CONSONANZE E DISSONANZE / Silenzio rotto: “Lenta strana cosa” (Formebrevi Edizioni, 2018) di Alessandro Ghignoli

Se non si appartiene più (o non si appartiene ancora) alla comunità nazionale – come spesso può accadere, e non tanto in virtù di individuali vicissitudini amministrative, ma per tragitto biografico e possibilità di incontro – gli effetti di tale “espulsione dai confini” risultano di gran lunga amplificati, a livello socio-simbolico, nel momento in cui si cerca di verificare la presenza delle singole voci nel panorama italiano, già di per sé segnato da inevitabili e insieme da evitabilissime restrizioni, della poesia e della critica di poesia. È quanto sembra accadere nel caso di Alessandro Ghignoli, poeta insignito del prestigioso Premio Montano nel 2010 per un libro splendido come Amarore (Kolibris, 2009) e poi scomparso dai radar italiani – fatta eccezione per le ultime notizie, relative a La trasmutanza (Sigismundus, 2014) – in virtù della sua ormai lunga esperienza di docente presso l’Università di Malaga.

Ora Ghignoli torna con una lenta strana cosa, per citare il titolo del libretto in questione, per Formebrevi edizioni, piccola e coraggiosa casa editrice dedicata anch’essa all’oggetto del quale porta il nome. Le 88 pagine di cui si compone il libretto, infatti, non sono né di poesia né di prosa (né di prosa poetica né di prosa in prosa, se è per questo), dove la lenta strana cosa che il lettore coglie nel suo farsi è la narrazione della distanza, del lutto e della sua rielaborazione, di quella concatenazione dei gesti che è ancor più capace di creare vita della vita stessa. Si potrebbe credere un racconto autobiografico, ma il testo di Ghignoli non cede a questa tentazione, come dichiara l’autore, con lucidissima consapevolezza, in quarta: “Non è un romanzo su di me, non è me, è tutti gli altri me, i personaggi che abitano il personaggio, il loro discorrere, il loro scorrere tra pensieri e inciampi e parole lasciate al lettore, e quelle non scritte, mai dette, lasciate al lettore, lasciate tra “Prologo” ed “Epilogo”; in quello spazio, che manca ed è, altri piani altri dire. Lì c’è la scrittura, se di scrivere si tratta, se scrivere è ricostruire il mondo nei mondi, con le parole ogni altro ancora”.

Si riporta integralmente la citazione, poiché è nel trovare questo preciso segreto della scrittura che Ghignoli infrange ancora una volta il silenzio, proponendo stavolta un silenzio rotto (non solo per l’emergere dell’opera, ma anche per la sua sintassi franta e tuttavia carica di nominalizzazioni e astrazioni, che talvolta seducono, talvolta impaniano) in luogo del Silenzio rosso della sua precedente prova in prosa (Via del Vento, 2003). Si riportano queste parole, anche perché vi si ritrova l’ibridità della matrice retorico-stilistica ibrida del testo e la consegna ideologica della scrittura: lasciare parole al lettore. Ciò può avvenire soltanto come avviene al narratore, nel proprio silenzio domestico: “Una mattonella della cucina aveva richiamato la mia attenzione, in quella piccola crepa scoprii che vi si nascondeva e si mostrava tutta la certezza possibile, la musica delle parole che un giorno avrei scoperto per divenirne padrone senza poteri” (p. 39). Al netto di alcuni ispanismi e alcuni refusi emendabili, è questo lascito di padronanza senza potere – rispetto alla lingua, ma anche al sistema letterario – che caratterizza in modo preciso la scrittura di Ghignoli. Un lascito che sarebbe ingiusto sperperare, anche a distanza.

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