I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): Lisbona, ancora

Lisbona si prende tutto lo sguardo nella sua ascesa inarrestabile di finestre e tetti, di colori e di luce. Lisbona chiama i ritorni, innamora la mente.

Ma non sono un turista e voglio scrivere su carte fatte di luce e di distanza: quelle di chi fin qui giunge per conoscere e quelle di colui che qui si riconosce a casa.

 

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Vado (a piedi e lentamente) dalla Stazione del Rossio, nella quale da decenni in migliaia ogni giorno si arriva nella Città Cromatica per lavorarvi, fino alla Praça das Amoreiras e lì, nell’ombra radiante e fresca degli alberi, sotto gli archi di pietra dell’antico acquedotto, cerco il sorriso cordiale degli amici, quasi che Maria HelenaArpad possano veramente tendere verso di me entrambe le mani in segno di benvenuto.

Carte tra veglia e visione, tra sguardo e immaginazione: Arpad e Maria Helena sono ora i dipinti stessi che, nelle stanze luminosissime, restituiscono Lisbona (ma su di una grande, bianca parete, c’è anche New York e una stanza dalle tredici porte, un vascello fantasma che traslucido compare all’orizzonte e la nebbia di Londra), Lisbona accesa di vento, di fiume, di terrazze, ascesa inarrestabile di vetri trascoloranti e tetti.

Un antico setificio ospita, ai numeri civici 56 e 58 di Praça das Amoreiras, la Fondazione Arpad Szenes / Vieira da Silva, bianco edificio d’armoniosi spazi. Alle pareti alcune opere della coppia e, dopo aver attraversato Lisbona nella luce della mattinata, si riconosce la Città risplendere ancora e di nuovo nei colori ascensionali di Maria Helena, nell’amore per il mare di Arpad (lui, Ungherese, originario di una terra che non conosce il mare!) Lego il mio pensiero a questa coppia sia per ammirazione per l’arte di entrambi, che per la totalità del loro amore: tra le molte foto ne ho vista una nella quale essi siedono, l’uno di fronte all’altra, nella casa natale di Maria Helena, nell’Alto de São Francisco, il caminetto acceso e luci assieme a ombre ad accompagnare l’intenso colloquio di silenzi e di sguardi; in un’altra guardano Lisbona dal Miradouro de São Pedro de Alcántara e sono, i loro, sguardi di pittori capaci di superare l’apparente, di vederne le tramature celate.

 

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Antifascisti e libertari, Maria Helena e Arpad conoscono molti anni d’esilio dalle loro terre d’origine; la loro umanissima arte li porta a intrecciare rapporti d’amicizia e di collaborazione con scrittori e altri artisti: René Char scrive i suoi “neuf merci à Vieira da Silva” proprio perché il Capitano Alexandre della lotta di resistenza e lo scrittore engagé nella Francia postbellica sono la medesima persona e la minuta pittrice portoghese dai grandi occhi neri non ha remore a difendere, con la sua arte, la libertà e la democrazia. Per il 25 aprile 1974, giornata della “Rivoluzione dei garofani”, giornata in cui finalmente giunge la liberazione del Portogallo dalla dittatura, ella dipinge un quadro il cui titolo è un verso di Sophia de Mello Breyner Andresen, “a poesia está na rua“:

 

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La poesia, cioè il fare dell’arte che è arte di tutti e per tutti, aggrega la pittrice, la poetessa e il popolo e l’azzurro inconfondibile, ricchissimo di tonalità, l’azzurro che è il vento di Lisbona e il Tago, la luce riflessa sulle mattonelle delle facciate, è quello di Maria Helena, gioiosa affermazione di vita e di lotta.

Ma nella medesima Piazza dei Gelsi c’è poi, inaspettata, la scoperta: è la Mãe d’Água, l’immensa cisterna di pietra, la madre delle Acque che accoglie e raccoglie colei ch’è preziosa oltre ogni dire, nella sacralità dello spazio interno la cui musica è il gocciare della fonte, bellezza poi della terrazza amplissima nella e sulla luce della Città Speziata, fresco andare dei cunicoli che portandovi l’acqua dissetano i quartieri.

Nel nome dell’acqua si conclude questa prima pagina di vento e di luce, parole originariamente d’inchiostro, ritmo di parole dedicate alla sete per una casa ch’è anche una città.

E si apre la pagina seconda, quasi testo a fronte, luogo doppio, specchio e rimando, eco e nuovo andare.

Cito dal Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa nella traduzione di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre (UE Feltrinelli, 2013): “Ma amo il Tago perché sulla sua riva c’è una grande città. Assaporo il cielo perché lo vedo da un quarto piano di una strada della Baixa. Non c’è niente che la campagna o la natura mi possono dare che sia pari alla maestà irregolare della città tranquilla vista dalla Graça o dal belvedere di S. Pedro de Alcántara sotto la luna. Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole” (pag. 75). Queste cose e molte altre scriveva Bernardo Soares nella sua stanza al quarto piano di una casa in Rua dos Douradores, dalla cui finestra osservava Lisbona trascolorare e la vita scorrere, impermanente.

E prendo in mano, inserisco nel lettore il cd di Mariano Deidda Nel mio spazio interiore. Ecco la tromba di Enrico Rava, la fisarmonica di Gianni Coscia – le parole di Pessoa cantate da Deidda che ha dedicato al Poeta tre complessi lavori.

“Una volta ancora ti rivedo
Lisboa e Tejo, e tutto
viandante inutile di te
inutile di me.
Straniero qui come dappertutto
casuale nella vita come nell’animo.
Fantasma errante in sale di ricordi
al rumore dei topi
e delle tavole che scricchiolano
nel castello maledetto
nel castello maledetto
del dover vivere”

 

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Ho chiamato Lisbona prima Città cromatica e poi speziata: ecco, Città Speziata (gewürzte Stadt) è straordinaria invenzione di Ingeborg Bachmann riferita a Napoli: ma sono molte le Città Speziate di cui ho memoria e che lasciano nella mente il medesimo sapore di luce marina e d’intonaci come meridiane sulle quali il cielo e gli sguardi hanno unito la loro attesa: Atene, dove la gente sembra ancora vivere “fuori casa”, come nella tradizione mediterranea, chiacchierando ininterrottamente e godendo del piacere fisico e appagante della parola; Siracusa, che sfavilla dell’oro della sua pietra in Ortigia, profumando degli odori d’una cucina ricchissima e saporita e che, in quella sua Piazza a forma d’occhio, perpetua lo slancio del guardare per conoscere e del conoscere traverso la fisicissima luce che sale dal mare; Granada, da dove, malgrado tutto, né Arabi né Ebrei sono andati veramente via; Arles che qui mi piace ricordare legata al nome del fotografo Lucien Clergue, maestro del bianch’e nero e della conversazione tra luce e ombra e fondatore dei Rencontres d’Arles –  rencontres/incontri, appunto, nel cuore di un’Europa che si sta allontanando sempre più da sé stessa, avvitandosi in un autismo catastrofico; e Lisbona, infine, mediterraneo avamposto di fronte all’Atlantico, atlantico transoceanico navigare incontro al Mediterraneo.

E mi sia permesso qui richiamare la natura d’incontro e di scambio che anima e motiva i Carteggi letterari, spazio ospitale del dire e dell’ascoltare, dove la città di Messina, figlia dello Stretto, è porta per un transito dal continente all’isola e dall’isola al continente, in un passaggio ininterrotto di lingue e d’individui.

 

Le prime tre immagini che corredano l’articolo provengono dal sito della Fondazione Szenes/Vieira da Silva di Lisbona, la quarta dal sito di Mariano Deidda.

 

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