di Diego Conticello
Un talento cristallino nel giustapporre con misurato garbo un assillante flusso di parole per strapparle all’inconsistenza (ignoranza) del vuoto: il tutto nel corpo di una ragazza poco più che maggiorenne. Mi viene da dire questo, in maniera istintiva, pensando a Carlotta Pederzani.
Nel suo esordio Dare senza chiedere (LietoColle, collana Solodieci 2010), distilla versi con l’alchimia sapiente di un veterano, destreggiandosi egregiamente fra metafore di visione quasi apocalittica («[…] E quando esploderà/ l’aurora fiammeggiante,/ io vivrò,/ nei campi inondati di fuoco,/ respirando nuovamente/ pulviscolo di sogni…») e similitudini di una schiettezza assiomatica spiazzante («[…] Siamo prigionieri tra due/ parentesi di materia,/ come elementi caotici/ di un sottoinsieme dell’Eternità.»).
In queste poesie talvolta si coglie l’ebbrezza prometeica ma disarmata di un dolore tutto umano («[…] inebriati dal nettare/ amaro della disperazione,/ ninfe ed eroi/ sfideranno i codici,/ nel giorno…»).
E se, in una visione ancora beatamente ingenua, il poeta è visto come un essere angelico bellissimo e fragile al contempo che non ha «timore di mostrare le ferite» nonostante sia ritratto crollante «[…] nell’agonia del tuo ultimo respiro/ e vedrò il tuo Animo raro/ elevarsi Oltre il Comprensibile,/ dove regna l’arte senza dolore», ci accertiamo che in Carlotta dimori per davvero la “polvere lirica” della vera poesia. Se poi questa scrittura è rafforzata ed elevata da un intenso e costante spirito di sacrificio, il quale altro non è che lo stupendo martirio di estrarre la bellezza dal nulla, saremo certi anche di un futuro non solo radioso, ma esemplare («[…] E senza fiato,/ rafforzata e vulnerabile,/ partecipo ancora/ al mio luminoso supplizio.»).
Ora invece nel suo più recente Sintesi additiva (La vita felice), tali abilità ci giungono ancor più rafforzate, ma sempre con la medesima incisività data soprattutto da uno sviluppo assai incrementato di iconicità e speculazione. Ne risulta un verso pieno, tornito nelle soluzioni formali – anche se ancora con qualche perdonabile incertezza – ([…] pioggia,/ sui sentieri ardenti/ degli autunni,/ sugli inverni migranti… Donna; […] e il livore vergognoso/ di un tremito… Inverno; […] il tramonto allunga le sue dita/ tra le rughe della terra… Speranza) e folgorante, intuitivo, nettamente sbilanciato verso le tematiche ‘universali’, come avviene in Nascondersi, certamente la lirica meglio riuscita dell’intero volume, che vorrei riportare per intero perché veramente esemplare della poetica ‘manichea’ dell’autrice:
Troppo dolce – il dolore – per sottrarmi al suo incanto. Perché chiedere luce, se rassicurante è il buio? Cos’è, poi, l’ombra, se non il dazio che alla luce impone la materia?
Appariva chiaro sin dalle poche liriche di qualche anno fa che Carlotta avesse scelto la strada impervia – nonché avara di immediate soddisfazioni – della poesia “difficile”, una poesia che conversa per grandi temi, non avendo timore di parlare del Nulla, dell’Assoluto, dell’Eternità (talmente fondamentali da meritare sempre la maiuscola): una poesia di stampo filosofico, sebbene ancora acerba, che si nutre dei grandi autori ‘cosmici’ di un favoloso passato (Leopardi, Cioran, Dickinson, Celan, Holan, Whitman) e che rifugge – cosa ancor più apprezzabile – dai “facilismi” e dai giochini linguistici spacciati per alti sperimentalismi in cui sguazza invece moltissima poesia giovane e meno giovane. È proprio questo scarto, questo apparente ‘distacco’ che la spinge a imboccare il sentiero tortuoso (che per alcuni si trasforma in precipizio) della poesia “totale” il quale, mi auguro per lei di tutto cuore, la porterà quantomeno fuori dalle secche di un provincialismo espressivo che ormai ha fatto il callo nel nostro stivale, per non dire lo “zoccolo duro”.
Non è impresa da poco trascurare la blanda minuteria del quotidiano – con tutti i suoi portati di banalità e autobiografismo – per aspirare a più alte vette meditative e la giovanissima Carlotta Pederzani ha già percorso più di qualche ripido metro.