‘nsitare versi. Su tre testi (poetici) di Cesare Basile

di Alfredo Nicotra

Araziu Stranu

A tia ti fici na chitarra nica
ca su eri ranni ta faceva ranni
‘nsitai l’aranciu amaru cca muddica
cordi di lenza e chiavi di fatica

Arrobba e ita su ti vo ‘nsignari
allesti cunti si non voi ‘n patruni
fatti lavina, cantunera e mari
e patri e matri e toccu di campani

U suli è prenu di strapunti e mbrogghi
m’atturra l’occhi e consa maravigghi
vogghiu cantari a cannarozzu chinu
curriti genti canta Araziu Stranu

Quannu di sangu curri la vanedda
cu si cuntenta mortu o carzaratu
fimmini schetti pinnulara i stidda
cu casca additta e cu casca trarutu

Dici ca mi sparanu na matina
cu dici ca m’arricugghiu la terra
ju tonnu a passu a notti di la Strina
e tonnu a cuntu di l’eterna guerra

(A te ho fatto una chitarra piccola/ che se eri grande te la facevo grande/ ho innestato l’arancio selvatico con la mollica/ corde di lenza e chiavi di fatica/ ruba alle dita se vuoi imparare/ imbastisci racconti se non vuoi un padrone/ fatti rivolo, facciata e mare/ e padre e madre e tocco di campane/ il sole è pieno di sventure e imbrogli/ mi brucia gli occhi e prepara meraviglie/ voglio cantare a gola piena/ venite gente canta Orazio Strano/ quando il sangue scorre per la via/ chi preferisce essere morto o carcerato / femmine sole ciglia di stelle / chi cade in piedi e chi cade tradito / si dice che mi hanno sparato una mattina / chi dice che mi ha inghiottito la terra / io torno e passo nella notte della Strina / e ricanto dell’eterna guerra)

Le canzoni del nuovo album del cantautore catanese Cesare Basile, Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più, Urtovox 2015, tra i partecipanti al Premio Tenco 2015 nella sezione migliore album, album in dialetto e canzone singola, dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, la coesistenza oggi, in ambienti sotterranei e obliqui alla tradizione culturale alta, tra la ricerca musicale e la ricerca poetica.

La compattezza stilistica che percorre l’intero album, tra ricerca sonora e parola si manifesta in ogni singolo testo, al livello della costruzione metrica e della dimensione linguistica e metaforica.

I testi non sono lirici o intimisti, raccontano caratteri e personaggi di una Sicilia contemporanea e pur sempre ancestrale, legata ai miti della violenza, della miseria e della disperazione.

“Io so che questa lunga canzone è racconto di pupari, ladri, cantastorie, travestiti innamorati di Cristo e saltimbanchi della barricata”. Precisa l’autore.

Sono personaggi borderline e malavitosi o semplicemente marginali e sottoproletari. Vite sprecate in cerca di una chimerica giustizia sociale.

I testi ricordano le ballate e i cunti della tradizione dei cantastorie (Orazio Strano, personaggio leggendario, vi figura infatti come nume tutelare). Ma nere e gotiche.

L’autore si muove così nel solco della ricerca linguistica iniziata con Fabrizio De Andrè di cui si sente la presenza della contronarrazione al potere. Ma emerge l’idea di una Sicilia americana, come evocazione di spettri simili a Tom Joad di Furore di John Steinbeck.

È l’eterno canto di un popolo povero, oppresso, tormentato, vessato, costretto in un regime di illegalità, arreso ma lucido a una condizione di saggezza che coglie il gusto amaro e succoso dell’esistenza e lo spreme fino all’ultima goccia, senza le illusioni del futuro. Una saggezza sottoproletaria e pasoliniana che Guido Mazzoni descrive con cura nel suo ultimo libro, I destini generali, Laterza 2015.

Eppure il dialetto non rievoca situazioni vernacolari e folkloriche, da Sicilia rurale e perduta. I testi mescolano una dimensione attuale e contemporanea fatta di violenza e sangue della città. Vi pavati a cunfissioni / un vattiu ogni simana / ju va rugnu a ‘ssoluzioni / cche piccati i na buttana (vi pagate la confessione / e un battesimo a settimana / io vi do l’assoluzione/ con i peccati di una buttana). Di miseria e di carcere (gli ultimi dati dicono che a Catania circa otto mila persone hanno attualmente dei problemi con l’autorità giudiziaria, tra arrestati ai domiciliari e sorvegliati speciali). Una contemporaneità viva nei luoghi marginali della realtà dalle sacche di abbandono a quelle di resistenza.

La tensione poetica dei testi si rileva nelle metafore ricercate, dure e mai scontate. L’immaginario della cultura popolare si intreccia, si innesta, si insita con un immaginario alto (come se Baudelaire guardasse il cielo plumbeo dalle basole in pietra lavica della via Etnea)

Nella struttura dei versi e delle strofe, dalle quartine di endecasillabi, agli ottonari, alle ottave, alla sestina, la riproposta metrica della tradizione stride con il contenuto basso e volgare, nella volontà di frustare la tradizione e allo stesso tempo rendere credibile il canto.

“Un’invettiva di cenci intrecciata ai nomi di chi un nome non ce l’ha, non ha appartenenza né ingaggio, prestazione o valore di scambio”, scrive nella nota l’autore.

 

Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più

 

La carrozza del senato
si trascina coi ruffiani
sulle lapidi lisciate
dal baciamoci le mani
il pudore delegato
annusa l’aria soddisfatto
si accarezza il sottopancia
non contempla la sconfitta

Tu, tu prenditi l’amore che vuoi

Alla fame stan cucendo
la ferita della bocca
la questione dritta in faccia
qui si guarda e non si tocca
stanno attenti che l’orgoglio
trovi posto in gradinata
abbia buoni generali
non si complichi la vita

Tu, tu prenditi l’amore che vuoi

I cecchini sul giornale
quando scostano le tende
ci rivelano feroci
che il mafioso è il sottostante
il padrone che li assolve
ha buon cuore per gli amici
compra bene e con profitto
fallimenti e cicatrici

Tu, tu prenditi l’amore che vuoi

Tu, tu prenditi l’amore che vuoi
Se una volta i Cavalieri
li chiamarono collusi
sotto sotto ci trovammo
a contemplarli da invidiosi
e a Gennaio come ogni anno
ci puliamo forte i denti
per mangiarci quel che resta
della salma di un perdente

Tu, tu prenditi l’amore e non chiederlo più
Tu, tu prenditi l’amore che vuoi
e non chiederlo più

 

Di Quali Notti

 

Isunu turri
cu lignu di furca
p’amministrari furtuna
‘mpistunu u cielu
ccu ‘ntinni e banneri
fanu di terra jalera

anu na vita
ppi tutti e ppi nuddu
cce cu la chiama catina
cu sicci curca
e si susi sciancatu
c’è cu si rumpi a carina

rici ca vinniru
cu sapi quannu
di quali notti e nuvena
e ccu ssu rici
si munci la sorti
comu na minna di rina

ciuri di ciuri
nozzula di carzarati
ammatula piatiati

(Alzano torri/ con legno di forca/ per amministrare fortuna/ impestano il cielo/ con antenne e bandiere/ fanno di terra galera/ hanno una vita/ per tutti e per nessuno/ c’è chi la chiama catena/ chi ci va a letto/ e si alza sciancato/ c’è chi si rompe la schiena/ si dice siano venuti/ chissà quando/ da quale notte e novena/ e con questo “si dice”/ si munge la sorte/ come una mammella di sabbia.
Fiori di fiori/ nòccioli di carcerati/ invano chiedete compassione.)

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