SPAZI METRICI / “Fin qui visse un uomo” di Gerardo Masuccio

Recensione di Felicia Buonomo

«Perché abito il punto fermo / se sono misura di tutto?». “Fin qui visse un uomo” (edito da Interno Poesia), esordio poetico di Gerardo Masuccio, si apre con un interrogativo. È singolare, e perfettamente aderente alla funzione poetica che incarna l’autore. Perché l’arte, della parola, è divenire, è smuovere, è l’atto politico che si insinua nel quotidiano (e che dal quotidiano parte), per stravolgerne il senso e – se ben riuscito – anche la pietra aguzza delle certezze. E se è vero – come ci ricordava Carmelo Bene – che “per capire un poeta ci vuole un altro poeta”, è anche vero che per capire la poesia ci vuole un buon poeta, il suo «esser qui», per «sbaglio», Masuccio dice, mentre noi crediamo – leggendo – sia, invece, per necessità di varcare la soglia che porta oltre l’immobilità di chi non vuole cogliere il canto, che fa eco nelle pareti del silenzio, tanto caro all’autore.

Sembra messaggio di sostanza anche la scelta degli incisi, utilizzati con regolarità, che ci riportano alla poetica di stile di Emily Dickinson. Ogni autore ha il suo tratto, le sue preferenze, che si riflettono nella struttura stilistica; ogni attento lettore nota e ricorda, ad esempio, i due punti nei due punti di Pier Paolo Pasolini o l’abbondanza – molto gradita a chi scrive – delle proposizioni incidentali della poetessa della solitudine. E allora, la parentetica, la frase nella frase, si fa materia di continuità – sembra – nella scelta della catena testuale, che scorre come un lungo piano sequenza.

Papà, mamma che ricorda («un ricordo non teme la morte / ma sfida la vita»), nonna che, invece, si ricorda. C’è continuità di tema nei testi. Perché un buon libro è tale anche nella scelta “temporale” dei testi, o la sua collocazione nella geografia verbale dei concetti, o umani sentimenti che gli stessi esprimono. Masuccio si ammanta di opacità («Ciò che non sono / devo a quel che sono, / snervante slancio / di una mente eterna / sorretta da polvere»), un mea culpa i suoi versi («Mi annienta / la coscienza del mio nulla / e ancora respiro»), che tuttavia discosta profondamente dalla poetica: chiara, limpida, che arriva diretta.

Che c’è da rinnegare la poesia che si chiude in se stessa, come fosse un esercizio di stile, e non un modus (alto, certo) di arrivare al fuoco centrale. Masuccio guarda e ci invita a guardare nel mirino, ci accompagna nella messa a fuoco, e scatta. Non realizzando (come ricorda la sana ossessione di Sebastião Salgado per la sua arte dell’immagine) la rappresentazione della realtà, ma raccontandone la prismatica essenza. Ognuno scatterà e vedrà il risultato del suo atto come gli sembrerà più adatto, chiaramente, in quella reciprocità che esiste tra luce dell’io e luce dell’ambiente. Intanto, Masuccio ci aiuta a compiere il gesto:

«riflessione sulla poesia

Non ha senso
e ne dà. Come un giglio
che gridi a chi passa,
da un ciglio di via:
“Fin qui visse un uomo”».

 

Una “manifattura” piacevole, scevra da banalità, mai insipida, anche nel tu amoroso (come lo definisce nella prefazione Giovanna Rosadini) a cui ricorre l’autore sul principio della fine dell’intero testo, che parla di prigioni, ma augurando che ne siano chiavi reciproche.

«Certo il mio amore è la colpa
di un liuto scordato
che rischia la nota,
ma vivo di te o già morto
io non posso durarti oltre», scrive Masuccio; come nel Mario Luzi che mette nella logica binaria la pena il durare oltre l’attimo dell’amore, che “aiuta a vivere, a durare”, che “annulla e dà principio”.

È un esordio fatto di sapienza quello di Gerardo Masuccio. Che ci lascia orfani nel suo congedo, eppure ci trattiene oltre l’attimo della fine, come quella «ultima biglia» nel «cassetto dell’infanzia», che avevamo dimenticato di aver trattenuto anche noi.

Gerardo Masuccio, autore di “Fin qui visse un uomo” (Interno Poesia)

Abbiate timore dei poeti,
il vuoto si schiude al loro sguardo
e li seduce, li snatura, rende
ciò che si deve ciò che si dovrebbe.

Abbiate timore dei poeti,
che nutrono i mari di fiamma
e serrano i venti nel pugno.

Estranei alla propria natura,
rinnegano il senso dell’uomo
e nella vertigine ignara
del suono e del verbo
conoscono il volto di dio.

Abbiate timore dei poeti,
interrano il fiore
per coglierne il seme,
perché sanno che è fine il principio
e che solo nel tempo di un verso
la vita si esprime.

Da “Fin qui visse un uomo” – Interno Poesia

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