Le parole della fine – a cura di Laura Liberale e Giovanna Zulian – Pitagora

Pitagora, di Claude Aveline

(traduzione di Giovanna Zulian)

 

Gli utilizzatori della carriola sono più numerosi dei lettori dei Pensieri di Pascal. Possiamo affermare parimenti che il teorema riprodotto – se non concepito – in questi indimenticabili versi:

Il quadrato dell’ipotenusa
è uguale, se non erro,
alla somma dei due quadrati
costruiti sugli altri lati,

dicevo, possiamo affermare che questo teorema e questi versi sono presenti nelle nostre memorie più dei Versi d’oro di Pitagora, benché questi ultimi non siano molto numerosi, settantuno in totale, per giunta apocrifi.
Eppure tutta una religione è nata da questo breve vangelo (parlo dei Versi d’oro). Al punto che i suoi adepti fecero di Pitagora un dio, figlio di Apollo o Apollo lui stesso. Qualche storico ne ha concluso che non sia mai esistito. Ma, dato che ci sono delle Vite di Pitagora, abbiamo tutto il diritto di evocarne la fine.
La collochiamo intorno all’anno 500 a. C. – dunque un secolo prima della morte di Socrate. Pitagora aveva settant’anni e abitava in Italia, a Crotone, nota per i suoi atleti, tra i più celebri dei quali Milone.
Fu questo Milone, un giorno in cui Pitagora istruiva i suoi discepoli in una stanza la cui colonna si frantumò improvvisamente, a sostenere il soffitto il tempo necessario a evacuare l’assemblea. Che si trattasse poi del giorno in cui i crotonesi incendiarono la casa, non ho certezza. Poco sensibili alla dottrina di Pitagora, essi guardavano con sospetto le pratiche, il segreto delle cerimonie, la severità delle regole, il silenzio assoluto al quale erano sottomessi i neofiti durante i cinque anni di noviziato, la messa in comune di tutti i beni, la veste bianca uguale per tutti, il culto di cui il maestro era l’oggetto.
Modesto per certi versi – fu il primo a rifiutare il titolo di saggio e a non volere che quello di amico della saggezza, di filosofo – Pitagora non ammetteva in effetti che un punto di vista, il suo. Se un profano si permetteva di avanzare ai discepoli delle obiezioni, si meritava una sola risposta: “L’ha detto il maestro”. La sua scienza era notevole. Si consacrò alla matematica e all’astronomia. Costruì la tavola della moltiplicazione. Insegnò che la terra era rotonda, abitata ovunque, e che girava su se stessa giorno e notte. Redasse delle leggi per la gente che si recava da lui chiedendole. Da un lungo viaggio in Oriente riportò un gusto per il mistero che si manifestava nel suo stesso aspetto. Non rideva mai, parlava poco a voce alta e mostrava un’impassibilità che la collera turbava raramente. Di più, si rifiutava di punire chicchessia, “nemmeno uno schiavo”, sottolineano con ammirazione i suoi biografi. Non avrebbe potuto farlo senza tradire la sua dottrina. Predicava l’immortalità dell’anima e la metempsicosi. Non temeva di affermare di ricordare le sue stesse incarnazioni, con gli eventi che si erano verificati dall’origine del mondo. Era stato quindi il figlio adottivo di Mercurio, poi un personaggio illustre della guerra di Troia, poi il filosofo Ermotimo, poi un pescatore. Era stato anche un gallo e un pavone. La possibilità per l’anima di entrare in qualsiasi animale gli imponeva di vietarne l’uccisione. Al mercato, si recava ad acquistare pesci e uccelli solo per restituirli al loro elemento naturale. Rispettava altresì certi ortaggi. E questo rispetto gli fu fatale. Come ho detto, la popolazione dei Crotonesi si era rivoltata contro di lui. Un uomo che si faceva passare per dio, che pretendeva di conoscere tutto, perfino gli inferi, che organizzava delle sette ciecamente disciplinate e faceva delle leggi, doveva nutrire l’ambizione di rovesciare i poteri stabiliti. I Crotonesi incendiarono la casa di Milone. Pitagora fuggì con una quarantina di discepoli. Nella loro fuga s’imbatterono in un campo di fave. Pitagora avrebbe dovuto attraversarlo. “Meglio morire qui”, disse, “piuttosto che far perire queste povere fave”. E si sedette sul bordo del campo. I Crotonesi non ebbero che da massacrarli, lui e i discepoli.
Alcuni raccontano che Pitagora sarebbe morto di gioia per aver scoperto il suo famoso teorema. Ma sono dei buffoni.

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