Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Julian Barnes, “Il rumore del tempo”, Einaudi, 2016

di Daniele Greco

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Julian Barnes, Il rumore del tempo, Einaudi, 2016

Volutamente frammentario fin dall’inizio, con brevi frasi che si alternano a paragrafi e brani più lunghi, in una scansione non cronologica delle vicende, il nuovo romanzo di Julian Barnes (Il rumore del tempo, Einaudi, 2016) prova a mimare fin dalle prime pagine la “cacofonia di suoni nella sua testa” (p.10) di Dmitriij Ŝostakoviĉ, il grande compositore russo, che per un periodo della propria esistenza ha vegliato in piedi, sul pianerottolo di casa, nell’attesa di essere prelevato dalla polizia sovietica e avendo come unico scopo quello di risparmiare la famiglia da una simile onta.

La sua colpa? Avere scritto un’opera (Una lady Macbeth del distretto di Mcensk), eseguita il 26 gennaio 1936 alla presenza di Stalin, e il giorno seguente bollata sulla «Pravda» col titolo eloquente di Caos anziché musica. Giudicata dall’anonimo estensore dell’articolo – molto probabilmente lo stesso Stalin – “borghese”, “morbosa”, “volgare”, tacciata di avere successo all’estero e di essere lontana dalle prescrizioni leniniste per cui l’arte doveva servire il popolo; l’opera e la sua prima rappresentazione sono il momento esatto in cui un compositore come Ŝostakoviĉ diventa un “nemico del popolo”.

Partendo dalle fonti più accreditate sulla vita del compositore russo – citate nella “Nota dell’autore”, pp. 189-191 – e rispettandone la veridicità, Julian Barnes monta in maniera personale la vita di un “uomo ridotto in innumerevoli frantumi” (p. 161).

Barnes non focalizza la narrazione su quello che potrebbe essere considerato un martire del regime comunista, perché è interessato a mostrare la dolente umanità di chi, avendo convissuto col terrore cronico di sapersi costantemente in pericolo, si vede costretto a diventare forzatamente un “vigliacco” anziché un “eroe” (p. 164); un uomo disposto anche ad annullare se stesso e diventare un servo sciocco del regime, pur di salvare la propria famiglia e la propria musica.

Quando comporrà la Quinta sinfonia, l’opera sarà considerata una celebrazione dello stalinismo, invece nelle intenzioni dell’autore, colte solo dai critici più acuti, questa doveva essere con le armi dell’ironia musicale una critica spietata ai crimini sovietici. Alla morte di Stalin, però, non cessano i suoi problemi col regime, perché al terrore e alla censura subentra la sovraesposizione mediatica che lo trasforma – suo malgrado – in un’autorità assoluta del suo paese.

Quelli che sotto Stalin erano “ordini” diventano “consigli”, sotto Cruscev, ma la sostanza non cambia e Ŝostakoviĉ – per come ce lo mostra Barnes – deve affrontare il castigo di sapersi imprigionato in un’immagine pubblica che non aderiva affatto al suo mondo interiore e ai propositi della giovinezza.

«Chi lo conosceva, lo conosceva. Chi aveva orecchio poteva sentire la sua musica. Ma come poteva apparire a coloro che non lo conoscevano, ai giovani che cercavano di capire come funziona il mondo? Come avrebbero potuto non giudicarlo? Del resto, che impressione avrebbe fatto ora al se stesso di un tempo, se da un marciapiede avesse visto la sua faccia spiritata passare a bordo di un’auto dello stato? Forse era questa una delle tragedie che la vita ordisce contro di noi: che sia nostro destino diventare in vecchiaia ciò che in gioventù abbiamo più disprezzato» (pp. 168-169).

Tutto questo e molto altro è Il rumore del tempo, e seguendo la tessitura romanzesca di Julian Barnes è possibile ricostruire il dramma umano di un uomo per il quale i silenzi, gli atti mancati e il non detto hanno rappresentato una parte drammaticamente importante della sua esistenza e che, ricostruite pazientemente dallo scrittore inglese, oggi possono consegnare al lettore la figura di un artista straordinario e di un uomo complesso, ma soprattutto e – questa è la chiave dell’intero romanzo – possono restituire definitivamente Ŝostakoviĉ a Ŝostakoviĉ stesso.


In copertina: Julian Barnes (Photo © Graham Jepson)

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