LE PAROLE DELLA FINE
Intorno all’amore, di Claude Aveline
(traduzione di Laura Liberale)
Sinorige, racconta Plutarco nel suo Trattato delle virtù delle donne, Sinorige, potente signore di Galazia, concupiva Camma, sposa di un altro importante personaggio, Sinato, che egli fece assassinare. Poi la chiese in moglie. Ella accettò. Quando si celebrò il rito davanti all’altare di Diana, essi bevvero, conformemente alla tradizione, dalla stessa coppa. “Io ti prendo a testimone”, disse allora Camma alla dea, “che se sono sopravvissuta a mio marito è stato solo per vendicare la sua morte. E tu, Sinorige, il più malvagio degli uomini, ordina ai tuoi amici di prepararti una tomba al posto del letto nuziale!”. Ella aveva avvelenato la bevanda. Sinorige morì il giorno stesso, Camma l’indomani.
Non è molto per la Grecia, ma dei romani famosi ci chiamano.
Quando fu vinto da Ottaviano e Antonio nella piana di Filippi, Bruto, assassino di Cesare, si gettò sulla sua spada dopo aver citato Euripide:
Virtù, vano nome, vana ombra, schiava della fortuna, ahimè! Io ho creduto in te!
Citazione che la leggenda trasformò in: “Virtù, non sei che un nome”. E Porzia, sua sposa, a cui si chiedeva: “Quando smetterai di piangere?”, rispondeva: “Quando smetterò di vivere”. Le avevano sottratto tutto quel che poteva servirle allo scopo; lei inghiottì dei carboni ardenti.
Dodici anni dopo, Antonio, assediato da Ottaviano ad Alessandria e abbandonato dai suoi soldati, si sentì annunciare che Cleopatra era morta. Avvisò il suo liberto dal nome predestinato, Eros, e gli ordinò di pugnalarlo. Eros preferì uccidersi. “È ammissibile”, disse Antonio, “che io apprenda il mio dovere da una donna e da un liberto?”. Ma, nell’istante in cui si ferì a morte, qualcuno venne a rettificare la notizia: Cleopatra era ancora viva. Egli si trascinò sotto la sua terrazza, e lei gli fece gettare delle corde per issarlo a sé. “Muoio contento”, disse lui, “poiché muoio tra le braccia della mia amata Cleopatra”. Aggiunse: “Dimentica la deludente fine della storia. Porta benevolmente il pensiero ai tempi lieti in cui, su tutta la terra, nulla v’era di più forte, di più nobile di me. Muoio senza vergogna, romano sconfitto da un romano, e non è a un nemico della patria né vigliaccamente che oggi cedo la mia spada. Il respiro m’abbandona, sono alla fine”. Shakespeare, fedele alle fonti, ha copiato queste ultime parole.
Quarantaquattro anni dopo, Ottaviano, divenuto Augusto imperatore, morì in tutta la sua gloria tra le braccia della sposa, dicendole: “Livia, ricorda la nostra unione, vivi e sii felice”.
Augusto aveva settantasei anni. Il che mi fa pensare ad altri due vecchi mariti, un re e un drammaturgo.
Benché avesse superato da poco la cinquantina − ma nel XV secolo un cinquantenne era considerato vecchio − Luigi XII era alla sua terza moglie, la giovane principessa Maria, sorella di Enrico VIII. Morì tre mesi dopo le nozze, dicendole: “Diletta, come regalo vi offro la mia morte”. Lei non sperava altro. Quanto a William Wycherley, due secoli dopo, drammaturgo inglese dal vivo senso dell’umorismo, a settantacinque anni si era appena sposato per la seconda volta, anche lui con una giovinetta, e aveva potuto dilapidare la sua dote. Saggiamente le disse: “Promettimi che non sposerai mai più un vecchio”.
Citerò delle parole più appassionate. Adrienne Lecouvreur, illustre attrice, che il curato della sua parrocchia sollecitava a pentirsi, mostrò il busto del maresciallo di Sassonia, per il quale tanto aveva fatto e che l’aveva abbandonata, e disse: “Ecco il mio universo, la mia speranza e i miei dèi!” Ciò che le valse, da parte della Chiesa, il rifiuto di una sepoltura cristiana.
La contessa di Parabère era la favorita del Reggente. Egli era morto nel 1723, e noi ci troviamo nel 1750. La contessa disse a monsieur de Montluzun, che non nascondeva la sua disperazione: “Martial, vi ho amato, ma ho amato il Reggente. Vi amo ancora, ma so che se lui mi chiama lassù, ci andrò…”.
Madame Crébillon, moglie di Crébillon padre, autore tragico, fu da lui trovata, una sera, quasi svenuta. Aveva visto un fantasma. Crébillon tentò di convincerla d’essere stata ingannata dal movimento di una tenda.
“No, no, era la Morte. L’ho riconosciuta poiché non è la prima volta che viene da me. Ah! Mio caro, con che dolore e sgomento andrò a coricarmi sotto terra! Se mi ami come io amo te, non lasciarmi mai più, neanche per un istante, aiutami a morire. Se sei qui, crederò di addormentarmi”. L’indomani: “È finita. Senti, il mio cuore batte troppo forte perché possa continuare. Ma muoio senza lamentarmi poiché le tue lacrime mi dicono che ti ricorderai di me”.
Delle tre donne celebri per i loro salotti nemici, madame du Deffand, madame Geoffrin e Julie de Lespinasse, fu la più giovane a morire per prima, divorata dalla passione per un bel colonnello che tutti credevano assolutamente geniale e che aveva dieci anni meno di lei: il conte de Guibert. È lui ad aver ispirato a Julie questo biglietto memorabile, datato “Ogni istante della mia vita”: “Amico mio, io soffro, vi amo e vi aspetto”. L’ultimo giorno, in un’agonia dolorosa che l’oppio non riusciva a calmare, ella gli scrisse: “Ah! Amico mio, fate che vi debba il riposo: per carità, siate crudele per una volta. Mi spengo, addio”. Quindi svenne. Rianimata per un istante dalla sua cerchia, mormorò: “Vivo ancora?”. Aveva quarantatré anni.
Le due più “anziane”, maliziose, mordaci, apparentemente insensibili, nutrirono, e l’una e l’altra, una specie d’amore assai simile a quello che madame de Sévigné aveva provato per sua figlia, e adeguato alla loro età: madame du Deffand per Horace Walpole, madame Geoffrin per Stanislao Poniatowski, diventato re di Polonia. Madame du Deffand morì incosciente a ottantatré anni. Cieca da molto tempo, aveva dettato al fedele segretario Viard la sua ultima lettera a Walpole. Gli annunciava la fine prossima. “Non ho la forza di esserne spaventata, e non dovendovi più rivedere, non ho niente di cui rammaricarmi.” Ma aggiunse: “Voi mi rimpiangerete, perché si è ben contenti a sapersi amati”. Allora accadde l’inatteso, che Viard doveva in seguito raccontare a Walpole: “Non so dirvi la pena provata scrivendo sotto dettatura questa lettera: non potei mai finire di rileggerla dopo averla scritta; avevo la voce rotta dai singhiozzi. Lei mi disse: Dunque mi amate!”.
Madame Geoffrin, che aveva settantotto anni, era paralizzata. Quando fu alla fine, riacquistò improvvisamente l’uso delle dita, il tempo di scrivere a Stanislao: “Vi ho amato con tutto il cuore”. Sconvolta, disse: “Gli ultimi caratteri che questa mano ha tracciato sono stati per lui”.
Alla fine del secolo, Charles Bonnet, ginevrino e filosofo come Rousseau, sostenitore della resurrezione mediante metamorfosi − da lui chiamata palingenesi − di tutti gli esseri animati, disse a sua moglie: “Dio mi ha concesso l’enorme grazia di congedarmi dal mondo prima di voi. Il pensiero di sopravvivervi mi ha sempre fatto rabbrividire; vi lascio ma sento che devo godere tuttora della gioia di amarvi”.
Chateaubriand ha riferito in dettaglio la morte di Pauline de Beaumont, il 4 novembre 1803, a trentacinque anni. L’aveva portata a Roma per curarla. Ella temeva di non poter superare il giorno dei Morti; che fosse ancora viva due giorni dopo le parve rassicurante. Il turbamento di Chateaubriand e la pietà severa di un medico si fecero carico di disilluderla. “Non credevo proprio che sarebbe stato così veloce”, disse. “È dunque il momento di dirvi addio”. Ricevette il suo confessore, poi i sacramenti. Quando Chateaubriand tornò al suo capezzale: “Allora”, gli disse, “siete soddisfatto di me?”. Lei lo amava, lui non l’amava. Osò scrivere nei Mémoires: “Un’idea deplorevole venne a turbarmi; mi avvidi che madame de Beaumont non aveva sospettato del mio sincero attaccamento per lei che al momento del suo ultimo respiro: non cessava di mostrare la sua sorpresa e sembrava morire disperata e rapita”. Egli testimoniava tale attaccamento un po’ tardi, a meno che non fosse commosso più dalla morte che dalla moribonda. Lei gli disse che sentiva l’avvicinarsi dell’agonia. “Di colpo, scostò la coperta, mi tese una mano, strinse la mia con una contrazione; gli occhi si persero. Con la mano libera, faceva dei segni a qualcuno che vedeva ai piedi del letto; poi, riportandosela al petto, diceva: È qui. Costernato, le chiedevo se mi riconosceva; un accenno di sorriso apparve in quello smarrimento; mi fece un lieve sì con la testa: la parola non apparteneva già più a questo mondo”.
Circondata dai suoi bambini, la marchesa de La Fayette fece chiamare suo marito, il famoso generale. “Quanto sono stata felice!”, gli disse, “Che privilegio, essere vostra sposa!”. Poi gli domandò: “Siete un buon cristiano?… Ah! No, lo so, prima di tutto voi siete un fayettista”. “Anche voi, credo”, rispose il generale. “Sì, e avrei dato la vita per la coalizione, ma prima di tutto si deve essere un buon cristiano.” Morì tenendogli la mano e dicendogli: “Sono tutta vostra”.
Quando l’imperatrice Giuseppina morì di angina infettiva alla Malmaison, il 29 maggio 1814, Napoleone era da otto giorni all’isola d’Elba e furono delle truppe russe a rendere gli onori al corteo funebre. Spirando, lei aveva mormorato un nome: “Napoleone…”. Si dice talvolta che vi aggiunse quello di Maria Luisa. Aveva il diritto di esserne ossessionata. Sette anni dopo, in un’altra isola, Napoleone, delirando, griderà: “Francia, esercito, Giuseppina!”.
Il 23 luglio 1856, Clara Schumann ricevette un telegramma: “Se vuole vedere suo marito ancora vivo, si affretti”. Proveniva dal manicomio in cui Schumann, da due anni, dopo aver tentato di suicidarsi, aveva recluso volontariamente la sua follia. La coppia più unita del mondo si ritrovò per qualche giorno. “Mi sorrise”, disse Clara, “e con grande sforzo mi circondò con un braccio. Non scambierei questa stretta con nessun tesoro al mondo”. Lui non poteva parlare. Eppure, alla vigilia dell’agonia, sussurrò: “Mia Clara… io so…”.
Nella sera del 31 dicembre 1882, Gambetta, che si sentiva morire, non smise di chiedere l’ora: voleva vedere la fine di quell’anno “abominevole” in cui il suo potere era stato rovesciato. Disse a Léonie Léon, la compagna: “Che triste fidanzato sono!”. Lei rispose: “Amatissimo di più”. Delirio e lucidità irrompevano a turno nella sonnolenza. “Mamma!” (era morta sei mesi prima), “Ah, vieni a cercarmi”. Ma, nel riconoscere il più caro dei suoi discepoli, Spuller, che aveva recentemente fatto ministro: “Mio buon Spuller! Domani, mia Léonie… Il nostro matrimonio… Tu sei il testimone”. D’un tratto, fu riafferrato dal suo altro amore. “La Francia… Difesa nazionale! Coulmiers… Chanzy… La Patria in pericolo… la mia Repubblica… Silenzio! Ascoltate!”. Che cosa udiva? Non pronunciò più una parola e morì a mezzanotte meno cinque.
“Più forte della morte” era il titolo di un romanzo della stessa epoca. Più forte di essa in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Ciascuno di noi può scegliere l’esempio che gli pare più probante. Ecco il mio. Dobbiamo risalire i secoli, fino a Roma. Quando fu scoperta la cospirazione contro l’imperatore Claudio, uno dei congiurati, Cecina Pèto, era sul punto di uccidersi per evitare il supplizio, ma esitava. Allora Arria, sua moglie, dopo essersi pugnalata, glielo porse dicendo: “Tieni, Pèto, non fa male”.
Stare alla larga dall’amore − Ben prima di Freud, digressione di Laura Liberale
[da Il libro tibetano dei morti (Bardo Tödöl), a cura di Giuseppe Tucci, Utet, 2004]
Istruzioni impartite al principio cosciente del defunto affinché sia impedita la rinascita:
“Primo metodo:
O figlio di nobile famiglia, in questo istante tu immaginerai il padre e la madre carnalmente congiunti; ma così vedendo ricordati che non devi entrare fra i due. Medita su quell’uomo e su quella donna come se fossero il tuo maestro e la sua paredra e così venerali, porgendo loro offerte mentali. Abbi un’accesa devozione per loro ed una forte volontà di chiedere che ti spieghino la santa Legge. Con questa forte e decisa volontà che essi ti spieghino la santa Legge, sono ostruite le porte della matrice.
Secondo metodo:
Tuttavia se esse non lo fossero e tu fossi prossimo ad entrare nella matrice, medita su quell’uomo e su quella donna come se fossero il tuo maestro e la sua paredra o la tua deità tutelare e il Grande Misericordioso ed offri loro offerte mentali e chiedi ad essi che ti concedano l’ottenimento di ciò che desideri. Allora la porta della matrice sarà ostruita.
Terzo metodo:
Se non lo fosse e tu fossi prossimo ad entrare nella matrice, come terzo metodo, si insegnino le istruzioni che servono a frenare cupidigia o avversione. Quattro sono le specie di nascita: dall’uovo, dalla matrice, per prodigio, dal caldo e dall’umido. La nascita dall’uovo e quella dalla matrice si corrispondono. Vedendo, come è stato detto prima, un maschio ed una femmina carnalmente congiunti, se per cupidigia o per avversione, la creatura proiettata verso lo sviluppo samsarico entrerà nella matrice, nascerà cavallo, uccello, cane o quello che sia. Se sarà per rinascere uomo gli sembrerà di essere uomo e per quell’uomo avrà grande avversione e per questa causa si metterà per la strada della madre; se sarà per rinascere donna gli sembrerà di essere donna e sentirà forte invidia e gelosia per quella donna e brama e desiderio per l’uomo e per questa causa si metterà per la strada del padre e quando il seme e l’uovo si congiungeranno sperimenterà la beatitudine innata e la sua coscienza avrà un mancamento e maturandosi il corpo traverso i vari stati embrionali uscirà dalla matrice materna e aprirà gli occhi e sarà trasformato in un cucciolo (…) Perciò ascolta le mie parole, afferra bene il senso di queste mie istruzioni. Adesso raffrena avversione e odio; ora ti viene spiegata un’altra istruzione che serve per chiudere le porte della matrice (…) Non sii geloso e medita su quell’uomo e su quella donna come se fossero il tuo maestro con la sua paredra: così è stato detto prima e così, come prima, se sarà per nascere uomo avrà desiderio per la madre e avversione per il padre; se sarà per rinascere donna avrà desiderio per il padre e avversione per la madre e sentirà gelosia per l’uno o per l’altro (…)
Quarto metodo:
Se anche così facendo non riesci a ostruire la porta della matrice e stai per entrarvi, tuttavia la porta si può ostruire ricorrendo alle istruzioni che insegnano l’irrealtà delle cose (inconsistenti come un’illusione). Così il padre e la madre e la pioggia nera e il turbine e il rombo del tuono e le immagini paurose e terribili e le cose che sono nel mondo o che immaginiamo, tutte sono in realtà un’illusione; nulla di ciò che appare è reale; tutte le cose sono irreali, false e mendaci; non sono eterne e non durano. Che vale aver attaccamento per esse, che vale temerle?”
In copertina: i coniugi Schumann