SEGNI, CIFRE E LETTERE: L’Eneide e il libro VI. Il dialogo senza tempo tra Virgilio e Heaney

(Salvatore Fiume, Eneide libro VI, Anchise mostra a Enea la sua stirpe, Litografia, 1989/1990)

 

Nel 1975 George Steiner affermò pubblicamente che la traduzione prima di essere un esercizio formale è un’esperienza esistenziale. Il traduttore deve cioè rivivere l’atto creativo che ha informato la scrittura del testo originario, deve farsene carico, deve farlo proprio.

Solo qualche anno più tardi, nel 1977, Eugenio Montale definì un’impresa disperata, motivata da amore, passione e arroganza quella di presentare un poeta a un pubblico straniero. E, contestualmente aggiunse – con una certa verve polemica non estranea alla sua dialettica – (…) Qualunque contrabbandiere della grande poesia verso un altro mondo linguistico conosce bene quest’emozione contraddittoria, incoraggiato nel suo compito dalla sua ansia di fare proseliti e insieme scoraggiato dal buon senso.

Johann Wolfgang Goethe, più di un secolo prima (1819) anticipando ogni possibile speculazione letteraria, ebbe a dire che per conoscere un poeta si deve andare a conoscere la sua terra.

Oggi sappiamo che tradurre significa qualcosa di più complesso che rendere comprensibile un testo in un’altra lingua e, questo, indipendentemente dalle emozioni contraddittorie che possono animare il traduttore. I traduttori sono chiamati ad andare oltre l’aspetto meramente linguistico di un testo. Ogni traduzione è contemporaneamente una rilettura e una riscrittura dell’originale e ogni buona traduzione non potrà mai risolversi in una semplice trasposizione del testo in un’altra lingua. Utilizzando le parole di Nicola Gardini si potrebbe dire che (…) la traduzione da qualsiasi lingua è un’esperienza delle origini, uno sforzo di arrivare “fin là”, all’integro, al puro, al vero (…) Tradurre è alzare la testa, alzarla e raggiungere almeno con lo sguardo le vette dell’altrui genio.

Fatta questa premessa bisogna pur considerare che tradurre non equivale però a interpretare, l’interpretazione è un’attività che ontologicamente precede quella di traduzione (così, Roman Jakobson, in Aspetti linguistici della traduzione, 1966). E ogni buon traduttore, a interpretazione avvenuta, si trova costretto a risolvere un insieme di criticità importanti: deve confrontarsi con i profitti e le perdite della lingua dell’autore tradotto e, aspetto tutt’altro che trascurabile, deve ‘censurare’ le parole intraducibili o crearne di nuove e ugualmente rappresentative.

Se queste sono le difficoltà di partenza diventa legittimo domandarsi cosa possa succedere quando un poeta decide di tradurre un altro poeta, magari lontanissimo nel tempo e nello spazio. L’impresa non è semplice (meglio ammetterlo subito e senza riserve) ma, per quanto disseminata da insidie e pericoli, la sfida si fa decisamente interessante.

Il Ponte del Sale, nel settembre 2018, ha raccolto una di queste sfide interessanti. Recuperando il dialogo privilegiato tra Virgilio (il Savio gentil che tutto seppe, così Dante, Inferno, VII, 3) e Seamus Heaney (poeta irlandese premio Nobel nel 1995), la casa editrice di Rovigo ha dato alle stampe un vero e proprio gioiello. Tra gli ultimi libri usciti, nella collana Gli alberi capovolti, un posto di rilievo spetta infatti a L’Eneide, libro VI – ovvero la traduzione in italiano della traduzione dal latino fatta da Seamus Heaney sul testo originario di Virgilio.

Un lavoro corale curato, con attenzione e dedizione rare, dal poeta e traduttore Marco Sonzogni legato a Heaney da lunga e sincera amicizia e già curatore del Meridiano Mondadori a lui dedicato. Le traduzioni del testo in italiano portano la firma di Leonardo Guzzo e Giovanna Iorio. Corredano infine il volume, la nota del traduttore Heaney (inserita nel suo Aeneid book VI, uscito postumo nel 2016 per l’editore Faber) e, ancora, la prefazione di Alessandro Fo (a sua volta traduttore dell’Eneide, latinista e poeta) e la postfazione di Teresa Travaglia (a cui si deve, ad oggi, il più completo studio sulla presenza di Virgilio nella poesia di Heaney).

Come ha scritto il curatore Sonzogni nella nota introduttiva al volume Le complessità della traduzione di un testo poetico sono in questo caso raddoppiate. Pur considerando Aeneid Book VI come testo di partenza non è stato trascurato che sia anche un testo di arrivo. Nell’inglese di Heaney, infatti, respira il latino di Virgilio. Per giungere a scelte di interpretazione e di traduzione appropriate ed efficaci si è quindi deciso di dialogare, ogni volta che fosse possibile e utile, con entrambi i poeti. Anche in virtù di questa duplice originalità, la traduzione qui presentata è il risultato di un meticoloso e meditato lavoro collettivo – subito inteso come human chain e scandito da un susseguirsi di eye-to-eye, one-two, one-two tra autori e traduttori, lingue e culture, passato e presente. 

Sonzogni richiama la human chain cara a Heaney e scrive di complessità raddoppiate ma gioca al ribasso. Tutto il monumentale lavoro di traduzione si è mosso lungo tre direzioni parallele: l’originario testo di Virgilio, la traduzione del testo virgiliano nell’inglese ferroso e impastato di terra di Heaney e la ritraduzione in italiano del testo inglese di Heaney.

Tralasciando per un momento il testo originario di Virgilio e concentrandoci sulla traduzione che ne ha fatto Heaney, merita di essere evidenziato che il poeta premio Nobel traduce il libro VI con una grande attenzione non solo alla metrica (in Virgilio l’esametro raggiunge il più alto grado di regolarità e libertà e Heaney ne era certo a conoscenza) ma anche alla potenza della lingua e, non da ultimo, ai sentimenti dei protagonisti. Heaney esalta l’umanità dell’Eneide, se ne fa cantore, portavoce. Parlare di traduzione può sembrare in questo caso quasi limitativo: quella di Heaney non è una semplice traduzione, quella di Heaney è un’autentica riscrittura del testo virgiliano e lo lascia intendere lui stesso quando nella nota introduttiva al suo lavoro di traduzione uscito postumo per l’editore Faber allude alle altre preoccupazioni che uno scrittore ha nella testa e nell’orecchio che quella della fedeltà al testo.

Osserva correttamente Marco Fernandelli a riguardo in una nota finale del volume (…) La mente di Heaney si amplia e si affina, dall’inizio e fino alle sue ultime creazioni, sotto l’effetto di ciò che in Virgilio è inconfondibile – la musica, le immagini che fioriscono dai suoni, la vastità di ciò che pensato compiutamente, la densità di senso esistenziale in ogni situazione, la verità che promana dal segreto ripetersi delle esperienze, personali, storiche, artistiche (…). La verità che promana dal segreto, ecco lo snodo. A differenza di molti altri traduttori di Virgilio pur meritevoli e apprezzati, Heaney rincorre l’umanità di Enea, la sua empatia verso il dolore del mondo, la sua capacità di ascolto mettendone in evidenza ogni vulnerabilità, ogni cedimento.

Come ha scritto splendidamente Rosa Calzecchi Onesti nel suo Invito a rileggere l’Eneide (Einaudi Tascabili, 2014), L’Eneide è – più di ogni altro (l’inciso è mio) – il poema dove non ci sono vincitori, solo uomini vinti dalla incomprensibile forza del Fato che li annulla proprio nel loro tentativo di vivere e di essere uomini (…). Di fronte a questa grande epopea del dolore e della speranza umana contrapposte alle oscure e crudeli necessità del fato, il buon traduttore non può che lasciarsi investire e trafiggere dalla potenza del testo originario, conservando però la delicatezza e l’umiltà di avvicinarsene in punta di piedi. E Heaney lo ha fatto. Come tutti i grandi, lo ha fatto con la delicatezza e l’umiltà che il compito esigeva.

Enea, uomo insigne per pietà, come Virgilio lo definisce già nel proemio del poema, non ha – al contrario dei grandi eroi omerici – nessuna certezza, nessuna determinazione che lo faccia essere veramente un capo: la sua, per lui, è una fuga – scrive Rosa Calzecchi Onesti – e questo passaggio non sfugge all’occhio vigile di Heaney. Heaney lo coglie, lo coglie in pieno: il pio, buono, magnanimo, grande, forte Enea è un uomo sopraffatto dalla disumanità del fato.

Enea è un uomo che ha perso moglie e patria, un uomo che ha perso la possibilità di essere felice accanto a un’altra donna, un uomo che ha perso l’amato padre, un uomo che ha perso nel viaggio molti valorosi compagni e amici. Enea è un uomo solo davanti agli incomprensibili disegni del fato, (fuggiasco per fato, lo definisce Virgilio). Enea è un uomo che ha sulle spalle il destino e la responsabilità di un popolo, è un uomo che soffre (molto in terra e per mare fu preda di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone, molto sofferse anche in guerra – ci dice Virgilio). Di fronte al suo popolo avvilito, Virgilio disegna un Enea che si mostra forte ma in realtà non trova in sè che vuoto e angoscia – scrive Rosa Calzecchi Onesti.

Vuoto, angoscia e cieca obbedienza. In un dei passaggi più belli e delicati del libro IV, Enea confessa all’amata Didone quanto gli sia fatale l’impresa a cui appare condannato – Me si fata meis paterentur ducere vitam/ auspiciis et sponte mea componere curas (Se il destino mi desse di viver secondo il mio cuore, se potessi a mio modo ricomporre gli affanni) (340,341) e, poco oltre, Invidia est? Et nos fas extera quaerere regna (È fatale anche a noi cercare un regno straniero) (350) e, ancora, Italiam non sponte sequor (l’Italia costretto io la cerco) (361) e, dopo l’apparizione in sogno del dio Mercurio, Sequimur te, sancte deorum,/ quisqui es, imperioque iterum paremus ovantes (Noi ti seguiamo, o dio santo,/chiunque tu sia, ancora al comando obbediamo festanti) (576,577). Ma è nel libro VI che Virgilio cerca di rivelare, più che altrove, quanto costi all’uomo realizzare un bene che lo supera, i sacrifici che questo impegno gli impone (così sempre, Rosa Calzecchi Onesti) e ad Heaney tutto questo non poteva lasciare indifferente.

Con Virgilio ed Enea, Heaney condivide la sorte di esule, di sradicato, di sopraffatto da un destino alieno e talvolta incomprensibile e crudele. La discesa agli Inferi e l’abbraccio ideale con i non più vivi è il luogo dove Enea raccoglie, nella memoria delle ombre passate, il messaggio profetico della sua utopia – scrive Rosa Calzecchi Onesti; e Heaney, sempre attento a scavare sotto la superficie delle cose e a indagare in profondità i rapporti tra i vivi e i morti (come ha più volte ricordato un suo celebre traduttore italiano, il poeta Roberto Mussapi), fa della traduzione del libro VI una sorta di suo testamento poetico e spirituale.

Dopo aver dialogato con Virgilio per tutta la sua vita, e aver accarezzato a lungo il sogno di tradurre il libro VI, Heaney riesce a portare a compimento il suo proposito solo qualche mese prima della morte. Come fa notare Alessandro Fo nella sua prefazione (…) se questa traduzione, affrontata infine dopo tanti avvicinamenti, si colloca fra le sue ultime cose, al sommo della sua avventura esistenziale, è anche forse perché con essa la poesia, umilmente – nel servizio prestato a un poeta a lungo amato –, e in maniera sommessa e discreta, torni a opporre allo sgomento e all’angoscia la forza del delicato fiore del bello. Opporre allo sgomento e all’angoscia la forza del delicato fiore del bello, sì. E non avrebbero potuto essere utilizzate parole migliori.

Oggi possiamo solo immaginare The excitement of coming for the first time to a place I had always known completely, prendendo in prestito un verso di Heaney contenuto nella raccolta di prose poetiche Stations del 1975. Ma per fortuna è stato lo stesso Heaney a spiegare le ragioni di quel brivido con una lunga nota che nel 2016 ha accompagnato l’uscita postuma del suo Aeneid book VI per l’editore Faber.

In quella nota, che troviamo integralmente riprodotta nel volume edito da il Ponte del Sale, il poeta (ci) confessa che La traduzione del libro VI dell’Eneide non vuole essere una ‘versione’ né una copia: suona piuttosto come un compito per casa di discipline classiche, il risultato del desiderio, nutrito per una vita, di onorare la memoria del mio insegnante di latino al St Columb’s College, padre Michael McGlinchey (…). Nel 1957, il testo prescelto per il nostro Esame di Maturità fu il libro IX dell’Eneide ma McGlinchey sospirava sempre: Oh, ragazzi, vorrei che fosse il libro VI». Negli anni, perciò, ho subito l’attrazione irresistibile di quella parte del poema e mi sono ripromesso di affrontarla in particolare dopo la morte di mio padre, dal momento che racconta la storia del viaggio di Enea per incontrare l’ombra del padre Anchise nella terra dei morti. Ma l’impulso ad avventurarmi in una ‘restituzione’ completa del libro è arrivato nel 2007, in seguito a una serie di poesie scritte per salutare la nascita della mia prima nipotina. (…). Michael McGlinchey ha creato un ‘seguace della lettera’, intimamente devoto, che ancora cerca il verbo principale della frase e ancora, al meglio delle sue possibilità, prova a districare il groviglio delle proposizioni subordinate, benché oggi per lo più con l’aiuto di una copia presa in prestito dalla Biblioteca Loeb o attinta dai Classici Penguin. E anche oggi quel lontano omuncolo del sesto anno deve confrontarsi con un supervisore, per quanto diverso: uno scrittore di versi che ha nella testa e nell’orecchio altre preoccupazioni che quella della fedeltà al testo. Il ritmo, il metro e la scansione dei versi, la voce e la sua cadenza, il bisogno di una dizione sufficientemente decorosa per Virgilio e tuttavia non tanto ‘antica’ da suonare stonata in rapporto a un idioma più contemporaneo. Tutte le fugaci saltuarie ansie che affliggono un traduttore letterario.

Come osserva Teresa Travaglia nella sua nota finale, il libro VI diviene per il poeta premio Nobel strumento di codificazione e indagine della realtà circostante (…) Il libro VI, nel corso del tempo, si fa strumento per comunicare cose diverse, a seconda del momento in cui il poeta lo interroga, delle domande che gli pone e delle esigenze che lo spingono verso di esso. L’interesse per l’episodio della catabasi è dettato in principio dall’empatia nei confronti delle vittime del conflitto civile e in un secondo momento da esigenze più personali quali la morte del padre e l’ischemia che lo colpisce nel 2006.

Il poeta e la parola sono un’unica cosa, ha scritto Octavio Paz nel suo saggio Poesia e storia, per poi aggiungere (…) l’attività poetica non può avere luogo al di fuori del poeta, nel magico oggetto rappresentato dalla poesia, e piuttosto assume l’uomo come centro della propria esperienza.  Poesia e vita dunque, in un richiamo imprescindibile e invalicabile. E se è vero che tutti i grandi poeti hanno sempre qualcosa da dire, è altrettanto vero che a ciascun poeta spetta il privilegio e la responsabilità di raccontare quel qualcosa nel modo migliore. E questo accade anche quando un poeta traduce un altro poeta, attingendo non solo dalle proprie competenze tecniche ma anche dal proprio bagaglio privato ed esperienziale.

Ma c’è un ulteriore aspetto da considerare, e nessuno meglio di Thomas S. Eliot credo lo possa fare. Se il poeta e la parola sono un’unica cosa e l‘attività poetica non può avere luogo al di fuori del poeta, va pur tenuto a mente che  (…) In arte l’emozione è impersonale. E il poeta non può raggiungere questa spersonalizzazione senza arrendersi totalmente all’opera da fare. Ed è improbabile che sappia cosa fare se non vive in ciò che è semplicemente il presente, ma il momento presente del passato, insomma se non è consapevole non di ciò che è morto ma di ciò che già vivente. Nel saggio Tradition and the Individual Talent (1918), Eliot teorizza il metodo mitico quale strumento per dare un senso alla narrazione del presente. E Heaney nella sua traduzione del libro VI si serve del metodo mitico di Eliot per operare un parallelismo tra il mondo contemporaneo e il mondo antico – per dare forma, ordine e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che caratterizza i tempi moderni.

Come ben ha scritto, Alberto Fraccacreta, (…) Heaney ha ricalcato, in un certo senso, il ruolo dei monaci irlandesi, riscoprendo il latino nelle pieghe dei suoi versi e conferendo alla poesia una vivace linfa di solidità etica contro il naufragio dei valori. L’afflato heaniano ha iscritto il sigillo di una morale condivisa e fondamentale, che coincide con la più umana delle virtù teologali: la speranza. Scrivere la disperazione in poesia è, forse, impossibile: Leopardi docet. Il medesimo tentativo di “versificare”, di creare cioè una catena più o meno ritmica di parole, che si stagliano nella pagina per acquistare un tono di solennità, rappresenta già un esodo, un’estrema uscita dalla condizione cantata. La poesia è diaspora dell’io, migrazione volontaria, partenza, apertura. E Heaney è sommo testimone di tale esperienza espressiva. L’intera opera heaniana, in prosa e in versi, con i suoi selciati fioriti di onestà intellettuale e il vivo desiderio di “riparazione” (Redress of poetry) ai torti, diviene un sorriso eversivo, un gesto di delicato rifiuto.

La poesia è diaspora dell’io e il libro VI con il suo portato di umanità e dolore ci offre una testimonianza di come quella diaspora non sia destinata (forse) ad incontrare mai una possibilità di risoluzione reale. Lo dimostrano i tre incontri significativi che animano quel libro, e che in questa nuova traduzione italiana, ci consentono di apprezzare come mai prima d’ora la vulnerabilità  dell’eroe virgiliano. Tre momenti, tre incontri: il primo con l’amico timoniere Palinuro, il secondo con l’amata Didone e, l’ultimo, con il vecchio padre Anchise.

L’incontro con Palinuro consente ad Enea di riflettere sul valore dell’amicizia e lo pone di fronte al dolore delle anime insepolte. Non appartengono quelle né ai vivi né ai morti, un’agitata collocazione possiedono, cento anni sono destinate a vagare e patire. Se il libro V finisce con Enea che, molto gemendo sconvolto in cuor per l’amico caduto, sentito che la nave sbandava prontamente la resse (868,871), il libro VI è quello in cui Enea stupito e sconvolto dal tanto agitarsi delle anime in prossimità della palude Stigia, prima ancora di scorgere l’amico Palinuro tra di esse, domanda alla Sibilla perché questo correre al fiume?, che cercano l’anime?.  La Sibilla spiega ed Enea qual è il destino che attende gli insepolti e lui viene preso da un momento di profondo sgomento, Enea si fermò e ristette, pensoso/ comprendendo, strazio nel cuore/ per quella triste sorte (438, 440), pity in his heart scrive magnificamente Heaney (438). C’è poi la straziante preghiera di Palinuro ad Enea per avere una degna sepoltura, I implore by the cheerful light of the sky (…) get me away from this place, put an end to my woes (481, 485), Either scatter the handful of heart on my corps (486, 487). Toglimi da questo posto, metti fine alle mie pene, spargi un pugno di terra sul mio corpo. Ma non si possono forzare i disegni del fato e subito interviene la Sibilla: What madness is this, Palinurus? (499), Che follia è mai questa, Palinuro?. 

L’incontro con la bella e infelice Didone avviene poco dopo. Enea approda nei Campi del Pianto, e dopo aver riconosciuto lì alcune eroine antiche scorge tra quelle Didone fenicia ancora medicando la fresca ferita. La poveretta vagava per l’enorme foresta e riconosciutala Enea ruppe in pianto all’istante (610), He wept scrive con una delicatezza estrema Heaney. Rispetto alla tragedia che anima il libro IV qui le parti sono invertite, Enea realizza solo nel libro VI di essere stato causa del suicidio della regina di Cartagine e la sua reazione è di sgomento e pianto. Sembrano così lontane e fuori luogo le sue parole proferite alla regina poco prima di salpare da Cartagine verso la Sicilia, Oh non torturare te e me col tuo pianto/ L’Italia costretto io la cerco (360, 361). Enea è un uomo disperato, che cerca di lenire il dolore di quella povera donna infelice e, cercando di recuperare il tempo perso,  giura sulle stelle, sui poteri del cielo e su ogni verità che esiste sotto terra che contro la sua volontà partì da Cartagine (616, 618), How could I believe/ my going would devastate you with such grief? Come potevo credere che dal mio distacco ti venisse un dolore così grande? (621, 622). Cerca invano Enea un confronto con Didone, la esorta a non fuggire il suo sguardo, Fermati un momento, non fuggire il mio sguardo (624), Queste, vuole il fato, sono le ultime parole/ che potrò mai dirti (626). Ma Didone non accoglie il suo appello, si sottrae alla vista di Enea e composta fugge nella selva dove l’attende Sicheo, il suo primo sposo. L’amore sacrificato in favore della ragione di Stato si direbbe oggi. I morti sanno essere più vivi dei vivi e il loro silenzio è un assordante urlo da cui è impossibile liberarsi.

L’ultimo incontro, quello con il padre Anchise, si svolge nei Campi Elisi. L’incontro con il vecchio padre è la ragione che muove Enea a intraprendere il viaggio nell’oltretomba. Virgilio lo ripete spesso, Enea vuole incontrare il vecchio padre deceduto dopo sette anni di peregrinazioni disperate, vuole che il suo volto gli sia ancora una volta concesso. Nel libro V, di quell’incontro si ha un’anticipazione chiarissima: nel cielo appare l’ombra di Anchise che esorta il figlio a seguire il consiglio di Naute, ma prima di Dite, gli consiglia di scendere alle case inferne e per l’Aderno profondo venire al suo abbraccio. E subito in Enea si fa fermo nel cuore il proposito (746, 748). Così traducono Guzzo e Iorio, il momento del toccante incontro (923, 926) : Ma vide Enea giungere attraverso l’erba/ e subito gli tese entrambe le mani, in segno/ di avida gioia / gli occhi pieni di lacrime – e diede un grido: Infine sei giunto?. Eager joy, eager joy: capolavoro heaniano. Enea va incontro all’anziano padre senza perdere tempo e lo prega di non sottrarsi al suo abbraccio, Let me take you hand, my father, O let me, and do not hold back from my embrace – scrive Heaney. Tre volte Enea tenta di abbracciare il padre ma lo spettro gli sfugge (three times he tried to reach arms round that neck/ three times the for, reached for in vain (942, 943). Anche in un momento di così alta partecipazione emotiva, ogni manifestazione di affetto viene messa al bando, viene ostacolata. Anchise ha una missione precisa: deve mostrare a Enea la sua futura discendenza, deve infondere nuova linfa nel suo animo stanco. Ed ecco che, d’improvviso, sfilano davanti agli occhi di Enea tutti coloro che renderanno grande Roma (la gloria futura della stirpe romana, i posteri chiamati a nascere in Italia, traducono Guzzo e Iorio, 1021, 1022). Solo all’esito di questa visione, Enea confortato nell’animo e sicuro ormai che il suo peregrinare non sarà vano, imboccata la porta d’avorio, dalla spiaggia tornerà verso il mondo dei vivi.

Aveva ragione Italo Calvino, D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima e questa nuova traduzione ce lo dimostra. Ce ne fosse ancora bisogno, qualcuno fosse ancora convinto incomprensibilmente del contrario.

(Il curatore, Marco Sonzogni, foto di proprietà dell’autore)

(Il traduttore, Leonardo Guzzo, foto di proprietà dell’autore)

 

(La traduttrice, Giovanna Iorio, foto di proprietà dell’autrice)

 

 

 

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