Carteggio III: Diego Conticello

Porta Grazia - Messina

Per le festività pasquali Carteggi Letterari si prende una piccola pausa proponendo nuovamente ai suoi lettori i primi 4 carteggi della serie. Buona lettura.


[…] La Sicilia è sempre stata una casa con il lutto alla porta, e chi lo ha capito è stato
costretto a fuggire, per non diventare lui stesso elemento di quel lutto […] e lo ha fatto
per una scelta di onestà, non si è rifugiato nell’Eden, ma dove, come uno straniero, può
pensare alla sua terra come un sogno e di quel sogno soffrire.

Melo Freni

Ho sempre ritenuto che gran parte della partita tra i vari stili, le correnti e gli infiniti movimenti e categorie che si sono succeduti lungo tutto il corso della storia letteraria italiana e non, fino al fatidico nodo novecentesco e oltre, siano da ricollegare ad un sostrato di fondo, ovvero la geografia, i luoghi fisici che la sottendono e la storia antropologica che vi sta dietro. Molti pensano, a mio avviso erroneamente, che il denominatore di fondo sotteso all’eccessivo frastagliamento stilemico e al marasma cui assistiamo sia da attribuire quasi solamente alle scelte di lettura personali ed agli strati che si accavallano lungo il corso di una vita fatta di libri e libri, tuttavia penso sinceramente che tutto ciò faccia parte di una seconda fase, seppure importante, non fondamentale. Basti pensare alla ancora recente “lotta” tra lo pseudo-sperimentalismo delle cosiddette neo-avanguardie (Gruppo ’63 VS Antigruppo), oppure tra la più famosa Linea lombarda di anceschiano conio e la nostra falsariga di autori isolati sebbene accostabilissimi che ho ribattezzato, in un recente lavoro critico, ‘Curva mediterranea’. Se riflettiamo bene le differenze sono tutte giocate sulle immagini evocate a supporto della propria poetica, sulla diversa attenzione alle “cose”, sui variabili tentativi di intellettualizzarle al meglio… e non è poco.

Così se molti scrittori lombardi quali Sereni, Raboni, Risi giocavano su forme più asciutte, stilizzate e sugli “oggetti di natura”, come direbbe Cattafi, presi al loro livello primario e solo così riportati sulle pagine con pochi o pochissimi incentivi alla simbolizzazione, è sempre per via di un sostrato genetico che agisce in loro da filtro percettivo, un sostrato in cui prevale velocità e cemento, frenesia e lavoro (ricordiamo la Fabbrica di Sereni), laicità e prosaicità portati alle estreme conseguenze. E non importa se su Raboni giocassero infinite letture ‘francesi’ o per Sereni le centinaia di traduzioni da poeti inglesi o altro: ciò che è di “inevitabile” importanza è la conformazione geografica prevalente, i luoghi del vissuto, l’ancestrale antropologia culturale e gli effetti che questi producono prima sull’indole e poi sulla scrittura.

Venendo ora, per contrasto, ai nostri autori (potendo includere nel catalogo una più ampia fetta di poeti quali Gatto, Quasimodo, Bodini, Scotellaro, Calogero) e sforzandosi di far mente locale sul loro vissuto quotidiano, possiamo senz’altro evidenziarne le comuni tendenze stilistiche nell’approccio “Barocco”, dove con questo aggettivo si intende non tanto e non solo una pomposità o la tendenza all’orpello e allo scenografismo (seppure presente in alcune figure), ma principalmente una volontà e una propensione all’eccesso, dato questo intanto dalla più complessa e articolata incidenza delle varie dominazioni storiche succedutesi nel corso dei secoli e dalle quali deriva una altrettanto complessa e  talvolta ‘pesante’ visione della vita, fatta di paure e ombre, di sottomissioni e soprusi che, nella pagina, si denotano violentemente in termini di iperaggettivazione, di costruzione assai più strutturata delle rime e della retorica, nonché con un maggior ricorso alle forme chiuse derivate dalle varie tradizioni succedutesi: dal sonetto all’endecasillabo, dal madrigale all’accentazione; inoltre dalla più ricca e lussureggiante scenografia naturalistica, teatro in passato di vari culti ctonii di ascendenza greco-pagana fatti di dionisismo e  natura in qualità di Meteres, terra madre. Ecco perché ogni scrittore come ogni uomo del Sud vive di acerrime contraddizioni che conducono sempre all’eccesso, sia esso di costruzione formale, di ricerca ritmica, rimica, armonico-musicale e linguistica (Lucio Piccolo); di spinta allitterante, anastrofica (Bartolo Cattafi); di codici linguistici scarni sebbene orfici simili a moderni geroglifici (Angelo Scandurra); di compenetrazione tra “lingua madre” dialettale e “lingua padre” italiana (Nino De Vita); il contrasto tra poesia della lontananza e dell’amore perduto e poesia ‘industriale’, razionale (Basilio Reale). Non per le infinite letture ma per il contatto quotidiano, sin dall’infanzia, con scenari particolari e unici: Piccolo con la Palermo barocca degli stucchi serpottiani, degli oratorî in penombra, delle liturgie sfarzose e perturbanti di lascito ispanico prima e dei Nebrodi lussureggianti e invitanti alle profonde riflessioni poi; Cattafi con le protettive campagne di Mollerino e la Messina “ricca e seduta al posto giusto” e, successivamente, con la stagione dei viaggi in Spagna, Scozia, Inghilterra, Francia che ne complicano e ne acutizzano lo spirito nomade e anticonformista seppur con i lasciti iper-religiosi delle vicende infantili; Scandurra con la geografia aspra, petrosa e magmatica del grande vulcano e dei faraglioni ciclopici dove ha sempre vissuto; De Vita con la frammentazione e lo sfilacciamento geografico di cui non è avaro il marsalese, che preme fra le lucenti saline dello Stagnone di fenicia memoria, l’apertissima campagna lilibea e il razionalismo dei centri storici, in cui tuttavia ci si perde tra viuzze, buje kasbah e portali barocchi; Reale con l’alternanza tra la “iperattiva” vita milanese e le lunghe vacanze d’ozio nella ritirata villa della trazzera marina di Capo d’Orlando, dominata prima dagli affetti e poi dal ricordo struggente della loro perdita.

Ecco infine i motivi profondi per i quali la mescolanza di antropologia, storia, diversità culturale e peculiare conformazione della natura portano, ancora una volta inevitabilmente, alla commistione stilistica tra metaforismo galoppante e lirismo spinto, alla percezione ‘significante’ degli oggetti e alla loro continua trasformazione in simboli, poiché non è mai possibile ridurli a mera materia a-logica e inerte. Ecco perché tutto ciò che circonda gli autori siciliani è sempre carico di sovrasensi e di percezioni che non possono non ‘alterare’ le immagini trasfigurandole in simboli. Ecco perché tutto è riducibile ad un’eterna lotta tra ombra (del passato, della genetica storica) e luce (geografia tangibile, senso del genius loci) che addensa la pagina rendendola un fascinoso altare di fervida figurazione e ineluttabile bellezza.

P.S. per cui voglio rivolgere un appello alle nostre generazioni: non siate in contrasto perenne tra il vostro stile e quello altrui, perché lo stile, il gusto, la scelta sono già dentro di voi  in accezione talmente profonda da non poter essere elusi nemmeno dopo migliaia di letture; del resto l’uomo per millenni e millenni ha vissuto, visto, tastato, ascoltato, la scrittura invece è ancora assai più giovane!

3 pensieri su “Carteggio III: Diego Conticello

  1. Grazie Natàlia e rinnovo ancora il mio fervore per questo spazio, peraltro partito benissimo.

    1. Caro Diego,
      questo luogo, questa nuova porta sul nostro comune denominatore territoriale, lessicale, etico, ancestrale, è un “gate” spazio-temporale da attraversare continuamente per tentare di portare alla luce un possibile percorso comune, radicale e indentitario.
      Grazie dunque a te per questa nuova occasione di pensiero, dialogo e incontro.
      Il fervore, la passione, sono fondamentali e contagiosi mezzi per attivare e nutrire il nostro viaggio.
      grazie davvero
      natàlia

Rispondi