InVersi Fotografici: La memoria del male – Wilhelm Brasse “il fotografo di Auschwitz” Vs Primo Levi

di Cinzia Accetta

 

L’inVerso fotografico di oggi celebra la Giornata della Memoria. Ho scelto Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz, a fare da raffronto alle note parole di Primo Levi. In verità, Brasse non fu l’unico fotografo dei Campi: come lui lavorarono ad esempio Georges Angéli a Buchenwald, Francisco Boix a Mauthausen. Ma le immagini di Brasse documentano con agghiacciante sistematicità l’avanzare della follia omicida del nazismo nei campi di sterminio.

La legge 211/2000 ha istituito il 27 gennaio (data della liberazione dei sopravvissuti dal campo di sterminio di Auschwitz) Giorno della Memoria, affinché non si dimentichi lo sterminio sistematico del popolo ebraico ad opera del regime nazista e fascista nella seconda guerra mondiale.

Ricordare serve a far si che il male non ritorni, serve a impedire alla cattiveria, insita nell’animo umano, di riaffiorare sorretta dall’odio, dall’ignoranza e dalla paura. Razzismo, ingiustizia, diritti umani negati, centinaia di migliaia di migranti e profughi che vengono respinti ogni giorno, non possono essere ignorati e rappresentano oggi come ieri le tante facce del nuovo genocidio che si consuma nell’indifferenza generale. Non c’è memoria senza rispetto della storia. Le responsabilità non riguardano solo la Germania nazista, ma anche l’Italia fascista.

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Il Giorno della Memoria deve farci riflettere sulla storia dell’Italia e sulle troppe rimozioni che tentano di cancellare dalla memoria collettiva la responsabilità di governi e istituzioni. La monarchia e il regime fascista, con leggi razziali del 1938, volute dal dittatore Mussolini privarono di ogni diritto gli ebrei e favorirono la loro discriminazione e la successiva deportazione nei campi di sterminio in piena ed efficace collaborazione con i nazisti. Il New York Times riporta, attraverso le pagine del suo sito ufficiale, i risultati-shock di un’indagine condotta negli ultimi trent’anni dall’Holocaust Memorial Museum di Washington: in tutta Europa i nazisti organizzarono, tra il 1933 e il 1945, 42.500 siti – dai ghetti ai campi di concentramento – adibiti alla persecuzione e all’eliminazione degli ebrei. In questi luoghi sono stati imprigionati, stando sempre alle stime della ricerca del museo dell’Olocausto di Washington, tra i 15 e i 20 milioni di individui. E lì alcuni milioni di persone – tra i 5 e i 6 – hanno perso la vita. Tra di loro c’erano anche anche rom, contestatori del regime, comunisti, omosessuali, malati di mente ed esponenti di altre minoranze religiose. Tutti vittime della stessa Shoah.

Le immagini che vi propongo sono del fotografo polacco Wilhelm Brasse, internato ad Auschwitz per cinque anni durante i quali ritrasse per i nazisti tutti i prigionieri e le pratiche mediche nonché le sevizie a cui furono sottoposti. Il prelievo forzoso dell’identità era la premessa all’eliminazione, l’annullamento della condizione di essere umano e decretava il passaggio al rango di prigioniero destinato all’eliminazione. Lo sgabello per la posa, un cubo di legno, veniva fatto girare su se stesso da un pedale azionato dal fotografo che così, senza allontanarsi dalla fotocamera, in pochi secondi impressionava le tre “viste” d’ordinanza: fronte, profilo e trequarti.

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Brasse era un internato: polacco, non ebreo, anzi ariano, ma renitente all’arruolamento nella Wehrmacht. Il suo mestiere lo salvò. Internato nel 1941 col numero 3444, Brasse era un privilegiato. Il lavoro ufficiale gli garantiva la vita, mentre quello ufficioso (ritratti per gli ufficiali) gli procurava qualche agio di contrabbando, cibo, sigarette. In cambio lui, rischiando la vita, salvò dalla distruzione e preservò i documenti del “male assoluto”, oltre cinquantamila ritratti di sterminandi, e visioni di altri orrori: è grazie a Brasse se sappiamo come tutto ciò avvenne in pratica. Brasse collaborò con la resistenza polacca del campo e con l’Armata rossa alle porte, decise a rischio della vita di disobbedire all’ordine di bruciare tutto l’archivio. Abbandonò decine di migliaia di immagini nella baracca dove i russi le avrebbero trovate. Confusamente, Brasse aveva intuito che quello schedario avrebbe reso alla storia l’infame testimonianza.

Oggi molte di quelle immagini (non quelle più intollerabili, tuttora segrete) sono visibili allo Yad Vashem e al museo di Auschwitz. La vita di Wilhelm Brasse, Il fotografo di Auschwitz, è ora narrata da Luca Crippa e Maurizio Onnis (Piemme, 336 pagine, 14,90 euro).

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Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una famiglia ebrea di intellettuali piemontesi. Laureato in chimica e chimico di professione, diventa scrittore dopo la traumatica esperienza della deportazione ad Auschwitz.

Il tema fondamentale delle poesie di Primo Levi è quello dell’esigenza del ricordo; di fronte all’immane tragedia di cui è stato protagonista, Levi infatti identifica nella memoria dell’orrore l’unico strumento per reagire al dramma e per fare sì che questo non possa mai più ripetersi. L’importanza di questo tema è tale da diventare un comandamento morale, cui nessuno di noi può sottrarsi; da qui deriva la perentorietà del tono del poeta, che si traduce in uno stile secco ed asciutto, dall’andamento assai prosastico.

Fino al ’38 Primo Levi è un normale studente con la passione della chimica. Le leggi razziali gli fanno aprire gli occhi sulla natura del fascismo e lo spingono verso l’azione politica. Alla fine del ’42 entra nel Partito d’Azione clandestino e dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si unisce a un gruppo partigiano della Valle d’Aosta. Ma catturato dalla milizia fascista il 13 dicembre dello stesso anno, viene internato nel campo di concentramento di Fossoli e nel febbraio del ’44 deportato ad Auschwitz. Nel Lager, dove rimane circa un anno, Primo Levi riesce a sopravvivere grazie a circostanze fortunate, che ricorderà per tutta la vita. Racconterà infatti:

Sono stato fortunato: per essere stato chimico, per avere incontrato un muratore che mi dava da mangiare, per avere superato le difficoltà del linguaggio…; mi sono ammalato una volta sola, alla fine, e anche questa è stata una fortuna, perchè ho evitato l’evacuazione dal lager: gli altri, i sani, sono morti tutti, perchè sono stati deportati verso Buchenwald e Mauthausen, in pieno inverno“.

A testimonianza di questa tragica esperienza, Primo Levi scrive nel ’46 e pubblica nel ’47 Se questo è un uomo, il libro che 10 anni più tardi sarà riconosciuto come il capolavoro della letteratura concentrazionaria. Le raccolte poetiche L’osteria di Brema, ’75; Ad ora incerta, ’84 ed altre poesie, riunite postume, sono anticipate dai versi che precedono Se questo è un uomo e La tregua , anch’esse ispirate alla tematica del Lager.

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da Primo Levi, Opere II: romanzi e poesie, Giulio Einaudi editore 1988;

 

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per un pezzo di pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

*

La tregua

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawac’»;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
« Wstawac’».

*

Le pratiche inevase

Signore, a fare data dal mese prossimo
voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
Sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
una parola saggia, un dono, un bacio;
ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare città lontane, isole, terre deserte;
le dovrà depennare dal programma
o affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
costruirmi una casa, forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro meraviglioso, caro signore,
che avrebbe rivelato molti segreti, alleviato dolori e paure,
Sciolto dubbi, donato a molta gente
Il beneficio del pianto e del riso.
Ne troverà traccia nel mio cassetto,
in fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla.
È peccato, sarebbe stata un’opera fondamentale.

 

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