Sonia Caporossi, Hypnoerotomachia Ulixis. Romanzo Onirico. Carteggi Letterari 2019 – di Giuseppe Martella

di Giuseppe Martella

“Non è per un lettore distratto questa scrittura”: le parole di Italo Svevo a proposito dell’Ulisse di Joyce si adattano a meraviglia a questa ultima prova di Sonia Caporossi, opera barocca e labirintica, oltraggiosa e oltranzista in ogni senso: perfetto esempio di quella poetica “massimalista” teorizzatae auspicata dall’autrice in varie occasioni. Siamo di fronte a un’opera che si fonda sulla trasgressione continua e premeditata delle norme sociali e dei generi letterari con cui viene alle prese, e che proprio per questo richiede una riflessione attenta sui segnali di genere in essa disseminati. A partire dal titolo pirotecnico che potrebbe, a seconda dei casi, attirare o spaventare il lettore ma che certamente richiama la Hypnoerotomachia Poliphili (letteralmente “Combattimento amoroso di Polifilo in sogno”), un romanzo allegorico rinascimentale apocrifo, che ha un suo posto nella storia letteraria più per le virtù del suo stampatore, il veneziano Aldo Manunzio, e per le numerose splendide xilografie sul topos classico dellhortus conclusus che lo corredano, che per la novità del viaggio iniziatico ivi rappresentato, che, come diversi altri, si rifà alle Metamorfosi di Apuleio. Polifilo significa in greco “l’amante di molte cosee il racconto inscena la sua ricerca di Polia, la Bellezza ideale che in esse si cela e che svanisce d’improvviso come un’ombra proprio nel momento in cui il protagonista sta per abbracciarla, appena prima del suo risveglio. Lo scenario onirico e il tema trattato, il linguaggio colorito ed enfatico, le descrizioni dettagliate, costituisconoperaltro un tramite appropriato per la resa psichedelica delle imprese di Ulisse e per lo stile digressivo e barocco del “romanzo” di Sonia Caporossi.

Nella sua premessa, appunto, ella ci avverte che il suo è una sorta di romanzo di formazione alla rovescia e se dobbiamo prenderla in parola possiamo ben dire che si tratta di un romanzo di deformazione o addirittura di dissoluzione del soggetto (eroe e tema) sia narrativo che più in generale anche logico ed etico. Siamo infatti di fronte a un conte philosophique in cui, attraverso una sfilata di bizzarre allucinazioni, si realizza fra l’altro una sorta di fenomenologia dello spirito alla rovescia, dove all’auto-trasparenza finale del *Geist hegeliano si sostituisce un grottesco e ilare trionfo della morte corporale. Ciò avviene, nel susseguirsi delle scene, proprio secondo il metodo hegeliano del “superamento/mantenimento” (Aufhebung) di una certa visione del mondo come parte “male-detta” e tuttavia significativa di quella che le succede. Tale metodo viene però ora trasposto in modo “oltraggioso” nella dimensione onirica proprio allo scopo di demolire la stessa idea di sistema filosofico. Sul piano strettamente logico d’altronde, si può ben dire che alla conclusione rassicurante della dimostrazione subentra qui, alla fine del racconto, la domanda sulla possibile inanità di ogni tipo di Logos. In un estremo trionfo della hilaritas che connota le varie stazioni di questa allegorica via crucis, il soggetto, ormai sul punto di essere spogliato di tutti i suoi attributi,chiede infatti sprezzante alla giuria di questo kafkiano processo: “debbo sottoporvi la mia testa, principio femminile, il mio pene, principio maschile, o la mia lingua, principio di noncontraddizione? (92). La prospettiva filosoficopoetica di Caporossi, benché assai sfaccettata, èdunque chiaramente antiaristotelica e il fantasmatico nemico evocato all’inizio del romanzo, per quante maschere possa poi aver assunto in corso d’opera, consiste proprio nel soggettosostanza, il fondamento (hypokeimenon) di ogni rappresentazione che, passando per il cogito cartesiano e per il Geist hegeliano, ha dominato l’intero svolgimento del pensiero occidentale.

Queste mie scarne note intendono dar conto della dimensione saggistico-filosofica del testo, il cui protagonista è però pur sempre Ulisse, per cui la deformazione che qui intenzionalmente si compie, riguarda in primo luogo l’eroe e l’intreccio dell’Odissea, sicché è opportuno leggere l’opera anzitutto nella chiave dell’elaborazione del mito e nella prospettiva della sua ricezione nella nostra storia letteraria. Una ricezione che annovera d’altronde esempi illustri e notevoli torsioni epocali della figura di questo eroe astuto, mendace e curioso: basti qui soltanto ricordare quella dantesca che, distruggendone la singolarità del carattere, lo condanna a un vincolo perpetuo con Diomede nel cerchio infernale dei consiglieri fraudolenti, per fargli infine confessare il proprio naufragio alle colonne d’Ercole, come punizione esemplare, nella prospettiva cristiana, per la sua eccessiva curiosità per il mondo. E si rammenti poi la magistrale riduzione joyciana del decennale periplo mediterraneo di Ulisse alle ventiquattro ore del vagabondaggio dublinese dell’eroe, oramai sdoppiato nelle figure complementari del padre e del figlio, Leopold Bloom e Stephen Dedalus, che sempre si cercano senza mai incontrarsi, sotto lo sguardo attento e disincantato della Penelope di turno, la fedifraga e sensuale Molly Bloom che si rivelerà infine essere la coscienza centrale del romanzo, quella che assolvendo tutti e tutto ne conclude la resa dei conti fantasmatica con l’intero retaggio greco ed ebraico della cultura occidentale. Avendo tracciato così alcune coordinate di lettura e tratteggiato a grandi linee l’orizzonte della ricezione del testo, intendo ora mostrare alcune tappe della decostruzione del racconto omerico realizzata da Sonia Caporossi e mostrare come questo suo ultimo “romanzo” si inserisca nel lavoro secolare di elaborazione del mito omerico e della figura del suo protagonista.  

Odisseus polytropos, tradotto da Pindemonte come “Ulisse dal multiforme ingegno”, è più letteralmente colui che, come il suo antenato Crono, possiede una “mente tortuosa” o anche “dalle molteplici figure”. In questa tipica formula nomeepiteto che presiede alla composizione originariamente orale dell’Odissea, è contenuta la quint’essenza del carattere e del mito di Ulisse. L’eroe dai molti giri e raggiri, erramenti ed errori, è tutto racchiuso in questo aggettivo senza il quale egli rimarrebbe sospeso nello spazio incommensurabile tra i due significati contradditori del termine greco Oudeis, che può significare “ognuno” e “nessuno”. Odisseo” non è infatti neppure un nome, solo un pronome personale indefinito, un Nessuno, una non entità che fluttua nello spazio pronominale come un’anima in attesa della prossima reincarnazione. Odisseo e la sua vicenda non sono insomma nulla di definito senza l’aggettivo polytropos che indica le molte svolte e raggiri che qualificano sia il carattere dell’eroe sia la natura dell’intreccio. L’Odissea era infatti in origine solo la rapsodia orale capace di richiamare alla memoria e di trasmettere i contenuti di una cultura comune, le forme di un ethos condiviso. Essa non era nient’altro che una polytropia, una molteplicità di figure del discorso e dell’azione, raccolte in un unico per quanto molteplice intreccio e trasmesse di bocca in occa. Solo l’avvento del nuovo mezzo della scrittura permise di raccogliere ‘logicamente’ (léghein da cui lógos), le sparse ghirlande dei miti, l’innumerevole messe di formule e di varianti, di toni e di timbri, di registri e di dialetti, e di fissarli finalmente in una unica versione canonica, attribuendoli a un singolo rapsodo-redattore: Omero. Di questo lungo processo di aggregazione logico-poetica di una identità culturale attorno al nome di un eroe, il romanzo di Caporossi è l’esatto rovesciamento.  

Il mito di Odisseo è oggi da lungo tempo entrato in ricezione e la sua significanza culturale per noi fa tutt’uno con la capacità di comprenderne le sue più riposte e feconde implicazioni, di riprendere e variare cioè le figure (del discorso e dell’azione) partorite dalla sua mente tortuosa e di proiettarle nel nuovo spazio multidimensionale in cui ci tocca di abitare. È proprio questo che Caporossi intende fare, con uno stile espressionista e neobarocco, apparentemente lontano le mille miglia dal semplice e luminoso realismo dell’epica greca ma nella sostanza drammaticamente fedele al nomadismo, alla sagace inventiva, al culto per la bugia poetica e alla curvatura perversa della mente dell’ultimo aedo greco, che è anche il primo eroe-narratore della nostra storia letteraria.  

Non potrò, per ragioni di spazio, soffermarmi più di tanto sui dettagli di questo radicale rovesciamento dell’epos greco, ma dovrò limitarmi solo a qualche cenno. Nei sette capitoli del libro di Caporossi assistiamo alla grottesca elaborazione di altrettanti temi e topoi dell’Odissea: acominciare dal capovolgimento della situazione narrativa iniziale dell’eroe che ora non parte più da Itaca per servire la patria ma viene al contrario mandato in esilio senza neanche sapere perché. Egli si trova dunque ad essere espulso dal proprio luogo natio o “piccola patria” (Heimat), separato dai propri affetti e perciò nella condizione di dover sperimentare tutto ciò che gli accade come “unheimlich”, cioè nel contempo prossimo ed estraneo, rivissuto e perturbante. Egli si trova cosìnella condizione esistenziale dell’essere gettato nel mondo e progettante il suo viaggio di scoperta in preda all’angoscia. Il mare aperto dove inizia l’odissea interiore del protagonista si trasformerà così ben presto in un deserto abbacinante, mentre lo schema del ritorno (Nostos) omerico lascerà il posto a quello del vagabondaggio (Wanderung) romantico. Nel capitolo II si entra infatti in una vera e propria terra incognita, “un buco bianco dell’universo”, dove in un parossismo narcisistico il protagonista consuma un amplesso con la propria ombra, che corrisponde alla riduzione del proprio esserci alla condizione bidimensionale del simulacro. Nel capitolo III ci troviamo invece in una grotta, dove il nostro Ulisse incontra la larva diafana di una fanciulla ebrea, una sorta di Calipso spettrale, ai cui sortilegi riesce a stento a sfuggire solo per ritrovarsi, nel capitolo IV, in un fantasmatico castello, corrispondente all’antro di Circe, dove subisce tutte le tentazioni della carne, riuscendo infine a scappare, per ritrovarsi subito dopo (nel capitolo V) in una tenda gialla eretta in mezzo al deserto, dove il nostro eroe compi la propria discesa agli inferi, interrogando il Tiresia di turno, che qui appare come l’incrocio mostruoso tra il saggio e il bruto, fra uno yogi e un ciclope dall’enorme occhio. Anch’esso, come l’ombra, è un personaggio bidimensionale e monocromo, “perfettamente mimetizzato con il fondale della tenda”, “custode eterno del colore giallo” (66),tanto appiattito su di esso che gli è interdetta perfino la possibilità di pronunciarne il nome. Il suo stesso occhio è giallo come ciò che vede intorno, per cui la tenda si scopre essere il luogo dell’indistinzione tra soggetto e mondo, vedente e veduto, nonché della “sospensione temporale indefinita” (70) e della coincidenza tra sapienza e oblio di sé. Una sorta di vuoto ontologico dove tutto sprofonda e dove il nostro eroe apprende infine che la suprema sapienza è l’esercizio perpetuo della dimenticanza. E dove l’occhio mostruoso del Tiresia-Ciclope, che sta anch’esso dimenticando l’immagine di Ulisse, costituisce ovviamente una paradossale caricatura della famosa scena dell’accecamento dell’Odissea.

Nella versione di Caporossi il V è diventato ora l’episodio centrale, prendendo il posto di quello dell’isola dei Feaci dove Odisseo, commosso dal canto dell’aedo Demodoco, incomincia a narrare di persona le proprie disavventure, divenendo di fatto il primo personaggio narratore della nostra storia letteraria. Ora invece l’episodio della reggia di Alcinoo e di Nausicaa viene ridotto a un’appendice della metanoia dell’eroe, a un disgustoso e promiscuo tentativo di seduzione di Ulisse da parte dell’intera famiglia regale. Un semplice, osceno intermezzo prima della dissoluzione conclusiva del soggetto (divenuto ormai metafisico e metanarrativo) di ogni possibile memoria o narrazione legittimante. Ma prima di giungere alla finale spoliazione di sé, il nostro eroe dovrà ancora fare i conti col più subdolo dei suoi antagonisti: la propria ombra, l’unico attributo di cuinon potrà mai liberarsi neanche nell’ora della morte. Quellineliminabile proiezione del, di cui egli aveva preso contezza già alla fine dell’episodio precedente: “Tutta la grottesca imperfezione della mia umanità mi rincorre nel corpo impalpabile di un’ombra che non potrò mai seminare, nella sagoma diafana e reale di un feticcio in forma di Lwha a mia immagine e somiglianza (61).

Questa ultima incolore proiezione del sé, corpo e anima, cosa e segno (soma e sema), da cui nel deserto bianco che si è fatto intorno, dopo aver fatto piazza pulita di tutte le icone della legge e di tutti i simulacri della fede, alibi della buona volontà di potenza, non ci si riesce proprio a liberare. Essa è la silhouette beffarda del suo demone, l’oracolo muto che precede e vanifica ogni altro oracolo, accennando nella direzione della coincidenza fra destino e carattere (daimon), e dunque anche della definitiva inanità di ogni scelta. Essa è il gesto coatto che ci disegna e consegna a noi stessi, quello che precede e talora preclude la parola, il logos in quanto articolazione ordinata del molteplice, incatenandoci alla nostra irriducibile singolarità: alla condizione di monadi senza finestre, coscienze torbide sul cui fondo ristagna e fermenta tutto il brulichio del nostro passato, individuale e collettivo, onto e filogenetico, fino alla prima inaudita radiazione cosmica di fondo, al primo invisibile filamento di DNA, che nell’ombra ci abitano.

La figura dell’ombra rappresenta dunque qui nel contempo il segno e il limite invalicabile della scomposizione del s/oggetto del racconto e dell’appiattimento narcisistico del suo mondo ambiente. Un mondo dove il deserto ha preso infine il posto del mare come luogo delle peregrinazioni di Ulisse e delle sue persecuzioni da parte di un dio adirato – un luogo fatto apposta perché l’ombra assuma infine il ruolo del protagonista e perché questi, l’eroe per eccellenza della letteratura occidentale, abdichi in favore del nulla che lo abita: «Questo deserto sembra essere stato progettato dalla mano sinistra di un dio irato a morte contro di me, fatto apposta per riservare alla mia ombra l’ambito ruolo da protagonista» (60). È questo il senso ultimo della discesa agli inferi dell’Ulisse nostro contemporaneo di cui abbiamo seguito le vicende: l’annichilimento del soggetto (eroe-narratore e tema) del racconto fondante dell’identità, letteraria e culturale, dell’Occidente. E con esso, la decostruzione di ogni narrazione legittimante, di ordine sia religioso che metafisico, sia etico che logico, sia psichico che sociale. L’esito di questa estrema e impietosa elaborazione del mito.    

Essa si è svolta attraverso tutta una serie di continui, improvvisi colpi di scena onirici, scorci da incubo che non hanno niente da invidiare alle smorfie umane di Egon Schiele o alle amputazioni di Francis Bacon, secondo la migliore tradizione espressionista delle arti visive del Novecento. Ma che comunque appartengono all’universale paradigma dello smembramento (Sparagmos) rituale del Dio (Osiride, Attis, Dioniso), per fecondare la terra che abita, nonché a quello del suo cantore-sacerdote, Orfeo, per rinnovare a ogni giro della storia, “il dialetto della tribù” (T.S. Eliot), ossia il linguaggio che è “la casa dell’essere”. Proprio la intenzionale riduzione all’assurdo e al grottesco di questo sacrificio fondatore che sta alla base di tutte le religioni e civiltà (R. Girard), fa qui il paio con il radicale rovesciamento dei principali topoi dell’Odissea, con la deformazione delle figure e dei luoghi che ci sono familiari e con la implicita trasvalutazione dei valori che tutto ciò comporta. Ecco dunque dove la manomissione del mito omerico e dell’ethos del suo eroe si incontrano con la reductio ad absurdum di ogni logos che ne discende, mentre il continuo alternarsi della tragedia e della farsa azzera ogni tensione drammatica che sottende la storia, consegnandoci così un mondo terribilmente piatto ma a suo modo purificato e pacificato, cioè liberato da ogni pregiudiziale teor-etica e perfino dall’ideale della Bellezza-Verità, che si arrendeora al flusso di un divenire neutro che ha digerito perfino quell’ambivalenza narcisistica (tra vita e morte) che attraversa come un Leitmotiv tutte le scene di questo mito terminale, di questo «ipermoderno e metacronico naufragio» (72). L«ultima carnascialata barocca» (85) di una fantasia perversa e ipertrofica quanto si vuole, che si sposa però a una mente lucida e affilata come il rasoio di Occam, nonché ben coltivata come il giardino rinascimentale che ospitò il sogno di Polifilo da cui ha preso le mosse.

Rispondi