi differenti, dalla valle in cui c’è un “piccolo lago di un verde scuro e profondissimo” alla “pianura intervallata da corsi d’acqua che probabilmente erano un unico corso d’acqua che si diffondeva a serpentine tra isolotti collegati l’uno all’altro per mezzo di esili strisce di terra”, dal “campo di patate” ove la notte avevano luogo “rappresentazioni teatrali con musiche rumorosissime” alla cima del Monte Taccaro dove si hanno visioni particolarissime, dal “deserto sterminato di sabbia e arbusti” (ma “affollatissimo di uomini e donne”) al “paese dei mimi” – e leggendo il libro di Enrico mi tornano alla mente i suoi “Saggi inventati”, la bellissima rubrica “fantasticare sui popoli” ispirata a Gianni Celati (ma anche le indimenticabili descrizioni della Pianura Padana e del Delta del Po di quest’ultimo) e pubblicata in Zibaldoni e altre meraviglie, e, sempre su Zibaldoni, gli articoli di “paesologia” suggestionati dalla scrittura di Franco Arminio (e, pure, i personaggi e i luoghi da questi descritti, per esempio, nel suo Vento forte tra Lacedonia e Candela), la geografia fantastica delle Foreste sorelle e dei Ronchi Palù e l’epopea di Nane Oca di Giuliano Scabia, le riflessioni sul romanzo contemporaneo di Massimo Rizzante (leggete, vi prego, leggete un libro fondamentale come Un dialogo infinito – Milano, Effigie, 2015)… Quello messo in atto da Enrico, credo, è un realismo rovesciato: alla descrizione di quanto appare ai nostri occhi si sostituisce la rappresentazione d’una realtà molteplice, cangiante e in continuo divenire la quale, però, sotto l’apparenza del paradosso e del comico, del grottesco e del folle, si disvela soltanto a occhi che sappiano e che vogliano vedere, occhi di chi cerca davvero libertà e affrancamento dalla schiavitù del prosaico quotidiano – e torno in tal modo a riallacciarmi al tema (fondamentale per il libro) della danza e del canto che sono i ritmi, le andanze del pensiero e del sentimento, i cicli del sangue e del respiro, le onde sonore psichiche e culturali capaci di rifondare una socialità e il senso d’appartenenza a una comunità. Ecco: il pícaro di castigliana tradizione, il Wanderer romantico e il Taugenichts (“perdigiorno”), la marionetta secondo Kleist, il flâneur baudelairiano e benjaminiano, ‘o pazzariello della tradizione napoletana, il narratore di fole della cultura emiliano-romagnola, ma anche il clericus vagans del tardo Medioevo, il Narr del Medioevo e del Rinascimento tedesco, i Trasparenti di René Char e della tradizione provenzale, i personaggi e i luoghi di Bolaño, Cortázar e Saramago, e tutte quelle culture ormai quasi irrimediabilmente perdute (la circense, la nomade, la contadina, quella dei giostrai, quella dei saltimbanchi) si materializzano nel libro del carissimo Enrico De Vivo, ma non in maniera nostalgica, no, nient’affatto: siamo di fronte a un preciso richiamarsi alle radici della nostra civiltà traverso l’arte narrativa che è essa stessa, se libera e memore della propria identità, ritmo di danza (cioè di vita), canto (cioè respiro e battito cardiaco), erotismo (cioè amore al mondo).

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Leggiamo pagine che in maniera vibrata si ribellano contro le mentalità mercantili e opportuniste imperanti, per cui nel libro di Enrico s’impara a “viaggiare sulla carta bianca”, cioè a percorrere e interpretare mappe tutte bianche: «Per imparare a leggere le carte», spiega (Il Conoscitore di Mappe, n. d. r.), «basta poco, si può cominciare a studiare una carta qualsiasi, e subito spunteranno fuori nuove terre, popolazioni mai sentite, storie al limite dell’inverosimile, che possono far perdere la strada, è vero, ma possono anche aiutare a ritrovarla. Che cosa ne pensi?». Non sapevo che cosa rispondere. Nell’incertezza, dissi che ero d’accordo, anche perché il Conoscitore di Mappe aveva assunto una strana espressione, fissandomi con due occhi benigni ma strabuzzati. «Le carte, le mappe», continuava, «possono far perdere la strada perché parlano di cose completamente diverse da quelle di cui parlano i giornali e la tv. Ma possono anche farla ritrovare perché facendoci dimenticare dei giornali e della tv, ci fanno accorgere che il mondo non è ancora finito. Anzi», proseguiva sgranando gli occhi sempre di più, e con il dito indice levato, come un vero maestro (ma un po’ pazzo), «è proprio allora che il mondo comincia davvero, quando cominciamo a dimenticarcene!».
Subito dopo aver proferito queste parole, mi ordina di scegliere dal mucchio, a caso, una delle sue carte. Io, non volendo contraddirlo, faccio quello che mi chiede, ma quando mi srotola davanti la carta che ho scelto, mi accorgo che si tratta di una carta completamente bianca, e lo guardo perplesso. Me ne fa scegliere un’altra, ma anche questa si rivela bianca. Un’altra ancora, lo stesso.
Alla fine, dopo che l’operazione si è ripetuta diverse volte, forse impietosito dal vedermi così spaesato e turbato, il Conoscitore di Mappe mi sorride amichevolmente e mi sussurra all’orecchio, senza più strabuzzare gli occhi, ma sempre con il dito indice levato: «Imparare a viaggiare sulla carta bianca…» (pagg. 47 e 48).
Enrico, a paragone delle proprie vastissime letture e dell’impegno ormai molto più che decennale per Zibaldoni, pubblica molto poco e approda a questo poema-romanzo, sogno-visione, una satura lanx dolcissima e divertita, un racconto in cui insegue la leggerezza (ma già i Saggi inventati andavano nella medesima direzione) intesa come ricongiungimento alla gioia istintiva e naturale del vivere, riscoperta della verità secondo cui la vita d’una comunità somiglia a un grande spartito sul quale ognuno, senza costrizione e senza artificiosità, esegue la propria parte in un gioioso atto di coralità.

A seguire propongo ora alcuni brevi estratti dal libro.

Gli esseri viventi, mentre
dolore e sofferenza li travolgono ineluttabilmente, non
possono far altro che intonare ciascuno il suo proprio
canto, che – si scopre ascoltando la Caduta di Varsavia di
Frédéric Chopin – è l’attività più profonda che li riguardi,
o che li riguardi più nel profondo. Il canto con cui ciascun
essere partecipa dell’armonia universale, innervata di do-
lore e sofferenza, è un movimento disinteressato, l’unico
che coinvolga l’interiorità e l’amor proprio non per mero
utilitarismo, ma per una necessità speciale, ossia per spingere
l’individuo a rappacificarsi con il destino comune (pagg. 11 e 12).

 

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Avevo sempre pensato che a Rossana non fosse estranea
l’arte misteriosa (ammesso che di arte si trattasse) che
Gargiulo avrebbe voluto insegnarmi quella sera di dicembre,
quando prima mi aveva parlato di ritmo e cadenze e
poi si era messo a cantare i suoi ideogrammi. Del resto,
erano stati amanti, amanti socratici, a detta di Gargiulo,
in quanto Rossana, novella Diotima, gli aveva insegnato
che non può esserci sapienza senza eros, senza amore dei
fenomeni ai quali dobbiamo continuamente consacrarci.
«Rossana ci aiuta a non vergognarci», diceva il mio amico,
«a provare affetto per tutte le apparenze, anche le più
strambe, di cui invece si vergognano in continuazione
tutti coloro che vorrebbero bastonarci».
Rossana aveva l’aspetto di una maga nordica dall’età indefinibile,
dotata, allo stesso tempo, di tutta la bellezza e
l’inquietudine della gioventù e della vecchiezza. Era questa,
credo, la causa dello stordimento e del leggero capogiro
che potevano colpire chi la incontrava. Lunghi capelli
biondi e lisci le scendevano sulle spalle, il corpo asciutto e
longilineo era illuminato da un volto ovale in cui gli occhi
color del mare sovrastavano un sorriso perenne e spontaneo.
Il suo eloquio era fluido ma esitante, come di chi
parla con accento straniero, e le parole le uscivano di
bocca quasi a fatica, eppure sempre con un tono affabile,
che non metteva mai a disagio. A differenza di Gargiulo,
che pensava dopo aver agito, o nello stesso istante (questo
era forse il motivo che gli dava spesso la sensazione che
tutto dovesse crollare da un momento all’altro), Rossana
agiva e parlava solo dopo aver meditato a lungo, per cui il
mondo era come se lo costruisse lei, con gran criterio, a
ogni passo, a ogni pensata. Gargiulo sosteneva i suoi discorsi
per mezzo delle fragili ragioni del suo sentire: e quand’è
così, si sa, il mondo non può fare a meno di mostrarci gli
abissi della nescienza. Rossana, invece, costruiva il mondo
con i propri pensieri, e dialogare con lei significava aprirsi
a esperienze quasi metafisiche, che avevano il potere di
sanare e rimettere in circolo l’eros che feconda. Gargiulo
stesso l’aveva frequentata per anni, e so per certo che la
reputava una fonte inestinguibile di conoscenza.
Conoscenza di che cosa? Questo, a dire il vero, non lo
so. Lui diceva così, e io mi adeguavo, nella speranza di
poter capire un giorno che cosa volesse intendere di preciso,
anche perché di lui mi fidavo ciecamente, al punto
da definirlo spesso “maestro”, e non solo perché era un
eccelso musicista. Eppure, proprio quando lo chiamavo
“maestro”, Gargiulo si metteva a ridere, dicendo che bisognava
parlare con Rossana di queste cose, lui era un
semplice scolaro, anche piuttosto incapace e asino. Soltanto
Rossana sapeva tutto e poteva insegnare tutto, lui era un
umile pappagallo o un ventriloquo, ma soprattutto – ripeteva
– un grande asino.
Probabilmente anch’io, mentre passavo davanti alle matrone
africane che mi guardavano serie e circospette, avevo
pensato a Rossana perché c’era qualcosa che ancora non
sapevo o di cui dovevo venire a conoscenza. Tornato a casa
dopo aver accompagnato Gargiulo alla stazione, avevo subito
deciso di farle visita per raccontarle quello che mi era
accaduto, incluse le storie sui tradimenti e sulla fine del
mondo, dell’arte e così via.
Rossana viveva in un quartiere popolare della periferia
di Napoli, all’ultimo piano di un palazzo altissimo. Mi accolse
con il solito affetto. Ci sedemmo su delle poltroncine
di plastica sul balcone e, mentre bevevamo del tè, io cominciai
a raccontare. All’orizzonte si scorgeva il Vesuvio,
dai contorni tremolanti stagliati nell’aria umida del tramonto.
Rossana in risposta al mio racconto disse solo
poche parole che non ricordo più. So soltanto che quasi
subito dopo averle ascoltate, caddi in un sonno profondissimo (pagg. 24-26 – il capitolo s’intitola, molto significativamente, “L’eros che feconda”).

 

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Non era chiaro il motivo dello scrutare. Gennaro si avvicinò
cautamente al rudere per captare qualcosa dei
discorsi dei passeggiatori, e fu così che si accorse che
quelle figure avevano i volti di personaggi che gli erano
fin troppo noti. Si trattava nientedimeno che di Marcel
Proust, James Joyce, Franz Kafka, Dante, Cavalcanti… ma
anche di Giambattista Basile, di Vittorio Imbriani, di Anna
Maria Ortese. C’erano – e questa fu la somma meraviglia
– perfino scrittori contemporanei, che non si capiva che
cosa ci facessero lì, loro ancora vivi tra quelli che dovevano,
con tutta evidenza, essere dei fantasmi.
Lungo i bordi del sentiero che costeggiava il rudere e
per il quale passeggiavano i fantasmi degli uomini illustri,
il piastrellista riconobbe l’uomo occhialuto e altissimo che
poco prima gli aveva parlato in modo criptico. Adesso
stava lì a osservare il passeggio con lo stesso stupore quieto
con cui si guarda l’acqua di un fiume, che si rinnova e
cambia aspetto a ogni istante. Con un piccolo taccuino
in mano, prendeva appunti instancabilmente su quello che
riusciva a cogliere dalle conversazioni tra quei personaggi.
Qualche volta si interrompeva in contemplazione della
processione, assumendo un’aria assorta e pensosa, ma poi
subito riprendeva a scrivere, o meglio a trascrivere i frammenti
di conversazione che gli capitava di ascoltare. Di
tanto in tanto, qualcuno lo salutava, qualcun altro gli sorrideva.
Gennaro raccontava che ebbe modo di constatare
che soprattutto Franz Kafka e Curzio Malaparte gli dimostravano
una particolare simpatia, perché addirittura si
fermavano a chiacchierare con lui, ridendo poi tutti assieme
di chissà che cosa.
Ho chiesto più di una volta a Gennaro se era capitato
anche a lui di intercettare dei frammenti di quelle conversazioni,
che dovevano essere senz’altro interessanti. Lui mi
ha detto che la prima cosa che aveva tentato di fare era
stata appunto quella di trascrivere qualche brano dei dialoghi
he si svolgevano tra gli uomini illustri. Si era avvicinato
e si era messo in ascolto, come l’occhialuto con il
basco, ma la delusione era stata grande. Lui si aspettava
chissà quali pensieri profondi, e invece scopriva che quei
magnanimi si raccontavano nient’altro che facezie, aneddoti
e barzellette – tutti, nessuno escluso. Giacomo Leopardi,
dice ancora oggi allibito Gennaro, raccontava dei
fatterelli bizzarri che piacevano molto a Boiardo, anche
lui avido di facezie. Alcuni invece preferivano ascoltare, e
tra questi c’erano Cavalcanti e Giambattista Vico, mentre
Hölderlin conosceva barzellette oscene irriferibili.
Così, dunque, trascorrevano il loro tempo quei grandi.
Ed era questo che probabilmente conferiva loro un aspetto
perennemente allegro e trasognato. Tuttavia, colui che più
di tutti stupiva il mio amico era l’uomo alto e occhialuto,
che in un primo momento gli era sembrato un grande
studioso, e invece altri non era che un trascrittore di facezie.
Era mai possibile? Aveva provato a chiederglielo. «Giovanotto»,
gli aveva risposto l’occhialuto con la consueta
gentilezza, «quelle che a lei sembrano barzellette, sono la
quintessenza della sapienza umana. Questi signori che lei
qui ha la fortuna di incontrare sono stati esiliati dal mondo,
che di loro non sa più che cosa farsene. E sa perché? Perché
quasi nessuno più, nel mondo, ha orecchio per quello
che hanno pensato e scritto. Per lo stesso motivo, quelle
che a lei sembrano solo facezie, per molti secoli sono state
delle grandi verità» (pagg. 97-99).

 

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Bisogna sapere che Felice Sportiello ogni mattina, di
buonora, va a fare footing. Parte che ancora non è l’alba,
lascia la sua casa in campagna e si dirige verso la montagna,
prima a passo sostenuto, poi di corsa. Arriva quasi in
cima al Monte Taccaro quando il primo sole illumina la
valle dove si trova il paese in cui viviamo da quasi cinquant’anni,
cioè da quando siamo nati. È in questo preciso
momento che Felice, solo sul cocuzzolo della montagna,
seduto su un masso a riprender fiato e ad asciugarsi il sudore,
comincia ad avere delle visioni. Mi racconta che
scorge in lontananza, laggiù nella valle, invece dei lunghi
capannoni delle fabbriche di conserve alimentari, sterminate
file e ammassi di alberi che formano come un fitto
bosco. Al posto delle strade asfaltate e dell’autostrada che
corre tutt’intorno ai paesi, vede immensi cespugli punteggiati
da fiori di ogni specie. Ma soprattutto, al posto
della distesa di palazzine e palazzoni che costituiscono
gran parte del paesaggio ordinario da queste parti, c’è una
massa d’acqua immensa a formare un lago di colore verde
smeraldo, che brilla sotto la luce del primo sole con una
forza tale da costringere Felice a inforcare gli occhiali da
sole. Da lassù, il suo sguardo diventa più aguzzo, dice Felice,
e lui riesce a distinguere addirittura le persone e gli
animali che si aggirano in quel paesaggio, anche se non
sono le persone e gli animali che siamo abituati a conoscere.
Ci sono, ad esempio, persone che vanno in giro
senza vestiti o con pochi cenci addosso, e anche persone
che assomigliano stranamente agli animali, con facce canine,
musi porcini, membra feline e posture a quattro o a
tre zampe. Viceversa, si vedono animali che assomigliano
molto agli uomini, come ad esempio cani vestiti con eleganza,
gatti che vanno in giro su due zampe, uccelli con
il sigaro. Tutti, precisa Felice quando mi racconta queste
sue visioni, trascorrono la vita senza darsi fastidio reciprocamente,
anzi, quando si incontrano si salutano con scappellamenti
e salamelecchi, si abbracciano spesso, si
perdono in discorsi fitti e appassionati, e ogni cosa che
accade, ogni avvenimento, assicura Felice, assomiglia a una
cerimonia collettiva. Meglio ancora, è come se tutti danzassero
al suono di una musica che da lassù non si riesce
a sentire, ma che è evidente che c’è, perché le posture raggiunte
dai vari esseri – dai gatti ad esempio su due zampe,
o da certi uomini dall’aspetto animalesco – corrispondono
come alle figure di una coreografia teatrale ritmata
con sapienza.
«In effetti, questo racconto sembra un’invenzione un po’
teatrale», ho obiettato a Felice mentre eravamo seduti su
una panchina, «neanche tanto verosimile, con il gatto che
cammina su due zampe e gli uccelli con il sigaro». Lui mi
ha guardato sorridendo sarcastico. Ci ha pensato un po’ su,
quindi mi ha risposto che all’inizio anche lui pensava che
si trattasse soltanto di scene immaginate. Poi, però, si è autoanalizzato
(ha detto proprio così) e ha osservato che lui
in fondo droghe non ne prende, è un normale padre di
famiglia e al lavoro non ha mai avuto problemi – di che
cosa si dovrebbe preoccupare? Di scoprire che, visto da
quella lontananza, e dunque sotto un’altra luce e da un’altra
angolazione, il mondo ha un altro aspetto? «C’è una
cosa molto semplice che voglio farti notare», mi ha spiegato
quel giorno, mettendosi seduto di sguincio sulla panchina.
«Se guardi il mondo da molto lontano o da molto
vicino, ti accorgi subito che nonostante la deformazione
prospettica, o forse proprio a causa di essa, tutto ciò che
appare ti dice una specie di verità. Forse non essendo più
a distanza di sicurezza, i pensieri consolidati, quelli che solitamente
ti orientano ma ti annebbiano anche la vista e il
comprendonio, all’improvviso non servono a niente. La
deformazione ti mostra immagini e suggerisce pensieri
che non avevi mai avuto prima, dall’evidenza tanto veritiera
che ti sconvolgono, come io sono rimasto sconvolto
dal paesaggio intravisto dalla cima del Monte Taccaro».
A questo punto, Felice faceva una breve pausa, soffermandosi
a osservare gli aghi secchi di pino sparsi ai nostri
piedi. Poi ne raccoglieva qualche mazzetto e riprendeva:
«Se invece guardi il mondo da dove ti dicono di guardarlo,
ovvero dalla distanza di sicurezza da cui solitamente lo
guardano tutti, non ci vuole molto ad accorgersi che dice
solo menzogne di conferma allo stato delle cose, presunto
immobile. Ma le cose non stanno mai ferme, non sono
mai statiche!», sentenziava alzando leggermente la voce,
mentre lanciava in aria gli aghi secchi di pino, che ricadevano
un po’ sulla nostra testa, un po’ per terra. «Quello che
tu racconti della valle del lago mi stupisce perché si sente
che si tratta del mondo visto come l’ho visto io, ossia da
un’altra distanza, e dunque con una verità cangiante al suo
interno. Per me è la conferma che non sono solo e che
non sono pazzo, o almeno vuol dire che siamo almeno in
due a non sopportare le menzogne di tutto quello che ci
sta intorno» (pagg. 111-114).

 

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Le fotografie che corredano l’articolo sono di Pavel Pecha, provengono dal suo sito e restano di proprietà dell’autore; i passi del libro riportati sono pubblicati con l’autorizzazione dell’Editore.

 

 

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