Samir Galal Mohamed e i poeti del ventunesimo secolo

di Alfredo Nicotra

A un maestro

Io l’ho detto,

pronosticato:

il poeta del ventunesimo secolo

sarà figlio di lavavetri. O di chi

paghiamo per pulire. (Se)

avrà frequentato un buon liceo:

sarà figlio nostro – a metà;

si farà maestro,

sì: sarà satollo.

Queste ciocche mulatte

ci divoreranno.

 

Mettere nella nostra lingua una lingua straniera, come affermava Gilles Deleuze, farle balbettare qualcosa del nostro vissuto lacerante, è quanto si propone senza tregua la poesia di Samir Galal Mohamed, giovane poeta tra i sette inclusi nel Dodicesimo quaderno di poesia italiana contemporanea, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2015.

Le sue sono poesie scarne, essenziali, simili al deserto da cui proviene il padre (Samir Galal Mohamed è nato nelle Marche, in provincia di Pesaro Urbino, nel 1989, da madre italiana e padre egiziano), lontane da una ricerca estetica sul significante, come invece in molta poesia contemporanea, eppure capaci di scardinare il valore semantico di ogni parola nella apparente armonia del periodo. Facendovi scorrere come acqua in un giardino una lingua violentemente espressiva, impastata di fonemi e di sgrammaticature esibite, apparentemente scorretta.

 

Ti riscaldi con le parole dei poveri

nei secoli dei secoli. Nel pieno di

un silenzio pieno risorgi e palpiti e

io brillo: tu dall’incarnato borghese,

io dal sudore speziato.

 

Nella sua poetica a prevalere è la seconda persona, il “tu” travestito da Istituzione, da Occidente, da madre e genitore, a cui si rivolge un io smembrato e in una incessante ribellione o inappagato desiderio di appartenenza e di amore.

 

Tu cercavi la quiete:

disperata ostinazione amorosa

per te stessa

 

tu che quiete non avevi,

io che

quiete non conosco.

 

Presentandolo, il curatore dell’antologia, accenna per converso agli stilemi di certa giovane poesia da cui il poeta si tiene a debita distanza: “tutti bravini e inquadratini come pianisti giapponesi: non vedi errori, svarioni o ingenuità, ma il tasso di originalità è minore”. E Gian Ruggero Manzoni che ne introduce i versi stigmatizza “il pietismo e il lamento, fatti passare per dolori cosmici, quando, di universale non resta che l’umana piccineria o ‘la morte del gatto’” di molta poesia contemporanea. Nella poesia di Mohamed resta vigile questa ricerca di un’originalità senza sconti, e senza tremori, e allo stesso tempo affascina la capacità di esplorare il proprio vissuto in antitesi “allo scarso vissuto” delle nostre esperienze. Di riportare alla luce dei versi una “diglossia misterica”, originaria del canto e pura.

Ma è in queste “voci meticce, (…) di confine”, nel contorcersi della loro lingua per trovare la parola, nel forzare la resistenza del dettato, che al livello del significante più risuona emblematicamente l’alienazione che è in noi. A cui oggigiorno bisogna dare necessario ascolto.

 

Nella mia notte disperata di acuta aspirazione

di gloria nella morte e gioia nella tomba, il complesso

spogliatoio di inferiorità misura e mi deride;

 

Dio o chi per lui non mi diede altro che un timore:

il saperti bagnare di poesie di un poeta altro

più poeta di me.

 

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