Teoria e Poesia

(Questo testo è incluso nel volume Teoria e poesia, curato da Paolo Giovannetti e Andrea Inglese, per le edizioni Biblion di Milano. Il volume raccoglie 11 testi di altrettanti autori che su invito dei curatori hanno realizzato una giornata di studio, con interventi e discussioni, alla Libreria Claudiana di Milano il 16 settembre 2017. Gli autori sono Giulio Marzaioli, Florinda Fusco, Vincenzo Frungillo, Stefano Ghidinelli, Italo Testa, Mariangela Guatteri (responsabile anche dell’immagine di copertina), Lorenzo Cardilli, Luigi Severi, Stefano Versace, Simona Menicocci.

 

Spazio poetico e dispersione

di Vincenzo Frungillo

 

Cosa intendiamo per spazio poetico? Per rispondere a questa domanda è necessario partire da principi basilari fornitici dalle riflessioni di alcuni pensatori contemporanei. Nel saggio L’Iliade poema della forza Simone Weil parla di una dinamica segreta che agisce nella scrittura, gli interpreti del suo discorso sono Achille ed Ettore che artefici della battaglia infinita fra forze opposte: il primo allegorizza la forza della dispersione, che possiamo leggere genericamente come il nuovo che travolge, l’inaspettato, ma anche come lo straniero, il totalmente altro, l’estraneo, o ancora, il dato meramente naturale, il dato biologico; il secondo incarna la tradizione, il luogo della casa , la regola indiscussa, il rifugio, la maniera, il codice riconosciuto. Per la Weil le forze opposte non smettono mai di agire l’una contro l’altra, sono in una funzione di tensione costante. Nel poema delle forze tutto è anelito, thimos, come ci ricorda il filologo Onians ne Le origini del pensiero europeo. Questo paradigma resta un punto di riferimento essenziale, anche se altri studiosi hanno aggiunto qualcosa alla teoria di Weil. Tra gli altri ricordiamo un intervento più recente di Nicola Gardini che ci ricorda che esiste un momento in cui si arriva all’equilibrio delle due forze in campo: è la scena famosa del canto XXIV dell’Iliade che racconta la restituzione del corpo di Ettore a Priamo. Il padre, testimone della tradizione, chiede ad Achille, di poter celebrare il funerale del figlio, di colui cha avrebbe dovuto garantire la trasmissione dei codici e delle regole familiari. La pietà di Achille di fronte a Priamo e la conseguente restituzione del cadavere di Ettore sanciscono il riconoscimento delle forze in gioco. Questo punto è anche il momento dell’equilibrio tra dispersione e conservazione. Come ci ricorda Furio Jesi, in Letteratura e mito (Torino, 2002), qui avviene una cosa precisa e importante:

«Il cadavere di Ettore è i simbolo di quell’elemento di morte che sta nel seme della procreazione. Nel discendere agli Inferi per ottenere il cadavere di Ettore, Priamo ricerca quella parte di morte che trasmise al di fuori di sé nell’atto del generare Ettore. Nel generare è quindi implicita una partecipazione alla morte: passato e avvenire sono partecipi della morte: antenati e figli sono i vincoli che l’uomo ha con la morte. Ma dai suoi predecessori l’uomo trae vita, e nei suoi figli l’uomo trasmette la vita. È quindi quel flusso di vita –nel cui centro sta l’uomo presente- che è mescolato di morte.»

 

Il cadavere di Ettore porta in sé il ricordo della dispersione, è monito e memoria della possibilità della perdita. Le forze evidenziate da Simone Weil hanno quindi nello studio di Jesi un legame stretto e non si pongono in contrasto secondo una modalità diaretica, anzi esiste una relazione tra dispersione e conservazione che implica l’una nell’altra. Questo legame anodino viene sciolto dallo studio Jean-Pierre Vernant (La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna, 1985) quando, con argomentazione antropologiche, spiega la rilevanza del rito funebre per l’Iliade e per la poesia occidentale:

«Nel rapporto che si stabilisce, attraverso le forme di memorizzazione collettiva, tra l’individuo nella sua biografia eroica e il pubblico, l’esperienza greca della morte si trasferisce su un piano estetico ed etico (con una dimensione “metafisica”). Così come i Greci hanno elaborato quello che gli storici della matematica hanno chiamato l’idealità dello spazio, si potrebbe dire che essi hanno costruito l’idealità della morte o, per essere più esatti, che hanno cominciato a socializzare, a civilizzare la morte –cioè neutralizzarla- facendone l’idealità della vita.»

La parola poetica è quindi lo spazio che nomina la morte, mentre la allontana. Tale movimento di fondo è  “lo spazio ideale” che è anche lo spazio originario della scrittura. Se analizziamo l’oggetto del contendere nella disputa tra mero dato naturale (la dispersione) e il codice della tradizione (la cultura) possiamo notare che la parola greca soma (corpo privo di vita), che troviamo nelle parti finali del poema, è la sola che indichi direttamente “il corpo” e non una sua qualità o funzione (ancora Onians).  La parola soma ha la stessa origine di sema, stando agli studi di Sigrid Weigel, la quale ci ricorda la possibile relazione tra i due termini  separatasi nella radice con la divisione “tra genealogia e storia della lingua, tra riproduzione fisica e intellegibile” (Traduzione come rapporto provvisorio con l’alterità delle lingue, Macerata, 2014). Il funerale di Ettore, il rito di cremazione con cui si chiude l’Iliade, fa del corpo lo spazio ideale in cui ricordare la possibilità della dispersione. Questo passaggio del poema ci dice qualcosa di ineludibile: la poesia è memoria della potenziale dispersione proprio perché è lo spazio in cui si inscena il rapporto con l’estraneo. In Agamben (Infanzia e storia, Torino, 1978) lo stesso aspetto è espresso con la relazione tra aspetto endosomatico ed esosomatico della lingua: «L’homo sapiens si può così definire come specie vivente che è caratterizzata da una doppia eredità, in quanto affianca alla lingua naturale (il codice genetico) un linguaggio esosomatico (la tradizione culturale)». Alla luce delle suggestioni fornite dalla Weil e da quanto ci dicono Jesi e Vernant, l’estraneo è il corpo, il soma avulso dalle sue funzioni quotidiane, inteso quindi come mero dato biologico, la parola (sema) è invece il ricordo e la limitazione della dispersione. L’artificio, la parola, è il mezzo con il quale ricordiamo e conteniamo la potenziale natura biologica che ci caratterizza in quanto esseri viventi. La relazione originaria tra questi due aspetti è il principio stesso del linguaggio e potremmo anticipare dello stile. Non esiste una gerarchia tra i due ambiti (bios e logos), non possiamo definire la supremazia di una sfera sull’altra. Giovanni Bottiroli, commentando il pensiero di Blanchot, ci ricorda che esiste una strada del pensiero che interpreta l’essenza del linguaggio sulla base di una “logica relazionale” per la quale non  esiste un movimento di superamento e di esclusione delle alternative in gioco, i due opposti permangono in relazione e proprio nella relazione trovano la loro essenza. Blanchot ce ne parla in questi termini (Parola plurale, Torino, 2015):

«La presenza è l’intimità della distanza e nello stesso tempo la dispersione del Fuori, o più esattamente è l’intimità come Fuori, l’esterno trasformatosi nell’intrusione che soffoca, nel capovolgimento dell’uno nell’altro: quello che abbiamo chiamato “la vertigine della spaziatura”.»

Il fuori, l’estraneo, è il richiamo costante che fa da sfondo alla nostra vita di esseri senzienti e obbliga alla parola come forma riparatrice. Questa relazione non è annullabile, in quanto è essa stessa a darci la possibilità di tracciare il campo in cui disporre i codici o le regole del gioco. La dispersione e la conservazione, la natura e la cultura, il bios e il logos, si approssimano e si allontanano in un moto continuo mantenendo aperto il diaframma che li approssima. Questo principio dà vita al fondo mobile che caratterizza l’espressione poetica, la relazione inestricabile tra i due è il centro stesso e il motivo originario dello spazio poetico.

Di recente Édouard Glissant in Poetica della relazione (Macerata, 2007) ha dato utili indicazioni in questo senso. Egli ripropone, sul piano mondano e delle dinamiche socio-politiche della contemporaneità, il frasario caro all’Heidegger anteriore a Sein und Zeit, quando il filosofo tedesco con il sich verhalten  elaborava la terminologia necessaria per la sua analitica esistenziale e l’in-der-Welt-Sein. In Glissant la progettualità dell’uomo, l’essere naturalmente rivolti verso qualcuno e qualcosa, giustifica il senso di accoglienza della parola:

«La Relazione, che agita l’umanità, ha bisogno della parola per editarsi, per perpetuarsi. Ma, giacché il suo racconto non procede da un assoluto, essa si rivela come la totalità dei relativi messi in rapporto e detti. […] In queste condizioni, il pensiero poetico è all’erta: sotto il fantasma della denominazione ha cercato il mondo realmente vivibile. Si è proiettato verso.»

Lo spazio poetico è quindi il risultato della relazionalità originaria e, proprio sulla base di ciò, è figurazione dei possibili rapporti combinatori. Un testo poetico a sua volta è la messa in opera della resistenza alla dispersione, è accoglienza del relato: in questo senso la composizione del testo poetico è la necessità di limitare, disegnare e strutturare un mondo. La composizione è di già regola cosmogonica e allegorica così come la descrizione di un mondo allude alla dinamica che l’ha permessa, e le sue parti, le figurazioni, le voci o i personaggi, sono gangli o snodi da cui si dipana lo spazio. Ciò che agisce è il diaframma che approssima bios e logos, questo spazio primigenio può assottigliarsi fin quasi a scomparire, o può essere reso manifesto nell’ostensione massimalista di opere mondo. Il biologismo, inteso come paradigma interpretativo della specie aldilà di qualsiasi umanesimo o umanismo, la riduzione computazionale dei bisogni, e la conseguente alienazione della sfera desiderante, sono due declinazioni del post-umano affiorate nella produzione letterarie del nostro attuale panorama. Entrambi alludono in realtà allo stesso fenomeno: ipotizzano la riduzione dello spazio poetico sulla base dell’annullamento delle differenza tra le due forze in campo (la dispersione e la conservazione). Nel primo caso parleremmo di pura dispersione, nel secondo di pura conservazione. Se ciò accadesse il risultato sarebbe l’annullamento della relazionalità e l’oblio del fondo mobile che caratterizza l’esperienza poetica. Questa declinazione nichilista dell’esperienza poetica, a volte motivata da una genuina necessità mimetica di fronte al reale, si traduce nella negazione di qualsiasi tecnica compositiva a favore di una riproduzione dimessa, fredda e prosastica del dettato; di fronte a questa poetica bisogna però ricordare l’essere in potenza dell’”estraneo” e la costitutiva impossibilità di una sua riduzione a paradigma; fare questo significa confondere la regola che permette i giochi con una delle sue applicazioni. La reificazione del linguaggio che caratterizza la nostra contemporaneità sembra rendere urgente il ricordo di questo principio perché “l’alienazione non può venire superata da una letteratura alienata”.

Volendo confrontarci con un esempio di poesia che mette tematizzi il perdersi, o la minaccia della perdita dello spazio ideale di fronte alla pura dispersione,  dobbiamo prendere in considerazione gli scritti di Pagliarani. Il poeta presenta uno scenario storico in cui i personaggi, e con essi il loro spazio-mondo, possono scomparire “come le scene di un teatro”. La ragazza Carla nel finale del famoso poemetto svanisce in un coro che ha lo stesso effetto del coro greco, fa apparire sulla scena l’oggettività della legge storica:

Quanto di morte noi circonda e quanto

tocca mutarne in vita per esistere

è diamante sul vetro, svolgimento

concreto d’uomo in storia che resiste

solo vivo scarnendosi al suo tempo

quando ristagna il ritmo e quando investe

lo stesso corpo umano a mutamento.

Ma non comprende per dare

empito e farsene diritto:

non c’è risoluzione nel conflitto

storia esistenza fuori dell’amare

altri, anche se amore importi amare

lacrime, se precipiti in errore

o bruci in folle o guasti nel convitto

la vivanda, o sradichi dal fitto

pietà di noi e orgoglio con dolore.

Queste parole sono la presa d’atto di un destino comune, ben oltre la contemporaneità, anche se in essa si radica. In Proseguendo un finale, la prima lettera di Lezione di fisica, Pagliarani scrive che i corpi non hanno figura, sono privi d’immagine. L’unico elemento che il poeta riconosce in quanto agente del reale e della stessa versificazione è la forza.

Perché è lontana anche la carnale

scoperta dell’amore sintesi

e dell’insufficienza anche di questo

sapendo perfino che cosa vuole di più

-Ma più capisci e più ami più pesa la tua parte d’Atlante

Lo so perché lo dirò ma in un certo contesto

solo a dirlo mi sento grottesco

la forza. Senza forza

amore e intelletto nemmeno servono

a definire se stessi, ma per quant’altro poco sappia della vita

quanto attrito che brucia, assieme come sono stridenti!

Ritorna la forza al centro della poesia. Pagliarani lascia scritto in un verso apodittico e sublime allo stesso tempo che “senza forza amore e intelletto nemmeno servono a definire se stessi”. Scrivendo del corpo nero e della legge d’indeterminazione in Lezioni di Fisica, dell’impossibilità di definire i principi ultimi che regolino lo spazio o la rappresentazione di un corpo, Pagliarani affronta il senso della composizione poetica; ragiona sui cambiamenti epocali, storici, politici, sociali, che sottostanno alla rivoluzione della fisica del ventesimo secolo, ma allo stesso tempo risponde alle questioni di poetica e formali sollevate da Franco Fortini. Il poeta tiene insieme i due ambiti, politico-sociale e poetico, sulla base di una riflessione sui principi primi della scrittura. Nel 1968 Fortini pubblica due saggi polemici nei confronti delle neoavanguardie nei quali rimprovera il movimento di concepire la poesia come “negazione radicale” contro “il compromesso dell’incarnazione” o della “mediazione formale”; prendendo di mira Perlini, scrive (Verifica dei poteri, Torino, 1989):

«Il paradosso dell’Avanguardia […] è quello di non accettare l’incarnazione (è peccato di spiritualismo, sempre …), di rifiutare quello che qui viene chiamato il “compromesso” (connotandolo come spregevole e ambiguo) e che è invece, molto semplicemente, l’opera nella sua oggettività.»

La condivisione, che è poi l’”oggettività” dell’opera poetica, è insieme conoscenza e superamento del reale. La colpa delle neoavanguardie, a parere di Fortini, nasce invece dalla negazione radicale che testimonia “un forte istinto di autodistruzione”; la negazione della forma ha le sue radici nelle avanguardie storiche ma, contrariamente a queste, si prepara all’inserimento immediato nel mercato. Per  Fortini in questa esperienza poetica manca la Vermittung, “la mediazione formale”, il passaggio necessario alla risoluzione del conflitto in una forma definita. Il critico di verifica dei poteri ha ben presente il pericolo di un’esposizione della scrittura alla disseminazione. Più che ampliare il campo dell’indistinto bisogna circoscrivere lo spazio della comprensione del mondo. La poesia in questo senso ha il compito di superare la fase conflittuale con l’esterno. Pagliarani precisa la sua posizione rispetto alle due proposte teoriche. Il poeta emiliano, non si pone dalla parte dell’hegeliano Fortini, ma neanche a favore della soluzione informale delle neoavanguardie, egli si impegna in una riconsiderazione della composizione come relazione (da qui il senso allegorico della forma testo, l’epistola), e della riconsiderazione etica, ontologica, dello spazio del testo. Ciò che interessa a Pagliarani è confrontare Fortini con le ragioni della pura dispersione. Pagliarani scrive egloghe e versi sulla permanenza del gioco di forze sulla “grammatica di Achille”, cerca un centro, un nucleo che garantisca la possibilità della raffigurazione di un corpo e quindi dello spazio che ad esso si riferisce. Il comune denominatore nelle lettere è il problema del rilievo di un corpo: il corpo c’è in quanto differenza, il corpo c’è in quanto negazione. Qui si anticipano le ragioni metafisiche degli Esercizi platonici in cui scrive Pagliarani:

Ecco il dono secondo tradizione:

tutto ciò che diciamo essere

consta d’uno e di molti e in sé contiene

un elemento determinante e una

indeterminazione

Le due forze archetipiche, che la stessa definizione fisica ha individuato, quella della dispersione e della conservazione, vengono qui riscoperte aldilà di qualsiasi tradizione scritta vincolante:

Non una grandezza che varia o un concetto che varia

perché concetto, grandezza, numero, proprietà

non possono variare (per quanto è ovvio una cosa

possa avere differenti proprietà in tempi diversi)

Una variabile

è piuttosto un simbolo con una determinata proprietà

Ma quale

se la variazione di significato di un simbolo non è possibile entro un [linguaggio

dato che ciò rappresenterebbe il passaggio

da un linguaggio all’altro

Se “Q” è un pr costante da “Q(x)” sono derivabili

le proposizioni “Q(Praga)”, “Q(a)” e “Q(b)” che non sono

però derivabili da “Q(a)”. Ciò mostra che mentre x è una variabile, “a” [pur indeterminata

è una costante: in altre parole “a” designa una (certa) cosa

soltanto per il momento non è detto quale.

 

Nella logica di Carnap l’unico simbolo che non cambia, ma che fa cambiare di senso alle proposizione nelle quale è inserito, è la variabile. Questo è il paradosso stesso del corpo. Non si dà mai una volta per tutte, resta immutato nel suo negarsi. Pagliarani “ragiona sulla variabile” ma in realtà ragiona ancora sullo “stesso corpo umano a mutamento”. Questa regola si può così tradurre: ogni proposizione è fatta di costanti che hanno senso solo in quanto negazione di se stesse e di variabili che hanno significati propri in quanto simboli della negazione; ogni corpo è tale solo in quanto negazione di se stesso, mentre di fronte agli altri da sé resta fisso nel suo valore di negazione. Il corpo è percepibile solo in quanto negazione, è quindi un valore vuoto ma fondante. Di fronte a questa verità, qualsiasi affermazione diventa frutto di un’intenzione, qualsiasi determinazione è intenzionale. La mutazione del paradigma scientifico (l’indeterminazione) non elimina in realtà il nodo della composizione come resistenza alla dispersione. Non quindi la pura negazione, ma la disposizione di apertura secondo una logica relazionale. Lezioni di fisica ripropone lo stesso nodo centrale sia quando affronta la logica di Carnap, sia quando canta la fisica quantistica o la raffigurazione come mimesis. A questo punto Pagliarani tira le somme di quanto resta della tradizione occidentale, una metafisica ridotta all’essenziale, i suoi testi sono l’esempio della registrazione del destino del corpo e dello spazio che intorno ad esso si organizza, ma sono anche raffigurazione del senso della forma e del poiein, così come abbiamo indicato attraverso gli studi di Simone Weil e successivamente di Jesi e Vernant.

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