Un mosaico, recita il sottotitolo di Lilith di Davide Nota (Luca Sossella ed., 2019), a sottolineare, con ogni probabilità, una volontà di ricomposizione che combatte e al tempo stesso è intrinsecamente costitutiva all’esplosione della forma – sia essa ‘romanzo’ o ‘poema’ – che caratterizza l’opera. È un dualismo che si ripercuote, poi, sull’intera struttura – per quanto adeguatamente ‘destrutturata’, in presenza di una scrittura che l’autore stesso ha dichiarato essere ‘a-narrativa’ – rivelandone i moventi profondi.
Questo accade già nell’incipit – “Oh Lilith, oh Eva” (p. 9) – nel quale emerge quel processo di transculturazione, reso celebre dal lavoro di Siegmund Hurwitz (1980), che ha portato la divinità mesopotamica all’interno della tradizione religiosa ebraica, come ‘la prima Eva’. Naturalmente, non è tanto il rovello di Hurwitz, ovvero il lato oscuro della femminilità – più che ‘oscuro’, in realtà, ‘liberato’ dalla normatività e dalla normalizzazione cui va incontro la figura di Eva, nella tradizione giudaico-cristiana – a interessare, in un testo in cui, ancora una volta, vanno incontro all’esplosione, e al tempo stesso si intendono ricomporre, i generi (intesi sia come costruzioni sociali dell’identità sia come generi letterari). Sembra più forte, invece, il riferimento a una dimensione ancestrale, sempre precedente all’impresa normante e normalizzante, che poi si vedrà riflessa, amplificata e approfondita, in Lilith, dal continuo andirivieni tra una dimensione disgregata della socialità contemporanea (insieme urbana e virtuale) e una dimensione naturale dai tratti religiosi (sempre laicamente intesi).
Si tratta, per fare un esempio, di una scrittura che ha origine e al tempo stesso anela alla grotta della Sibilla – a un certo punto si legge, condensata in poche parole, la sua storia: “In te volle incarnarsi la Sibilla e nel tuo ventre dimorò la pietra di Cibele nera” (p. 34) – che sovrasta i Monti Sibillini, tra Ascoli Piceno e Fermo. Il dato non è peregrino, perché va, tra l’altro, a sommarsi a tutti quei lacerti autobiografici che serpeggiano nel testo, e che sono sempre opportunatamente manipolati, fino a far diventare dubbioso, sospetto o anche enigmatico, il più radicale dei disvelamenti (come accade non tanto nella cosiddetta autofiction, quanto in poesia).
Questo andare verso la Sibilla non è, tuttavia, una ricerca di oscurità o di preziosismo formale che resta fine a sé stessa, malgrado la lettura di alcuni, sparuti passaggi dei 99 frammenti di Lilith possa forse dare questa impressione. Altrettanto forte, infatti, è l’investimento autoriale in una serie di chiare e nette dichiarazioni di poetica, che riverberano la prima, e forse più importante: “Ma sono tutti diventati gli altri, alla ricerca di una posizione. Vogliono credersi salvi per giudicare, alla maniera dei padri” (p. 9).
La questione del rapporto con i padri (e con le madri, occorre sempre aggiungere, aprendo progressivamente il ventaglio delle filiazioni fuori dall’eteronormatività della traduzione letteraria) è stata una costante del dibattito critico fino a qualche anno fa. Qui sembra essere rinnegata e al tempo stesso riproposta, quasi che il conflitto culturale e politico della generazione dell’autore con le generazioni precedenti sia stato perso perché, in fondo, mal gestito, o meglio, perché orientato unicamente alla presa del potere.
A questo genere di critica si associa, però, una svalutazione dello stesso gesto intellettuale, nel momento in cui la “posizione” di potere risulta indistinta dalla “posizione” che continuamente si assume nella scrittura e fuori di essa. Svalutazione che, inevitabilmente, finisce poi per associarsi ad una concezione della storia come “abbaglio” (p. 130) e a frammenti severamente assertivi come il seguente, che riportiamo per intero: “Si torna alla figura dell’ebreo errante, dentro la storia come corpo (di schiavo) eppure mai come spirito (libero). Il tempo che egli attraversa, non l’ha mai contenuto. Per questo non può esistere in nessuna dialettica (e dunque in nessuna avanguardia). E il suo ritorno non si svolge a ritroso” (p. 147).
Credo che il punto-chiave, in questo passaggio sia il venir meno della dialettica, continuamente reiterato in un testo bicorno, a tratti bipolare, di certo non pacificato né sintetico (e qui, sta di certo molto del suo fascino): una volta condotto, quasi catarticamente, il lettore fuori dall’oculocentrismo che caratterizza tanta poesia e prosa contemporanea – “Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente. L’uomo è tornato cieco, finalmente. Ha partorito il suo intelletto. Adesso non gli appartiene più. Adesso può toccare il sole” (p. 103) – e che in Lilith trova espressione paradigmatica nella pornografia del web, occorrerà ancora uno sguardo dialettico, per non farsi irretire dal fondo nichilistico della disperazione.
Del resto, in uno dei frammenti più lievi – quanto ai toni, ma non alle implicazioni – di Lilith, ossia nelle lezioni universitarie di un docente bolognese che promuove il proprio libro, auto-ironicamente intitolato proprio “Lilith”, si legge: “Egli è, a tutti gli effetti, un creativo, il suo talento è dunque impermeabile a qualsiasi forma di disperazione” (p. 84). In questo, che si potrebbe a tutti gli effetti considerare come un “nuovo esordio”, in quanto “nuova opera”, di Davide Nota, si osserva tutta la sua distanza dal lavoro un po’ macchinoso, triviale e forse intimamente reazionario, del “creativo”, per aprirsi la strada verso un approdo che è un punto di riferimento imprescindibile per lettori e autori che siano veramente nostri “contemporanei” (con tutto il paradosso di questa definizione).
Quello che ne emerge, tuttavia, è anche la possibilità che l’approdo sia esclusivamente costituito da una “qualsiasi forma di disperazione”, che Lilith peraltro, molto onestamente, indica, ma lascia ai lettori il compito inquietante di esplorare. Davide Nota ha scagliato una pietra nella grotta della Sibilla: tocca a noi cercare, a tentoni, di andare a raccoglierla.
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