Francesco Tomada: Non si può imporre il colore ad una rosa

di Antonio Devicienti

 

Leggo con commozione e ammirazione questo libro del caro amico Francesco Tomada e ne scrivo, grato, pensando al doppio binario che l’ha portato alla luce: la serietà esistenziale e, di conseguenza, artistica di Francesco (per lui la vita è da prendere con serietà e responsabilità assolute, da vivere senza barare) e l’affetto, profondissimo, che lo lega a Natàlia Castaldi – il libro esce in questi giorni per le Edizioni di Carteggi Letterari.

 

tomada

 

Si tratta, allora, di un’opera preziosa per virtù di scrittura e per impegno umano. Francesco si schermisce sempre quando pubblica un nuovo libro, afferma che esso non “era del tutto necessario”, ha paura di venir meno al rigore e all’autodisciplina che lo contraddistingue, e io, che lo conosco, gli credo e so che questo libro, in particolare, viene pubblicato anche come atto d’amicizia e come generosa risposta alla generosità di Natàlia che “Non si può imporre il colore ad una rosa” ha fortemente voluto. Spesso si dimentica, infatti, che ci sono libri che non sono semplici prodotti editoriali, ma frutto di un tempo più o meno lungo durante il quale l’autore ha fatto i conti con la vita: ci sono testi, in questo libro, così belli e struggenti da fare male. E di questo ringrazio Francesco, perché un libro deve anche sapere far male, entrare nella mente per metterla impietosamente davanti a sé stessa.
Ho solo il mio sguardo” s’intitola la prima sezione e siamo davanti a una dichiarazione di poetica coerente con la scrittura tomadiana fin dal primo suo libro: umiltà nel riconoscere che il punto di vista è soggettivo, che la scrittura comincia con il guardare il mondo:

Vietato sporgersi dal finestrino

a G.M.

Viste dalla ferrovia
le periferie sono tutte uguali

il retro dei palazzi popolari
i terrazzi regolari di un’architettura senza fantasia
con i fili del bucato, una tenda per il sole oppure
una parabola

quattro auto ferme ad un semaforo rosso
ma dall’altra parte non passa nessuno

e poi c’è sempre un orto minuscolo e irreale
perso in mezzo ai condomini
dove un pensionato prova a coltivare qualche cosa
mentre l’aria odora vagamente di benzene

ed il treno che corre via veloce
prima che ci si possa chiedere
se la vita è davvero tutta lì

Quello che in molti definirebbero “uno stile asciutto” e una “poesia di oggetti” è proprio sguardo con le sue incursioni in un mondo che tutti conosciamo e riconosciamo e dentro il quale Francesco Tomada cerca la presenza dell’umano: la velocità del treno sembra suggerire l’eccessiva velocità dei ritmi del nostro esistere, mentre affiora la paura che quel poco di umano venga inghiottito dall’anonimità brutale e onnipotente delle città e delle periferie ovunque uguali, omologanti e omologate. La salvezza sta in quel “provare a coltivare qualche cosa”? La scrittura è anche coltivare?

La Terra Promessa

Volevo scrivere di loro
ma mi chiedevo come
perché non so da cosa sono fuggiti
o forse ho paura di immaginarlo

camminano a piccoli gruppi
in cui non parla nessuno

aspettano a decine fuori dalla Caritas
quando è ora di cena
qualcuno telefona altri guardano la strada
soltanto pochi sorridono

dormono sulle rive dell’Isonzo
eppure hanno i vestiti in ordine e puliti

volevo scrivere di loro
anche di Tajmur
ma ieri
se lo è preso il fiume

L’Isonzo è, per noi Italiani, uno dei fiumi della Grande Guerra, memoria d’una frontiera sanguinosa e fratricida; esso è ora nuova frontiera e luogo di un’attesa, transitoria stazione tra una fuga e una speranza. In maniera significativa, Francesco esordisce dicendo “volevo scrivere di loro” e aggiunge “ma mi chiedevo come e, al di là del testo specifico, la questione è proprio “come” scrivere dei migranti, tema da un lato di moda nella poesia di questi anni (e scrivo “moda” a ragion veduta: ho letto fin troppi testi nei quali era assente ogni reale interesse per la sorte di queste persone) dall’altro caparbiamente resistente ai tentativi da parte della scrittura di rappresentare le realtà migranti, dal momento che retorica e ovvietà sono costantemente in agguato; Tomada risolve grazie all’asciuttezza del suo stile e all’improvviso cambio di prospettiva nell’ultima strofa che, con onestà totale, mette la scrittura innanzi alla sua incapacità di dire. Accade così che fin da subito l’autore voglia fare i conti con lo scarto radicale tra realtà e sua rappresentazione in poesia, ma anche che ribadisca la caparbia volontà della poesia stessa di dire.
Per me diventa in tal senso illuminante un testo apparentemente lontano dalle tematiche testé illustrate:

Luglio

Trentasette gradi ed il respiro
è un rosario faticoso e triste
anche i girasoli chinano le teste
per la siccità e lo sfinimento

tutto il pomeriggio è nel rancore
di quest’aria fissa che ci prova ma
non riesce a diventare vento

Il “rancore” è infatti termine esatto e, mi si consenta di scriver così, compiutamente tomadiano; chi ne conosce i libri precedenti sa bene infatti quanto amore per le persone della sua famiglia e per i luoghi della sua vita nutra Francesco, ma anche quanto dolore e quanti conflitti siano appartenuti a quei medesimi amori: “rancore” è l’amore che soffre e che reca dentro di sé la rabbia di non riuscire compiutamente a realizzarsi; “rancore” è la consapevolezza di quel che sarebbe potuto essere e che non è riuscito a realizzarsi; esso è, ancora, dolore per lo spreco d’amore o per la resistenza che le cose e i fatti oppongono al nostro voler essere felici (vedasi, a mo’ d’esempio, il difficile, tormentato rapporto con il padre); esso è, inoltre, il sordo rovello che gira dentro la mente causa fatti o occasioni dolorosi o abortiti o conflittuali; “rancore” sente l’aria (la scrittura) perché non sa farsi vento (non sa compiutamente dire).
E a seguire scelgo un altro esempio emblematico del modo di scrivere dell’autore goriziano:

ad A.

Io chiedo che cosa ha tua mamma
e tu rispondi un tumore

il male che non si può nominare
tu lo pronunci in modo disarmante
come dire tazza albero ombrello
un oggetto qualsiasi che esiste
e dunque parliamone pure

come se il cancro di tua madre
fosse una cosa da cui
tu puoi guarire

La malattia e la presenza della morte, certo, si tratta di questo, ma, anche, di quel modo di rovesciare la prospettiva dello sguardo, di usare la scrittura come un grimaldello che scardina le abitudini del pensiero e della psiche, che spacca il reale e ne mostra le ombre più profonde e dense.

Quando ti hanno detto

a G.N.

Che bella parola è nidificare
dà idea di ritornare per mettere radici

“le cellule hanno nidificato
sulla parete superiore del fegato
in metastasi dalla dimora polmonare”

tengo queste righe a dieci centimetri dal cuore
per cercare di capire
se sono davvero dedicate a me

non è la prima volta che le mie poesie
rileggendole mi fanno paura
dicono cosa portavo dentro senza saperlo

ma questa non l’ho scritta io
e fra tutte
è la più dura

Francesco Tomada porta dentro di sé la scrittura come costante confronto con il male, come scandaglio dell’inferno interiore – e come rigore di pensiero antiretorico e antisentimentalistico. Non può esserci se non “l’amore sbilenco” (titolo della seconda sezione del libro), un amore coniugale già oggetto di straordinari testi nei libri precedenti e che trova qui, per esempio, versi di delicata limpidezza:

Solstizio

Ho messo da parte per te
un’ora di giugno quando sui vetri
la trasparenza non ha conosciuto la brina
né il freddo che gela l’acqua e
rende il metallo così indifferente al tatto

ora puoi
levare il maglione di lana
lasciare la tua catenina
che oscilli a filo di pelle
e guidi il mio sguardo che cerca
tra i tuoi seni un punto
per attecchire e
farsi lucido

come un monile d’oro

Lo sguardo, ancora, splendidamente paragonato a un monile d’oro e che contempla il corpo amato della moglie; si noti il tono delicatissimo, la perfetta partitura dei versi, il ritmo degli a capo. E l’amore anche nei momenti toccati dalla malattia:

L’amore sbilenco

Ti si blocca l’articolazione della bocca
per il medico è l’artrite che si annuncia
un inizio di vecchiaia

ma quando tu non stai bene
tutta la famiglia si ammala
non puoi sorridere
non puoi mangiare

in pochi giorni perdi
quei chili di troppo che avevi indossato

e io mi vergogno di guardarti con questi occhi
adesso che il dolore
ti rende così bella

Poi s’incontra un testo nel quale la semplicità d’espressione sembra ancora maggiore, cosicché il lettore capisce che scrivere d’amore è, oggi, ancora possibile e che lo può fare un poeta che ha saputo rasciugare in modo radicale l’espressione, che ha rinunciato a ogni abbellimento retorico-stilistico, che ha raggiunto una delle cose più difficili in poesia: l’irreversibile semplicità:

Viene buio presto

Il tavolo con i piatti sporchi della cena
una bottiglia di vino bevuta a metà
per darci un po’ di svagatezza
e io penso a quando ci promettevamo
di restare insieme per sempre
abbiamo mentito
l’eternità non esiste
amare è un verbo che ha senso soltanto al presente
così prima che tu possa sparecchiare
allungo la mano per stringere la tua
come i bambini che non vogliono dormire
perché hanno paura
di non svegliarsi più

cop_tomada

Dalla lirica “Un giorno sbagliato” riporto gli ultimi versi: “come sempre quando qualche cosa mi consuma / volevo parlare di case e di pane e invece / ho parlato di noi”, così come faccio daCromatografie”: “allora la sola cosa da fare / è la più difficile di tutte // mettersi lì e ricominciare – anche in questi casi è dato riconoscere un modo di procedere classico per Tomada: la riflessione attorno all’amore avviene traverso la quotidianità e l’osservazione di situazioni o fatti normali, quotidiani appunto; il fine è sempre quello di conservare piena coscienza del legame amoroso e dei suoi sviluppi; è in tal senso che la lirica amorosa tomadiana è anch’essa tutta fatti, cose e concretezza e capace, proprio per virtù di stile e di costruzione strofica, di essere delicatissima, struggente, tenera e traversata da una sincerità totale, talvolta dolorosa, talaltra esaltante.
Un laconico “49” segna l’inizio della sezione successiva, legata all’amata terra natale del poeta, il Friuli, alla sua infanzia e all’avvenimento che ne ha segnato per sempre l’esperienza esistenziale, cioè il terremoto:

15 settembre ’76, mercoledì

Il giornale radio racconta di come i friulani siano gente tutta di un pezzo, sono distrutti ma resistono. Finirà il terremoto, si stancherà prima di loro.

Io esco di casa e per sentirmi all’altezza preparo lo sguardo più duro che un ragazzino di dieci anni sa fare. Devo andare dai nonni in fondo al paese, a quel che ne resta. Devo vedere come stanno.

Da dentro una tenda una signora mi vede e mi dice “Fa caldo e tu hai la faccia stravolta. Fermati a bere e poi vai”.

Importanti non sono le cose, ma chi te le dà quando servono.
Un flacone di disinfettante. Vestiti. Un rimorchio pieno di mattoni.
Ma anche uno sguardo e un bicchiere di acqua e limone.

Ecco, in questo “15 settembre ’76” c’è Francesco come io lo conosco e stimo: sguardo chiaro e mai indulgente su sé stesso, rispetto per gli altri e per le cose, sensibilità nei confronti di uno sguardo, di un gesto. Il Francesco che da bambino veniva mandato a comperare le uova ha imparato un atteggiamento che è rimasto intatto (da “Ines”): “Ricordo: attraversare il paese, adattare le mani alla fragilità dei gusci. / Proprio come adesso”. Penso non ci sia descrizione più efficace per l’atteggiamento della persona e del poeta che Francesco Tomada è: attraversare il paese, cioè guardare con gli occhi della scrittura la realtà; adattare le mani, cioè possedere sensibilità e attenzione in prevalenza per ciò o per chi è fragile (e connessa mi viene in mente anche l’idea che ciò ch’è fragile è, spesso, prezioso). Consequenziale appare, allora, che il testo in cui si legge il verso che dà il nome all’intera raccolta abbia come protagonista Alessio (con Giordano e Lorenzo uno dei figli di Francesco); scrivo questo perché l’ambito familiare caratterizza da sempre la poesia del Nostro (pure in questo libro ci sono testi, per esempio, che evocano altre due figure fondamentali, vale a dire la madre e il padre dell’autore) e perché Francesco trova in ognuno dei figli una proiezione del sé stesso passato e di quello presente, pur nella consapevolezza che si tratta di personcine autonome e che stanno seguendo la propria strada sotto lo sguardo affettuoso e talvolta apprensivo del padre:

Non ci sono più le stagioni di una volta

Non so nemmeno cosa speravo per lui
che diventasse ingegnere
oppure biologo come me
invece Alessio adora le rose

quando in giro ne vede una bella
strappa via un getto e lo pianta in giardino
lo bagna e lo cura perché attecchisca

quando fiorisce qualsiasi colore va bene
se è quello che prevedeva perché gli piace
se invece è diverso lui si sorprende e sorride
“non si può imporre il colore ad una rosa”

così io che ho vissuto
per tante volte la mia primavera
adesso scopro la sua

Sfido chiunque a non commuoversi davanti a versi come questi; e leggiamo ora il testo che chiude la raccolta:

Nel giorno del quarantanovesimo compleanno

Adesso sono sulla punta della vita
da qui si vede lontanissimo
in ogni direzione

mio nonno che dorme sulla poltrona
con un gatto marrone sulle ginocchia

il pallone calciato verso la porta dell’autorimessa
una volta su trenta si infila nel sette
e io divento Anastasi

i seni piccoli di mia madre sotto la vestaglia
quando si piegava per rifare i letti e poi tu
quando ho visto il tuo corpo per la prima volta
ho pensato che finalmente
il mondo mi aveva perdonato

i figli che i miei figli
adesso dicono di non volere mai
e speriamo che uno almeno sia bambina

io che invecchio peggio di te e allora
per strada dovrai
ricominciare a tenermi per mano

tutto adesso è qui
la cura con cui mio nonno sceglieva le parole
è diventata il mio silenzio
un pallone sgonfio da calciare in giardino
tutto adesso è qui

e come un arto amputato
sento già il calore della mano
che ancora non mi hai dato

Concludo: questo libro ci restituisce la scrittura di Francesco Tomada (stile e temi) in una coerenza direi ferrea coi libri già pubblicati dal poeta friulano (e chi ancora non li conosce li cerchi, li legga); chi crede nella poesia quale inveramento anche sul versante stilistico ed estetico di una serietà e di un rigore esistenziali, qui avrà motivi per riconoscerla e ammirarla; Non si può imporre il colore ad una rosa nasce per affetto amicale e si offre ai lettori con la semplicità di cui è capace solo chi scrive seguendo una reale necessità e sottoponendo i propri testi a impietoso, continuo vaglio, sia stilistico che etico.

Anche il presente volume è pensato come un dialogo tra le proposte grafiche di Francesco Balsamo (sempre magistrali nel cogliere il clima di una scrittura e nel reagire a essa) e i testi di Francesco Tomada.