Georges Bernanos
di Claude Aveline (traduzione di Giovanna Zulian)
“Perché si dice avanzare nella vita? scrisse un giorno Georges Bernanos. È nella morte che si avanza, è nella morte che sprofondiamo senza tregua, come un’opera lenta a venire.”
Questa dichiarazione formale fa da epigrafe a un volume dal titolo: Il tema della morte nei romanzi di Bernanos. In effetti, noi non siamo di fronte a un uomo sorpreso dalla morte quando l’ha vista apparire, il 5 luglio del 1948, all’età di sessant’anni. L’opera avrebbe potuto intitolarsi più giustamente: L’ossessione della morte nella vita di Bernanos. Anche perché l’autore di Sotto il sole di Satana e La Gioia diceva di non essere uno scrittore. Considerava il suo lavoro come una vocazione. “Scrivo come soffro o come spero”.
Ritenere la morte come uno dei suoi “temi”, foss’anche il principale, falserebbe i rapporti costanti che con essa intratteneva. Egli viveva in funzione della morte, “come un’opera lenta a venire”, poiché era la morte del credente, “O morte così fresca! O unico mattino!”. Non senza provare, né senza descrivere ogni sorta di paura davanti alle maschere che essa è capace di indossare nel corso della vita stessa. Non senza essere anche l’uomo così vivo che fu.
Risate, collere, entusiasmi, odio per i dissoluti, passione per la giustizia, fedeltà all’infanzia, tutto si esprimeva in lui come un’esplosione. Combattente in gioventù, partigiano monarchico: una manifestazione gli costò un soggiorno alla Santé. Si arruolò volontario nel ’14, come dragone, fu ferito molte volte. Nomade – “Lasciare il campo!” – da una parte all’altra della Francia, Baleari (tre anni), Paraguay (undici giorni), Brasile (sette anni), ma con la sua numerosa famiglia, non cessando di fremere, durante l’occupazione, per il paese oltraggiato, che egli ha servito con una penna ammirevole ed efficace. Un incidente di moto, nel 1933, l’aveva reso infermo a una gamba. Si reggeva con delle stampelle che gli aumentarono la potenza delle spalle, il peso della forza naturale. Persino nella solitudine che detestava quando credeva di desiderarla, apparteneva al mondo degli uomini come una quercia al mondo delle querce – una quercia che avrebbe vissuto per le altre querce.
“Quando sarò morto – dichiarava un commiato nel suo Diario di un curato di campagna – dite al dolce regno della Terra che l’ho amato molto più di quanto abbia mai osato dire.”
Rientrato dal Brasile nel luglio del 1945 (aveva tentato di diventare allevatore e fattore: una catastrofe; Bernanos non ha mai smesso di essere povero), continua a pubblicare qui degli articoli di guerra. Si disinteressa del romanzo. Sogna di una Vita di Gesù, e vi si prepara in Tunisia, là dove va ad arenarsi dopo nuove peregrinazioni. Vi scrive in vista di un film Dialoghi con le Carmelitane, tratto da un racconto della scrittrice tedesca Gertrud von le Fort. Il giorno stesso in cui lo termina, nel marzo del 1948, un attacco d’itterizia, di cui soffre da un po’, lo costringe a letto. Non si alzerà più. Si volle tentare un’operazione. Fu condotto a Parigi. L’abate Daniel Pézenil, che non lo lasciò quasi mai durante il mese di agonia, ne fece un dettagliato resoconto. Bernanos gli aveva chiesto “di farsi trovare all’uscita della sala operatoria nel caso in cui la barella non portasse che un cadavere”. E abbandonandosi, cantò la Marsigliese.
Dopo qualche giorno, malgrado i dolori del suo stato, o forse proprio a causa di questi, si credette salvo. All’ospedale americano di Neuilly, in cui si trova, scherza con un elettricista giunto nella sua stanza per una qualche riparazione e traduce l’ultima parola di Goethe: “Della luce! Della luce! Luce! Luce!”.
Si documenta per la sua Vita di Gesù. Vorrebbe finire un’Enciclica ai Francesi per incitarli a riprendere fiducia in se stessi. “Enciclica? Ecco che mi metto a fare il papa…” Si preoccupa della sua situazione materiale presente e futura, di quella della sua famiglia, se…
Il se diviene presto una certezza. La domenica sera del 4 luglio, dice a sua moglie: “Ecco che sono preso dalla santa Agonia”. Per lui fu davvero, etimologicamente, il momento cruciale, di cui aveva riempito la sua opera e le sue meditazioni (ci torneremo); aveva annotato in gennaio nella sua agenda: il Cristo “ricomincia a morire in ogni uomo in agonia”.
Poco dopo ha bisogno di ossigeno. Dice ai suoi: “Ma andate a riposarvi… andate a dormire… sarete stanchi…”. In verità, sembra che non voglia infliggere loro il peso della sua sofferenza. O che voglia stare solo per un’altra battaglia. Perché, nel pieno di un’oppressione terribile, d’un tratto urla: “A noi due!”.
Piombò nel sonno o nel coma, per uscirne alle cinque del mattino, ripetendo il nome di sua moglie e poi spegnendosi.
“A noi due!” Non conosco una parola più enigmatica, tanto essa suggerisce interpretazioni diverse. All’inizio, semplicemente, una sfida al dolore. Ma più ancora alla morte, poiché l’ossigeno somministrato al morente gli ha reso la forza di vederla apparire, di guardarla in faccia. Aveva l’ossessione di essere ghermito in un momento d’incoscienza. La vigilia aveva detto: “Se dormo, sarà finita”, e non voleva finire così. “Vedersi morire”: il suo amico Albert Béguin racconta che una sera, due anni prima, Bernanos si era immaginato davanti a lui che si potesse “morire, affacciarsi al segreto dell’aldilà, per poi ritornare per qualche secondo, con il privilegio di conservare la memoria della luce intravista e di contemplarla con occhi vivi, occhi di questo mondo, prima di morire una seconda volta, definitivamente”. Tutte le agonie che ha dipinto riflettono questa volontà: vedersi morire. Su una copia de La Gioia scrisse come dedica: “Sapete dalla lettura di questo libro (e degli altri) che, da specialista della gioia, riesco abbastanza bene nelle agonie. Che io possa non fallire la mia!”.
“A noi due!”. È un’apostrofe al demone?
Anche alla vigilia si era preoccupato col suo confessore: “Credete che il Buon Dio perdonerà i miei peccati?”. La luce gli apparve di colpo, come il sole di Satana? Più volgarmente, perché l’agonia gioca di questi scherzi, l’improvvisa figura di una delle sue bestie nere, un confratello disprezzato – li contava a decine – un dittatore odiato, di cui si erano nutrite le sue polemiche e le sue opere di rivolta, I grandi cimiteri sotto la luna e Gli scritti di guerra?
Ma “A noi due!”, è ugualmente la sfida che Rastignac lancia a Parigi dall’alto di un cimitero dopo l’inumazione di père Goriot. Bernanos, che non si definiva scrittore, era fissato con Balzac, lo considerava il romanziere per eccellenza. Apprendo dall’abate Morel che, nei suoi ultimi giorni, egli espresse il timore di non aver compreso né servito sufficientemente i propri personaggi; li sentiva protestare dentro, in particolare la misera e tragica Mouchette – ritroviamo sempre il primo libro, il suo Sole di Satana.
E mi chiedo, per finire, se questo veemente “A noi due!”, Bernanos l’abbia pronunciato in suo nome. Se, piuttosto, Mouchette o un qualche altro personaggio da lui torturato un tempo, non abbia preso in prestito la sua voce per una resa dei conti, nell’istante in cui il creatore raggiunge le sue creature nel mondo dei nostri ricordi.
Digressione, di Giovanna Zulian
Ci sono queste giornate autunnali, in campagna, in cui i lievi raggi di sole di tarda mattinata fanno breccia attraverso la nebbia che sospira dai campi arati. Il caldo e l’umido si abbracciano in tinte tenui grigie e beige. Raggi come piccole lame che lambiscono occhi morenti.
“Vedersi morire”, dice Bernanos: il suo desiderio più ossessivo, tornare per poco a testimoniarlo, prima di una seconda morte. Lui, esperto di agonie altrui, si preoccupava della propria come di un rituale che doveva essere perfetto, quasi alla Mishima.
Tutte le foto post mortem non testimoniano esattamente questa perfezione, ma lo sforzo, l’incanto di pietra di uno sguardo che rimane evanescente, fa scendere la mandibola e rimane, pare, stupefatto. La morte si mostra come quel raggio forte eppure sottile del sole che acceca la nebbia.
“A noi due!” urla Bernanos alla morte, al demone, alla vita. Ma a quel punto gli basta il silenzio e “lasciare il campo” per entrare nella nebbia che tutto avvolge e pacifica, senza più fughe angosciose e paure di maschere da interpretare.